Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Il lascito degli dei - Il mio diavolo

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view post Posted on 5/11/2019, 12:35
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Credevo che sarebbe stato più difficile. Ah! Che bello scrivere!

Buona lettura

Baathos

1


TUMP. TUMP. TUMP...


Un giorno di qualche anno fa Cliff Jefferson, il guardiano di Tull, mi aveva punito. Lo aveva fatto perché non avevo obbedito ad un suo ordine. Anche se a dire il vero a me quello era sempre sembrato più un volermi mettere alla prova, che un vero e proprio ordine. E, riflettendoci, non ero mai stato granché con le prove: le avevo sempre fallite tutte. Il fallimento della prova più recente, ad esempio, era il motivo per cui mi trovavo lì dentro, rinchiuso in una fornace da - solo Dio lo sapeva - chissà quanto tempo. Ma in un certo qual modo essermi ritrovato prigioniero in una cella ardente mi sembrava - come dire - una giusta punizione per quel recente fallimento. Il dolore mi dava (sollievo) pace. Invece la punizione che mi aveva afflitto Cliff Jefferson quel lontano giorno nel passato mi era sempre sembrata, ed ancora mi sembrava, esagerata.
Quella remota cazzo di mattina Jefferson mi aveva ordinato di sparare a Jake. Di fronte a me, indifeso, il bambino aveva tremato da capo a piedi, pisciandosi nei calzoni tutto il motivo per cui era stato condannato: la razione d’acqua che la notte prima aveva rubato al vecchio parassita Donald. L’intero villaggio di Tull aveva trattenuto il fiato per un istante che era parso passare in rassegna l’intera eternità. Tutti si erano fermati dietro di noi, due bambini sbagliati nel posto sbagliato. Non avrei mai più dimenticato come gli occhi di Jake avessero roteato in quel modo così innaturale attorno alle orbite, come se avessero voluto trovare una via di fuga per mettersi in salvo. Non avrei mai dimenticato le sue urla distorte confuse nel pianto. Non avrei mai dimenticato quell’odore stuccante che aveva pervaso l’aria, di una dolcezza troppo densa, che ricordava quello di una zucca marcita.
Avevo rifiutato di obbedire, naturalmente. O meglio, non avevo proprio fatto niente. Ero rimasto lì impalato sui miei piedi a fissare Jake, con gli occhi sgranati e la bocca ciondolante, e stavo ancora frignando quando dalle mie spalle era esploso un colpo di pistola che aveva, di botto, riacceso il tempo e fracassato i miei timpani. Il cranio spappolato di Jake si era stampato sul muro di pietra dietro di lui. Il suo cervello era sgocciolato verso il terreno, producendo intricati ghirigori pittoreschi (i graffiti del Far West, baby!). A quel punto anch’io avevo urinato tutta la mia razione d’acqua nei calzoni.

...TUMP. TUMP. TUMP...


