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Le nostre recensioni

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The Grim
view post Posted on 25/2/2014, 09:01





Il sole dell'avvenire
di Valerio Evangelisti


Scrivere una recensione " a caldo " non è quasi mai una buona idea, probabilmente non lo sarà nemmeno questa volta; e avendolo finito di leggere appena un'ora fa posso dire che questa recensione non è a caldo, di più. Premetto che il libro mi è piaciuto, e parecchio. Per descrivere il testo preferisco inquadrarlo nel contesto, e precisamente associarlo ad altri due libri secondo me fondamentali allo scopo: I miserabili di Victor Hugo, e One Big Union sempre di Evangelisti. I tre libri si assomigliano parecchio, per chi non li conoscesse il primo è un affresco corale della Parigi post Restaurazione attraverso le vicende di un ex galeotto e due teneri amanti, il secondo la storia del' IWW (Industrial Worker of the Worlds), una delle organizzazioni sindacali statunitensi più presenti ed attive nel primo Novecento, dagli occhi di un infiltrato dalla Pinkerton. Storie di persone ai margini della società, costretti a tanti e troppi sacrifici per ottenere una vita normale, ma anche documentari storiografici che dipingevano periodi storici ed eventi che si preferisce seppellire sotto il tappeto, lontani dalla vista di tutti. Il Sole dell'avvenire però pecca di stile, ovviamente incomparabile con uno dei capisaldi della letteratura occidentale, ma anche fiacca secondo me rispetto al libro precedente dello stesso Evangelisti. Sono le storie di Attilio, Rosa e Canzio ad appassionare molto più della parola scritta che è fredda e quasi sterile, più impegnata a raccontare le vicende dei socialisti e del socialismo in maniera documentaristica, che ad appassionare il lettore, difetto che invece manca in One Big Union, vuoi anche per il carisma del protagonista tanto bigotto e velenoso. Come al solito Evangelisti ci regala sopratutto una lettura del passato in cui ritroviamo un presente tanto attuale da gelare il sangue, la capacità di distruggere gli stereotipi e sopratutto di cancellare la velenosa (ri)narrazione della " memoria collettiva " mostrandoci un'Italia dal Nord al Sud complessa, unita e divisa, pur lasciando il fulcro delle vicende nella romagna contadina e provinciale. Le trasformazioni radicali che attraversano la penisola, trasformandola sempre più da nazione contadina a potenza industriale, sono ben evidenziate nel testo, che ci fa scoprire la vita contadina prima e dopo questo passaggio; e sopratutto durante. Non è un libro per tutti, ed è spiccatamente rosso, come tutto quello che scrive Evangelisti, politicamente schierato e che non si fa problemi a fare nomi e criticare non solo la classe politica del tempo, ma un grande spaccato della società del tempo, evidenziandone i comportamenti spiccatamente negativi non solo di chi reggeva le sorti della nazione, ma sopratutto dei movimenti di sinistra a cui non risparmia le critiche, e che anzi martella fortemente. Si salvano solo i lavoratori, gli oppressi, i miserabili.

Purtroppo a differenza di altre sue opere, il testo non è arricchito da un'ampia bibliografia, anche perché questa è presente in un saggio storico dello stesso Evangelisti sull'argomento, dove presumo siano presenti tutte le informazioni utili.




Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:02
 
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view post Posted on 15/3/2014, 10:41
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Eternal Light
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The Way of Kings
Brandon Sanderson

A volte si cerca un fantasy per fuggire dalla realtà, per essere catapultati in altri mondi e trovare un’isola, non tanto felice quando differente, dove rifugiarsi.
Tuttavia capita spesso che quest’altro mondo non sia altro che uno specchio della realtà, a volte della propria. Questo è stato il caso con The Way of Kings, opera di recente pubblicazione di cui è da pochissimi giorni uscito il seguito. Il suo autore è uno scrittore già navigato, ma questo non è sufficiente a giustificare la grandezza di tale opera, che personalmente suggerisco di leggere in inglese. Le traduzioni, si sa, sono sempre combattute tra le belle infedeli e le brutte fedeli, ma anche nel migliore dei casi non si può fare a meno di perdere qualche significato semantico e, nelle situazioni peggiori, in errori grossolani che rovinino ampiamente il pathos stesso del testo.

