2
Il peso, fu la prima cosa che notai. Era innaturalmente esagerato a cospetto di quello che la dimensione dell’arma dava a vedere. Potevo impugnarla in una mano soltanto e farla funzionare con il solo ausilio di due dita. Pistola, l’aveva chiamata l’Uomo con la tessera rossa (Schiavista, per gli amici più stretti). Ora la tenevo ben salda nel palmo, quell’arma, premendola contro il petto come fosse un cucciolo di cane, per paura che mi scivolasse. Il sudore della mano rendeva l’impresa più ardua. Nelle profondità del metallo avrei giurato di percepire un primordiale battito concitato, al quale ne era seguito un altro, poi un altro e un altro ancora. Attraverso la presa sul calcio della pistola, di un sandalo lavorato a mano in maniera impeccabile, l’onda di risonanza di quei battiti mi pervase l’anima, come un grosso tamburo di guerra permea lo spirito di un guerriero. Non riuscii mai a capire se quei tonfi sordi fossero stati davvero il sound di un cuore pulsante della pistola o se in realtà fossero stati l’eco delle mie arterie compresse che davano voce al mio cuore concitato.
Fino a diciannove ore prima mi ero guadagnato il mio angolo di pace, nel mondo. Angolo di pace per modo di dire, ad essere sinceri. Vivevo la mia tranquilla esistenza da schiavo: miniera, taverna, letto e di nuovo il solito tram-tram. Ma mi ero talmente abituato a quella merda di vita che ero diventato essenza stessa di quella vita. Essenza stessa del Far West. Così ora, catapultato all’improvviso in quel teatrino da brividi, ogni angolo del mio cervello stava protestando affannosamente. Alla faccia della confort-zone, fratello. Me ne stavo lì in piedi in mezzo al nulla, nel centro esatto di uno sconfinato mare di brulla desolazione. Mi sentivo scoperto, osservato e minuscolo, mi sentivo costretto da una morsa invisibile, dove da un lato la volontà del prigioniero si abbatteva dall’altra parte contro l’imperatività dello schiavista. E io, l’elemento intruso di quell’elementare algoritmo, nel mezzo di due fuochi, pronto ad essere schiacciato.
Il prigioniero era un uomo, anche se sulla sua gruccia era rimasto appeso ben poco che poteva definirsi umano. Se osservare il colore della sua pelle mi aveva dato la nausea, l’odore della sua cute mi mandava direttamente in coma, senza viaggio di ritorno. Non era semplicemente carbonizzato, era un vero e proprio tizzone ardente con le fattezze di un uomo tirato fuori dalla brace. Sapeva di tacchino abbrustolito. E la cosa peggiore era che lo trovavo invitate. L’idea malsana che erompeva dal mio cervello era quella di voler assaggiare un boccone di quella carne cotta a puntino. Così il mio stomaco, contrariato da quella scialba trovata, decise infine di mostrare al mondo la sua aperta disapprovazione esibendosi in una sinuosa tripla capovolta carpiata. Che invece di atterrare in piedi finì con una sciatta rovesciata di vomito sui miei stivali. Per fortuna l’odore di whiskey che ne divampò riassestò, almeno un poco, il rollio della mia nave mentale.
Sentii lo schiavista bofonchiare alla mia sinistra, probabilmente stufo di dover aspettare tutti i miei cazzo di comodi. “Cristo” mi parve di sentirlo imprecare. (Chi è Cristo?).
Non potevo farlo, ne ero certo, nemmeno se avessi aspettato cent’anni. Quello che mi aveva ordinato di compiere, lo schiavista, era un fottuto omicidio. Omicidio! E anche se il prigioniero di fronte a me era stato un assassino, non ci sarei riuscito. Perché io, poi? Mettetevi nei miei panni. Arriva un uomo, ti strappa dalla tua vita di sempre, ti riempie di alcool, ti ficca un’arma con un cazzo di cuore che batte nel suo freddo metallo di merda, e ti ordina di uccidere un assassino. E tu che ti eri immaginato di ritrovarti di fronte ad un mostro, perché è così che pensiamo gli assassini, che ne so, tipo: alto tre metri, con la testa deforme, tre occhi giganteschi e una pelliccia fitta come un lupo. Sì, tu che ti aspettavi di trovarti davanti il lupo mannaro di Cappuccetto Rosso e che invece avevi di fronte un cazzo di uomo, più simile a te di quanto potevi credere. E aggrapparti al fatto che fosse stato un assassino come scusa per spegnerlo definitivamente era un po’ come arrampicarsi sugli specchi. Credetemi, la sensazione era esattamente quella.
Il metallo argentato della pistola rifletté il mio deragliare psicologico in una sorta di ghigno oblungo, rendendo ancora più difficile digerire il tutto.