Ero rimasto senza acqua per una settimana (Una settimana!). Non pensavo affatto che quella punizione mi fosse stata impartita per soddisfare una qualche forma di sadismo del guardiano di Tull, anche se ad un osservatore esterno potrebbe sembrare così, in effetti. Cliff Jefferson non era sadico. Era un uomo giusto, seppur rigido. Forse fin troppo, in certe occasioni. Avevo sempre creduto che quella punizione fosse in realtà un’esortazione o una specie di lezione. Come se Cliff avesse voluto insegnarmi un qualcosa di essenziale: ‘o spari o ti sparano’. Ma per quanto dura fosse stata quella punizione, la lezione non l’avevo ancora capita.
Ogni ora che era passata, il desiderio di un bicchiere d’acqua era aumentato sempre più. Avrei creduto che sarebbe arrivato un limite massimo oltre il quale l’intensità di quel desiderio si sarebbe arrestata. Ma mi ero sbagliato. Nessuno potrebbe comprendere quanto il cervello dipenda dalle cose strettamente necessarie. Possiamo fare a meno di molte ricchezze, ma non possiamo fare a meno di vivere. Non potete comprendere quanta voglia abbia di funzionare e continuare a muovere i propri ingranaggi, il cazzo di cervello. È spasmodico, se ci pensate, il modo con cui il nostro centro di controllo si attanaglia alla vita e cerca nei modi più disperati di spronare il tuo corpo moscio. Tossicodipendenza all’esistenza. Perché, poi? Che importanza ha l’individuo? La sopravvivenza implica competizione. E la competizione implica la sottomissione. (È tutto sbagliato). Il mio cervello aveva spinto il mio corpo a comportamenti folli, durante quei sette giorni senza acqua. La maggior parte dei quali implicava autoinfliggermi dolore.
L’ultimo giorno Cliff Jefferson aveva posato un bicchiere sulla tavola, proprio davanti al mio naso. Non potrei rendere l’idea di quello che avevo provato nemmeno se tentassi di raccontarvelo in tutte le lingue del mondo perché nessuna di queste possiede un aggettivo tanto coerente. Se l’apoteosi del piacere è l’orgasmo allora bere quel bicchiere d’acqua fu molto più espanso di un qualsiasi orgasmo. L’acqua aveva inondato la mia cavità orale e tutti i neuroni sensoriali stipati là dentro avevano sparato messaggi di piacere, azionando il mio cervello. Quel bicchiere d’acqua mi aveva riempito. E aveva colmato quel terreno di sopravvivenza nel quale le radici del mio cervello si erano abbarbicate.

...TUMP. TUMP. TUMP.


Proprio come il bicchiere d’acqua, quel tump-tump di passi in lontananza mi riempì, il giorno in cui mi trovavo rinchiuso dentro una fornace se non anche il giorno in cui mi avrebbero sparato. Riempì le mie cavità auricolari e di nuovo i neuroni sensoriali spararono messaggi di piacere dritti verso i centri di controllo, riempiendo e risvegliando un cervello che per giorni (mesi? anni?) non aveva che riprodotto lo stesso, identico, costante, monotono sound: dolore. Tutto il mio corpo eruppe in un brivido convulso di piacere che mai avevo provato in vita mia, nemmeno con Rosaline.

(Rosaline. Rose. Rosaline è morta, proprio come Jake. È colpa mia. È morta per colpa mia)

Solo che quei passi non sarebbero stati dolci (fangosi) come il bicchiere d’acqua. Perché dentro il forno lo Schiavista non ci rinchiudeva gli ospiti di casa. Ci rinchiudeva i bambini cattivi (buoni).

I passi si arrestarono e per un momento, un ultimo piacevole sospiro, mi godetti il mio attimo di pace prima della tempesta. Poi seguirono rumori distorti: stridore di ferro contro ferro, urla indistinte di esseri disumani, bastoni di acciaio contro la roccia lavica, sferragliare di catene.
Mi sarei pisciato nei calzoni anche allora, se solo la mia vescica non fosse stata secca come il deserto e se solo avessi indossato calzoni.
 
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view post Posted on 10/11/2019, 00:54
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2



Il peso, fu la prima cosa che notai. Era innaturalmente esagerato a cospetto di quello che la dimensione dell’arma dava a vedere. Potevo impugnarla in una mano soltanto e farla funzionare con il solo ausilio di due dita. Pistola, l’aveva chiamata l’Uomo con la tessera rossa (Schiavista, per gli amici più stretti). Ora la tenevo ben salda nel palmo, quell’arma, premendola contro il petto come fosse un cucciolo di cane, per paura che mi scivolasse. Il sudore della mano rendeva l’impresa più ardua. Nelle profondità del metallo avrei giurato di percepire un primordiale battito concitato, al quale ne era seguito un altro, poi un altro e un altro ancora. Attraverso la presa sul calcio della pistola, di un sandalo lavorato a mano in maniera impeccabile, l’onda di risonanza di quei battiti mi pervase l’anima, come un grosso tamburo di guerra permea lo spirito di un guerriero. Non riuscii mai a capire se quei tonfi sordi fossero stati davvero il sound di un cuore pulsante della pistola o se in realtà fossero stati l’eco delle mie arterie compresse che davano voce al mio cuore concitato.

