~ Post di presentazione ~
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Black... really no-cleaver
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Il Mitghard, il torrido deserto del mondo umano. Un luogo assurdo, ove qualsiasi forma di vita non poteva sopravvivere per più di pochi giorni. Il calore che saliva dalle dune all'orizzonte deformava tutto ciò che si riusciva a vedere, formava delle onde invisibili che rendevano disumane tutte le figure presenti in lontananza. La luce era troppa e troppo forte. Accecava chiunque guardasse in qualsiasi direzione, anche quella opposta al sole. Si rifletteva sulla vetrosissima sabbia dorata dal pallido colore giallo. L’umidità presente nella torrida aria non aiutava la sopravvivenza.
Una figura buia si presentava all'orizzonte, o meglio, sulla cima dell'unica duna visibile dall'accampamento. Non si capiva bene chi fosse, o quanto alto fosse: gli aloni di calore lo rendeva a momenti enorme, gigantesco, a momenti piccolo, lontano. L'unico fattore che rimaneva immutato era il suono. Il fruscìo della sabbia spostata dai piedi del personaggio rimaneva costante, ritmato, aumentava di volume. La figura si avvicinava. Ecco che, ad un determinato numero di metri, le forme della persona che si avvicinava all’accampamento smisero di mutare casualmente. Ora lo si distingueva perfettamente. Era alto e vestito di nero. Dalla testa ai piedi. Un turbante gli ricopriva testa e volto, lasciando scoperti i soli occhi e il setto nasale, mentre il manto di seta leggera orientaleggiante che lo vestiva sul busto prendeva una forma particolare, in corrispondenza delle spalle. Una notevole sporgenza rivelava la presenza di un’armatura che proteggeva il viandante alla perfezione anche al di sopra degli arti. Un mantello nero e oro gli ricadeva sul dorso, mentre dei leggeri pantaloni sullo stile asiatico, stretti in vita e larghi in prossimità dei polpacci, terminanti con un elastico all’altezza della caviglia, lo vestivano dalla cintola in giù. Essi erano attraversati da ampi aloni bianchi, ovvero i sali lasciati dall’evaporazione del sudore. Le scarpe? Inusuali per il resto dell’abito: stivali scamosciati a suola di cuoio duro, dalla singola fibbia dorata. Una cintura di cuoio scuro, anch’essa dalla fibbia placcata d'oro stringeva in vita l’uomo, mentre una fodera di mezzo metro da cui spuntava una lunga elsa d’oro bianco, giallo e zaffiro pendeva da codesta cinta. Uno schioppo prezioso se ne stava a tracolla sul dorso del viandante, sotto al mantello.
L’alto uomo estrasse da sotto l’indumento una borraccia rotonda. Dopo averla stappata, la portò alle labbra e bevve. Il tappo, legato con una fine cordicella al contenitore, rimase appeso ad esso. L’uomo abbassò la testa, richiuse la fiaschetta e la ripose dove l’aveva presa.
« Ray l’ha pensata giusta, sì, ma poteva darci dei vestiti bianchi? » pensò Zero, mentre entrava nell’oasi popolata dai suoi uomini.
Non appena mise piede sull’erba scosse i piedi, per togliere la sabbia dagli stivali, quasi entrasse in casa ed avesse messo i piedi su di uno zerbino. Si guardò un attimo attorno.
La sorgente nel deserto era piuttosto vasta. A terra cresceva rigogliosa un’erbetta smeraldina, mentre dei cespuglietti spuntavano qua e là, soprattutto in corrispondenza della pozza e dei caratteristici alberi del deserto, le palme, che numerosissime, creavano un tetto naturale il quale proteggeva chi si accampava con una fresca ombra. In fondo all’oasi, ovvero dal lato opposto al quale Zero s’era introdotto, se ne stava l’accampamento sotto il comando dei Toryu. Esso era stato posizionato proprio in quel punto perché lo spiazzo ove appunto risiedevano tutti, nonostante fosse coperto dalle palme, mostrava un minor numero di cespugli. Tende, tende, tende, tante tende bianche e leggere coprivano il manto erboso, disposte casualmente. Ognuna poteva ospitare circa cinque uomini. Subito oltre iniziava, di punto in bianco, una duna sabbiosa piuttosto alta, sulla cima della quale vigilavano a turno le vedette in una torretta di tela.
Zero giunse alla pozza. Rifletteva quegli sprazzi di cielo che gli alberi non coprivano con una limpidezza pura all’estremo. Ottanta suoi uomini si abbeveravano, alcuni prima ed alcuni dopo, con quell’acqua. Erano tanti, tantissimi, molto giovani. Alcuni erano addirittura più giovani di lui, e c’è da valutare che egli aveva appena raggiunto il diciottesimo anno di età. Si dimostravano inesperti e poco fieri anche nei movimenti, ed il cacciatore si rendeva conto che non sarebbe stato facile adempiere al compito che il capo gli aveva assegnato. Per alcuni di essi era la prima missione.