Ma una tiepida mano cinse la mia spalla, tirandomi a galla dai miei pensieri abissali. Quando mi voltai, annegai molto volentieri nelle iridi dorate dello schiavista, così calde da potervi trovar rifugio perfino nelle più gelide giornate d’inverno. Il mio cuore rallentò e i miei muscoli si ritrassero. Mi sentivo di nuovo a casa, sparato all’improvviso in un mondo felice. Ma tutta la piacevole accoglienza di quello sguardo venne inghiottita di colpo, assieme alla mia tranquillità ritrovata, dentro un buco nero che mi parve farsi largo, pian piano, dai suoi occhi fino ad inglobare tutto l’universo. E dal centro di quell’oscurità qualcuno sembrò gridarmi a pieni polmoni qualcosa (Ricordati che se non lo fai ucciderò Wendy, Samuel) che mi fracassò a metà il cervello come un’innocua noce di cocco.
Se dovevo scegliere tra Wendy e un assassino non avrei avuto dubbi, certo. Ma se quell’uomo in realtà fosse stato innocente? L’unica prova della sua colpevolezza erano le parole dello schiavista, cioè dell’uomo che mi stava costringendo a commettere un omicidio. Cercai di scacciare il pensiero scrollando con forza la testa. Gocce di sudore grosse come chicchi di grandine volarono via dalla mia fronte, ma non quei cazzo di ripensamenti. Quelli si facevano sempre più largo nella mia mente, penetrandola inesorabilmente come un cancro bastardo.
Di una cosa ero certo: ero fottuto. E anche la vita di Wendy lo sarebbe stata. Da quel giorno in poi avrebbe dovuto convivere con la consapevolezza che un uomo vergognoso (il qui presente Sam) aveva decretato che la sua esistenza era valsa più di quella di un uomo sconosciuto. Avrebbe avuto anche lei la sua parte di “fottutezza” per essere stata una colpevole involontaria in quanto pedina alternativa di un gioco di morte. Provate voi a vivere con un cruccio del genere. Riuscireste?
Certo, non avrei dato torto a chi, come me, credeva che un’esistenza maledetta era pur sempre un’esistenza. Anche se, forse, a pensarci proprio bene, l’unico che ne sarebbe uscito alla grande sarebbe stato il prigioniero. Arrivederci a tutti. Shut down: il biglietto di sola andata verso il paese ‘niente colpe né ripensamenti’ costa solo ‘una pallottola nel cervello’, Sir.
La mano che impugnava la pistola si stava sollevando in direzione della sagoma del prigioniero. Solo che l’arto non sembrava appartenere più alla mia volontà e, anzi, a me pareva adesso di essere lontano mille miglia, di osservare quella nuova scena dal cucuzzolo di una montagna. Sentii l’appena udibile schiocco delle guance dell’uomo alla mia sinistra e me lo immaginai sorridere tronfio. Vaffanculo bastardo.
Piansi come una bambina mentre il mio pollice tremante armava il cane. Trassi un profondo sospiro prima di sparare. Avrei tenuto gli occhi serrati per tutto il tempo. Ero pronto, finalmente. Premetti il grilletto in un gesto deciso, convinto che il tutto si sarebbe concluso in un attimo. Ma non fu così. Tentai ancora e ancora di spingere quel grilletto a battuta ma questo sembrava essersi bloccato. Mi voltai verso lo schiavista in cerca di risposte ma anche nei suoi occhi lessi stupore, meraviglia, incomprensione. Qualcosa non stava andando nel verso giusto. Afferrai allora la pistola con tutte e due le mani, in un improvviso impeto, più risoluto che mai a finire quel cazzo di gioco per tornare alla mia vita. Iniziai a premere il grilletto con entrambi gli indici. Lo sentii cedere e questo mi spinse a sforzarmi ancora di più. Io e la pistola ingaggiammo una mortale sfida a braccio di ferro. Mi piegai in ginocchio, per richiamare più energie verso le mie mani, le mie braccia e il mio collo, ora imperlate da trame di vene e nervi, contratti allo spasmo. Mi resi conto che prima, per tutto il tempo in cui avevo titubato, non avevo che fatto finta, nel tentativo di convincere un qualsiasi spettatore, che Samuel De La Rosa era in effetti un uomo buono. Ma non lo era in realtà, nessuno di noi lo è, in
quel momento. Piegato in quello sforzo mostruoso mi accorsi che non avevo mai avuto dubbi, che anche se il prigioniero fosse stato un uomo innocente lo avrei comunque sacrificato per la mia cazzo di sopravvivenza. Gli avrei fatto un buco in testa e ci avrei pisciato dentro, se fosse stato necessario. Sì, anche solo per la mia unica sopravvivenza. Chi se ne importava di Wendy! Ero io quello che stava lottando contro tutto (TUTTO, capite?), anche contro una fottuta arma con un cuore. Ma sì, cazzo, io volevo vivere, vivere, vivere, vivere, vivere ancora la mia merda di vita da schiavo. Esplosi in una fragorosa risata distorta, proprio nel momento esatto in cui il grilletto cedette definitivamente.
La brulla terra desolata riecheggiò in un unico fragore.
In uno sganasciato, stridente, innaturale
SBRANG.