Fino a diciannove ore prima mi ero guadagnato il mio angolo di pace, nel mondo. Angolo di pace per modo di dire, ad essere sinceri. Vivevo la mia tranquilla esistenza da schiavo: miniera, taverna, letto e di nuovo il solito tram-tram. Ma mi ero talmente abituato a quella merda di vita che ero diventato essenza stessa di quella vita. Essenza stessa del Far West. Così ora, catapultato all’improvviso in quel teatrino da brividi, ogni angolo del mio cervello stava protestando affannosamente. Alla faccia della confort-zone, fratello. Me ne stavo lì in piedi in mezzo al nulla, nel centro esatto di uno sconfinato mare di brulla desolazione. Mi sentivo scoperto, osservato e minuscolo, mi sentivo costretto da una morsa invisibile, dove da un lato la volontà del prigioniero si abbatteva dall’altra parte contro l’imperatività dello schiavista. E io, l’elemento intruso di quell’elementare algoritmo, nel mezzo di due fuochi, pronto ad essere schiacciato.

Il prigioniero era un uomo, anche se sulla sua gruccia era rimasto appeso ben poco che poteva definirsi umano. Se osservare il colore della sua pelle mi aveva dato la nausea, l’odore della sua cute mi mandava direttamente in coma, senza viaggio di ritorno. Non era semplicemente carbonizzato, era un vero e proprio tizzone ardente con le fattezze di un uomo tirato fuori dalla brace. Sapeva di tacchino abbrustolito. E la cosa peggiore era che lo trovavo invitate. L’idea malsana che erompeva dal mio cervello era quella di voler assaggiare un boccone di quella carne cotta a puntino. Così il mio stomaco, contrariato da quella scialba trovata, decise infine di mostrare al mondo la sua aperta disapprovazione esibendosi in una sinuosa tripla capovolta carpiata. Che invece di atterrare in piedi finì con una sciatta rovesciata di vomito sui miei stivali. Per fortuna l’odore di whiskey che ne divampò riassestò, almeno un poco, il rollio della mia nave mentale.

Sentii lo schiavista bofonchiare alla mia sinistra, probabilmente stufo di dover aspettare tutti i miei cazzo di comodi. “Cristo” mi parve di sentirlo imprecare. (Chi è Cristo?).
Non potevo farlo, ne ero certo, nemmeno se avessi aspettato cent’anni. Quello che mi aveva ordinato di compiere, lo schiavista, era un fottuto omicidio. Omicidio! E anche se il prigioniero di fronte a me era stato un assassino, non ci sarei riuscito. Perché io, poi? Mettetevi nei miei panni. Arriva un uomo, ti strappa dalla tua vita di sempre, ti riempie di alcool, ti ficca un’arma con un cazzo di cuore che batte nel suo freddo metallo di merda, e ti ordina di uccidere un assassino. E tu che ti eri immaginato di ritrovarti di fronte ad un mostro, perché è così che pensiamo gli assassini, che ne so, tipo: alto tre metri, con la testa deforme, tre occhi giganteschi e una pelliccia fitta come un lupo. Sì, tu che ti aspettavi di trovarti davanti il lupo mannaro di Cappuccetto Rosso e che invece avevi di fronte un cazzo di uomo, più simile a te di quanto potevi credere. E aggrapparti al fatto che fosse stato un assassino come scusa per spegnerlo definitivamente era un po’ come arrampicarsi sugli specchi. Credetemi, la sensazione era esattamente quella.
Il metallo argentato della pistola rifletté il mio deragliare psicologico in una sorta di ghigno oblungo, rendendo ancora più difficile digerire il tutto.