L’abbigliamento dei guerrieri e il loro armamento era misero, tale quale la loro abilità in battaglia. Essi indossavano un’armatura di cuoio nero leggero ma piuttosto resistente e dei pantaloni tali e quali a quelli di Zero, possedevano una spada sfilettata della lunghezza di un metro circa, la cui lama era piuttosto lucente e perfettamente nuova, oltre ad un set di coltelli da lancio ciascuno. La maggior parte di loro era scura di carnagione. Avevano ben pensato di chiamare alle armi dei combattenti nativi delle zone del Mitghard, cosicché sarebbero stati più resistenti al tremendo calore che attanagliava tutto l’esercito.
I mori mercenari tenevano il volto scoperto, al contrario di Zero. Erano infatti guerrieri assoldati da Ray, ma non effettivamente dei Toryu, quindi se anche venivano riconosciuti, ciò non causava un problema troppo gravoso.
« Adunata! In piedi! » berciò con la sua calda voce il cacciatore mascherato. Immediatamente tutti i suoi adepti si alzarono fiaccamente da terra per disporsi un po’ disordinatamente innanzi a lui. Erano tesi, sconvolti, demoralizzati. Si leggeva la preoccupazione sui loro volti.
Zero notò un giovane mulatto, doveva avere circa quattordici anni. Era basso, circa un metro e sessanta, dai capelli mori, grandi occhi scuri. Vibrava, ma continuava a guardare fisso di fronte a lui. Una goccia di sudore colò giù dalla sua fronte, per la tempia…
Il diciottenne comandante posò il suo indice sinistro poco sotto la tempia del ragazzino. La goccia di sudore si fermò sul dito di Zero. Il ragazzino, disattento, immerso nei suoi pensieri, sussultò. Non se l’aspettava.
Il sudore era freddo. Molto freddo. Il cacciatore posò le mani sulle spalle del presunto quattordicenne accucciandosi, parandosi innanzi a lui.
« Hai paura? » mormorò.
Il ragazzino annuì.
« Tu verrai con me. »
Se lo tirò di fianco e fece sì che lo accompagnasse sino al punto dove si trovava prima, davanti a tutti.
Ora tutti si sarebbero aspettati un incoraggiamento, un discorso che li aiutasse a risollevarsi da quello stato di depressione.
« Ragazzi, carichi come molle e tranquilli. Non dico altro, tanto lo so bene anch’io, con gli umani non so parlare. Vi preoccuperei solo di più. Mi dispiace per me e per voi, ma sono cinico e realista. Sapete cosa potrei dirvi… » il tono era impetuoso ma tristemente preoccupato per i propri uomini. Non appena ebbe finito di parlare, camminò dritto innanzi a sé a testa alta. La folla si scostò rapidamente per lasciarlo passare. Lo squadravano. Incuteva timore, rispetto, anche in quelle vesti meno imperiose. Incuriosiva qualcuno per gli stivali, ma questo qualcuno era leggermente più esperto o meno spaventato.
« Sappiamo benissimo tutti che qualcuno morirà… e sappiamo benissimo che non sarò io. » pensò il ragazzo.
Il quattordicenne, giovanissimo mercenario, lo seguì silenzioso e affascinato dal suo comportamento sino alla sua tenda. Essa non differiva da quelle degli altri. Per cinque persone (quindi piuttosto spaziosa) con una branda e i suoi oggetti personali.
Non appena Zero ebbe scostato la stoffa che copriva l’interno dell’abitazione provvisoria con la mano, i due udirono un miagolìo. Una bestia bianca, lucida e lustra e dalle lunghe zanne si avvicinò al cacciatore mascherato. Fu allora che per la prima volta il quattordicenne proferì parola.
« Morde? » sussurrò un pochettino scosso dalla vista di tal bellezza, grinta e aggressività nel bel mezzo del Mitghard.
« Solo i ragazzini mercenari. Ma dai! È un agnellino. Ha più paura lei di te di quanta ne abbia tu di lei. Vero, Micia? » si rivolse scherzosamente Zero al mercenario. Quest’ultimo, all’udire il nome Micia, capì che ciò che diceva quel Capo estraneo era reale. Il gattone era un micio ingrandito una cinquantina di volte circa, ma bastava una smorfia per spaventarlo.
« Come ti chiami? » chiese con voce bassa, roca e profonda Zero, mentre si chinava a riempire la borraccia dando le spalle al quattordicenne.
« Non ho un nome. Mi hanno sempre chiamato Nih, che nella mia lingua significa “nulla”, “niente”, “zero”. » rispose borbottando l’altro, guardando a terra imbarazzato.
« Che c’è da vergognarsi? Io sono Zero, il vero Zero, e pochi altri possiedono un nome così significativo come il nostro. Non ho cognome, non ho famiglia, ma io SONO Zero e tutti lo sanno. » esclamò in tono deciso il cacciatore, fulminando con lo sguardo intensissimo Nih. Già lo amava.
Il giovane Nih chinò il capo, ma subito Zero glielo tirò su con la mano.
« Così devi stare, fiero di te. »
« Ed ora aspettiamo… speriamo che Kiba arrivi presto… »
Zero si sedette sulla branda e tolse il turbante. Di Nih, aveva già capito, poteva fidarsi.
CITAZIONE
Scusate, è un po' scarno di descrittiva, ma proprio non riesco a mettere assieme frasi d'effetto, oggi. Sono giorni che vanno così, se non funzia non funzia XD.