Ma una tiepida mano cinse la mia spalla, tirandomi a galla dai miei pensieri abissali. Quando mi voltai, annegai molto volentieri nelle iridi dorate dello schiavista, così calde da potervi trovar rifugio perfino nelle più gelide giornate d’inverno. Il mio cuore rallentò e i miei muscoli si ritrassero. Mi sentivo di nuovo a casa, sparato all’improvviso in un mondo felice. Ma tutta la piacevole accoglienza di quello sguardo venne inghiottita di colpo, assieme alla mia tranquillità ritrovata, dentro un buco nero che mi parve farsi largo, pian piano, dai suoi occhi fino ad inglobare tutto l’universo. E dal centro di quell’oscurità qualcuno sembrò gridarmi a pieni polmoni qualcosa (Ricordati che se non lo fai ucciderò Wendy, Samuel) che mi fracassò a metà il cervello come un’innocua noce di cocco.

Se dovevo scegliere tra Wendy e un assassino non avrei avuto dubbi, certo. Ma se quell’uomo in realtà fosse stato innocente? L’unica prova della sua colpevolezza erano le parole dello schiavista, cioè dell’uomo che mi stava costringendo a commettere un omicidio. Cercai di scacciare il pensiero scrollando con forza la testa. Gocce di sudore grosse come chicchi di grandine volarono via dalla mia fronte, ma non quei cazzo di ripensamenti. Quelli si facevano sempre più largo nella mia mente, penetrandola inesorabilmente come un cancro bastardo.

Di una cosa ero certo: ero fottuto. E anche la vita di Wendy lo sarebbe stata. Da quel giorno in poi avrebbe dovuto convivere con la consapevolezza che un uomo vergognoso (il qui presente Sam) aveva decretato che la sua esistenza era valsa più di quella di un uomo sconosciuto. Avrebbe avuto anche lei la sua parte di “fottutezza” per essere stata una colpevole involontaria in quanto pedina alternativa di un gioco di morte. Provate voi a vivere con un cruccio del genere. Riuscireste?
Certo, non avrei dato torto a chi, come me, credeva che un’esistenza maledetta era pur sempre un’esistenza. Anche se, forse, a pensarci proprio bene, l’unico che ne sarebbe uscito alla grande sarebbe stato il prigioniero. Arrivederci a tutti. Shut down: il biglietto di sola andata verso il paese ‘niente colpe né ripensamenti’ costa solo ‘una pallottola nel cervello’, Sir.

La mano che impugnava la pistola si stava sollevando in direzione della sagoma del prigioniero. Solo che l’arto non sembrava appartenere più alla mia volontà e, anzi, a me pareva adesso di essere lontano mille miglia, di osservare quella nuova scena dal cucuzzolo di una montagna. Sentii l’appena udibile schiocco delle guance dell’uomo alla mia sinistra e me lo immaginai sorridere tronfio. Vaffanculo bastardo.

Piansi come una bambina mentre il mio pollice tremante armava il cane. Trassi un profondo sospiro prima di sparare. Avrei tenuto gli occhi serrati per tutto il tempo. Ero pronto, finalmente. Premetti il grilletto in un gesto deciso, convinto che il tutto si sarebbe concluso in un attimo. Ma non fu così. Tentai ancora e ancora di spingere quel grilletto a battuta ma questo sembrava essersi bloccato. Mi voltai verso lo schiavista in cerca di risposte ma anche nei suoi occhi lessi stupore, meraviglia, incomprensione. Qualcosa non stava andando nel verso giusto. Afferrai allora la pistola con tutte e due le mani, in un improvviso impeto, più risoluto che mai a finire quel cazzo di gioco per tornare alla mia vita. Iniziai a premere il grilletto con entrambi gli indici. Lo sentii cedere e questo mi spinse a sforzarmi ancora di più. Io e la pistola ingaggiammo una mortale sfida a braccio di ferro. Mi piegai in ginocchio, per richiamare più energie verso le mie mani, le mie braccia e il mio collo, ora imperlate da trame di vene e nervi, contratti allo spasmo. Mi resi conto che prima, per tutto il tempo in cui avevo titubato, non avevo che fatto finta, nel tentativo di convincere un qualsiasi spettatore, che Samuel De La Rosa era in effetti un uomo buono. Ma non lo era in realtà, nessuno di noi lo è, in quel momento. Piegato in quello sforzo mostruoso mi accorsi che non avevo mai avuto dubbi, che anche se il prigioniero fosse stato un uomo innocente lo avrei comunque sacrificato per la mia cazzo di sopravvivenza. Gli avrei fatto un buco in testa e ci avrei pisciato dentro, se fosse stato necessario. Sì, anche solo per la mia unica sopravvivenza. Chi se ne importava di Wendy! Ero io quello che stava lottando contro tutto (TUTTO, capite?), anche contro una fottuta arma con un cuore. Ma sì, cazzo, io volevo vivere, vivere, vivere, vivere, vivere ancora la mia merda di vita da schiavo. Esplosi in una fragorosa risata distorta, proprio nel momento esatto in cui il grilletto cedette definitivamente.

La brulla terra desolata riecheggiò in un unico fragore.
In uno sganasciato, stridente, innaturale
SBRANG.


 
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view post Posted on 14/11/2019, 11:20
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Dolore inibisce dolore.
È uno dei dogmi che governa la neurofisiologia dell’essere umano. Al cervello arriva una raffica improvvisa di richieste d’aiuto da una specifica parte del corpo (la mia mano spappolata, ad esempio), così che tutta l’attenzione dei centri di comando si sposti esattamente in quel punto, dimenticandosi, almeno per un po’, le restanti aree sofferenti (la mia pelle abbrustolita, nondimeno) che avevano sparato messaggi di pericolo al cervello fino a quel momento.




Caddi di lato, mentre tutto il mio mondo, che altro non era che dolore, scomparve di botto. Dall’estremità del mio braccio, all’altezza del polso, ciondolavano, adesso, inerti frammenti di ossa e sottili filamenti di carne, in un pittoresco schizzo vermiglio che aveva imbrattato tutto il mio fianco sinistro. Un’opera degna di essere esposta in una galleria d’arte, senza dubbio, in un’epoca dove il grottesco andasse di moda, si capisce. Trassi un sospiro di piacere, ritrovando, dopo chissà quanto tempo, lucidità, in quel nuovo dolore. Un dolore molto più sordo di quello che poteva sembrare osservando lo stato del mio braccio sinistro. Quasi come il sottofondo musicale che accompagna una recita teatrale.

Qualcosa non va, là fuori! Mi sussurrò il cervello con una vocina fastidiosa. Chi se ne frega! Gli risposi di rimando.


Stavo così bene, adesso, che avrei potuto farmi perfino un pisolino. E, anzi, lo avrei decisamente fatto, di lì a breve. Forse avrei dormito per un tempo abbastanza lungo da poter essere definito un ‘per sempre’. E la cosa meravigliosa è che non avevo paura. Quello che desideravo era solo che tutto finisse alla svelta. Mi sentivo tanto assopito che lasciarmi andare mi pareva la scelta migliore che avessi.

Ma appena un attimo prima che i miei occhi si chiudessero, un’ombra indistinta, nel velo opaco del mio sguardo febbricitante, si levò da terra, richiamando in vita la mia longeva curiosità. Per un attimo che parve durare un battere d’ali di colibrì, la figura sembrò

(Notaio! Devo ancora firmare il mio testamento. Un’anima maledetta e una testa di cazzo. Lascio tutto a te, ombra indistinta)


squadrarmi. E poi, dopo aver probabilmente preso la decisione di venire a darmi un bacetto sul culo, l’ombra mosse un passo avanti, poi un altro, un altro ancora, e così via. Si avvicinò frettolosamente, come se avesse altre mille faccende urgenti da sbrigare dopo quella di ammirare il buco che un proiettile di piombo mi aveva ritagliato nella mano. Quanto più si avvicinava, più riuscivo a distinguere i suoi contorni e più capivo che non poteva decisamente essere un uomo. Non era il giustiziere che mi aveva sparato poco prima né quel figlio di puttana che gli aveva ordinato di farlo - altrimenti noto come schiavista -, questo era ovvio. A meno che, per magia, non fossero cresciuti improvvisamente di tre metri e non fossero loro sbucate fuori un paio di braccia in più del normale. Ma potevo anche sbagliarmi - sapete com’è - può succedere, specie quando il tuo cervello è scosso da una febbre eccitata per il tuo ultimo viaggio mentale, di scambiare una cosa per un’altra. Lo chiamano delirio pre-morte.

L’ombra indistinta si chinò su di me, ora tanto vicina da sentire il suo alito rovente, e per un istante credetti di trovarmi ancora rinchiuso nella fornace e che tutto quello non fosse altro che un sogno divertente. Ma questa consapevolezza non mi svegliò. Con una voce profonda, roca, adatta per comunicare in una lingua dura e tagliente, l’ombra indistinta pronunciò una parola dolce e strascicata. E così, con quella pronuncia tanto stonata, mi fu finalmente chiaro chi avessi di fronte. E capii che non stavo affatto sognando.
Non so perché, ma nel mio ultimo istante di presenza, trovai buffa quella scena. Forse la più buffa che avessi mai visto. Rantolai un ultimo colpo di tosse che, se non mi avesse trovato in quella condizione precaria, sarebbe stato certamente una grassa risata.

« L e v i »

...


Shut down.



Mi sono concesso una trashata, ma mi sembrava che ci stesse bene
 
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view post Posted on 3/12/2019, 22:15
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4




Cambiai la batteria al giradischi. Ne avevo trovata una scorta in fondo alla dispensa, tra le mille altre cianfrusaglie gettate là alla rinfusa. Posai il vinile sul piatto roteante e mi fermai per un attimo a guardarlo girare in cerchio, con un sorriso beffardo stampato sulla faccia e una Lucky Strike ficcata in bocca. Proprio come l'uomo che tentava invano di cambiare il futuro, anche quel disco era intrappolato in un circolo infinito che lo riportava sempre e comunque nello stesso identico punto, nonostante tutti gli sforzi che facesse per sfuggire ad una (sorte) traccia già scritta. Perché se c'era una cosa che avevo imparato, a mie spese, era che il tempo è immutabile. Non importa quante volte provi a modificare il corso degli eventi, quello tornerà comunque a ripetersi, inesorabilmente, ancora e ancora, riproducendo la stessa, medesima, traccia incisa sul proprio disco di platino chiamato Destino. Perché anche se qualcuno tentasse di forzare la puntina di quel giradischi eterno fuori dal proprio solco, il tempo emetterebbe tutt'al più una qualche nota stridula, per poi riprendere la propria traiettoria, esattamente dal punto in cui era rimasto. E quelle sbavature che dovrebbero intaccare l'essenza stessa dell'intera traccia non fanno che renderla ancora più fedele nella sua unicità. No, no, no, il futuro non si può cambiare. Eppure...

Appoggiai la puntina sul vinile e la musica partì.



Mi gettai sul divano e, sotto il mio peso,
questo si inclinò all’indietro in una protesta metallica,
concedendomi il lusso di un confort dei miei vecchi tempi.


Gli stivali impolverati giacevano sulla soglia della porta d’ingresso, caduti a terra come soldatini di piombo dopo una folata di vento. Lo spolverino era appoggiato all’appendiabiti, arido di polvere. Invece il borsalino riposava sul tavolo, in mezzo ai resti della cena, gettato là a casaccio. C’era stato un periodo della mia vita in cui avevo adorato quel copricapo e l’avevo trattato con tutta la cura che si meritava. Ma mi ero stufato. A dire il vero mi ero stufato di un sacco di altre cose oltre al borsalino. Non biasimatemi per questo aspetto del mio comportamento che pare un consumistico vizio da figlio di papà. Io ero malato, in un certo senso. Immaginatevi di avere un tempo infinito da spendere nella vostra vita, riuscireste davvero a non annoiarvi di qualcosa? Avanti, allora: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Mi ritrovai a girarmi tra le dita la tessera rossa, come mi succedeva sempre più spesso in quei giorni. Perché, nel profondo del mio cuore, avevo sperato di aver compreso il meccanismo e di poter cambiare davvero le sorti di una società disastrata come quella umana del mio tempo, ma a quanto pareva non c'avevo ancora capito un cazzo. E la cosa peggiore era che, in realtà, non me ne fregava nemmeno più di tanto, del mio fallimento, quasi come se stessi iniziando ad annoiarmi perfino di tutto quello che avevo costruito in questa epoca. Eppure la vicenda della tessera era stata la cosa più eccitante che mi fosse capitata negli ultimi anni. Devo ammetterlo: vederla cambiare colore aveva rimesso in moto il mio spirito ingrippato. Tanto da avermi spronato a vivere ancora e a combattere per tutti i miei sogni e per tutti i debiti verso l'umanità che avevo ereditato nel momento che avevo acquisito il potere unico che possedevo.

Fino a qualche decina di anni prima, infatti, quella tessera era sempre stata nera.


Gli ospedali di ultima generazione hanno superato il concetto di finta empatia clinica, modificando quell'attimo intimo, ma imbarazzante, di quando il medico comunica l'esito di una terapia o di un intervento chirurgico. Sentite che mirabolante trovata: digitando uno specifico codice su un monitor, questo ti sputa un tesserino il cui colore ha un determinato significato. Nero, ad esempio, sta per "le casse di rovere da Andy sono in saldo questo mese, amico". Rosso invece sta per "mi dispiace ma il suo caro riposerà per sempre in un profondo stato di coma vegetativo".

Insomma, quella tessera che era sempre stata nera e che, chissà quante vita prima ormai, avevo giurato a me stesso di farla diventare verde ad ogni costo, un giorno di qualche anno fa, quando ormai non ci speravo nemmeno più, era, di botto (puf!), diventata rossa. Ma la cosa spaventosa e al contempo sbalorditiva era che io, in quel preciso istante, non stavo forzando alcuna puntina di nessun album musicale di quel maledetto stronzo di nome Tempo. Non stavo facendo niente. Avete capito cosa significa? Che quel bastardo non è proprio così tanto immutabile come si crede di essere. Esisteva un modo per cambiare il futuro, perché era successo davvero. La mia (Juliette) tessera non è più (morta) nera, adesso è (in uno stato di coma irreversibile) rossa.

E dopo anni e anni di ragionamenti avevo capito come potesse essere successo. O almeno, credevo di aver capito come potesse essere successo, e fino a qualche ora prima non avevo avuto dubbi in merito. Fino a quando Samuel de La Rosa non era stato divorato dalla irrefrenabile forza di inerzia del supremo moto perpetuo altrimenti definito Destino - nonché da, letteralmente, la rabbia di un diavolo.
Avevo ipotizzato che fosse possibile ingannare il tempo creando una sorta di déjà-vu temporale, mimando un evento che il passato avesse già vissuto ma inserendovi alcune piccole e artificiose modifiche al fine di incanalarlo verso un nuovo futuro, che sarebbe partito da quello stesso evento, potendo riscrivere tutto quello che sarebbe successo da lì all'eternità. Il tempo non si sarebbe accorto di tali modifiche perché convinto di aver già vissuto quell'evento le avrebbe accettate senza opporre resistenza. Sarebbe stato fregato e io l'avrei battuto, finalmente. Anche se, con molta probabilità, la cosa avrebbe potuto sconvolgere l'intero piano dell'esistenza, mischiando tempo e spazio in un casino temporalesco. Esattamente com'era successo al Far West dopo che la mia tessera si era fatta rossa. Il tempo era diventato una macchia confusa come quella di un cervello spappolato.

E Levi c'entrava qualcosa, me lo sentivo.


Spensi la cicca sul bracciolo della poltrona.
Avrei avuto altre occasioni per tentare ancora l'impresa di cambiare il futuro. Dopotutto io sono Frank, quello che alcuni di questa epoca chiamano schiavista. Sono l'uomo che ha tutto il tempo del mondo.



Edited by H I G - 3/12/2019, 22:46
 
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