The Way of Kings inizia con qualche capitolo criptico che sia però quasi profetico per gli sviluppi successivi, per lo stesso finale del volume, come se ci fosse una spirale che lentamente giri su se stessa, passando da cerchi sempre più larghi fino ad arrivare verso il centro – sebbene non riesca ancora a raggiungerlo, ma solo ad avvicinarsi a esso, preparando la tempesta che sarà scatenata da quest’enorme ciclone.
L’impressione che dà l’opera è quella, per fare un confronto, non di una costruzione resa solida tramite l’apposizione di mattoni legati tra loro da cemento tenace, quanto quello di un palazzo dalle solide fondamenta che non faccia altro che volgere verso l’alto, con le sue guglie sempre più prossime a toccare il cielo. L’ambientazione di questo libro non è quella del nostro mondo, a differenza di molti altri fantasy la cui dimensione sia soltanto uno sviluppo di quella che conosciamo come Terra modificata leggermente o con importanti dettagli aggiuntivi. L’ambientazione di questo libro è, invece, inventata di sana pianta, con creature ed etnie nuove, arbusti dai comportamenti inusuali, terreni diversi, conformazioni inventate, sebbene la struttura di fondo rimanga la stessa. Sarà difficile, se non impossibile, trovare dei cipressi, osservare il nostro satellite o, addirittura, vedere un cane che abbai. Eppure ogni cosa sembra logica, l’universo non è assurdo e nemmeno così incomprensibile. È soltanto diverso, affascinante nella sua originalità ma non per questo necessariamente – e non è un difetto- più bello.
Come potrebbe esserlo finché ci sono comunque gli uomini ad abitarvi?
La guerra, la morale e la responsabilità sono le tematiche principali del libro. La vita e la morte, la disperazione accompagnata alla speranza opposta all’apatia. Temi tanto universali da poter toccare le corde cerebrali di qualunque lettore, eppure sviluppate così a fondo da riuscire addirittura a farle risuonare: sembra quasi che la brezza che soffia nella propria mente leggendo l’opera risuonasse su di esse come su un’arpa.
Ciò che rende grande l’opera non è, infatti, tanto la sua ambientazione, lo stile narrativo o la sua solidità. Come un grande evento storico è spesso forgiato da grandi individui, ad accompagnare le pagine di The Way of Kings sono i protagonisti o, meglio, tutti i personaggi, tutte le etnie, tutti gli esseri.
La narrazione in terza persona con sprazzi introspettivi è ormai invalsa, eppure non si può fare a meno di essere incantati dalla sfera psicologica che si evince dai vari punti di vista. Come rifacendosi ad antichi stili più orientali – vedi Genjimonogatari, i personaggi non mutano in seguito a tempeste improvvise, non ritrovano la calma dopo un momento di crisi causato da una singola enorme tempesta da risolvere con grande fatica. Sono piccole onde continue, onde amare ma superabili, a portare detriti a riva, come se la spiaggia prima deserta poi si arricchisse di cocci sempre più numerosi che la personalizzino, che la arricchiscano fino a creare una grande diga, qualcosa che riesca a opporsi allo stesso mare e a rafforzarsi a ogni onda, pur dovendo continuamente ricostruire i pezzi che vengono a cedere a ogni impatto.
Ricco di flashback narrativi, è facile vivere insieme ai protagonisti i loro cambiamenti, da quelli degli eroi più negativi a quelli dei modelli personali più eccelsi eppure terribilmente terreni a livello psicologico. Ogni personaggio è perfettamente umano nelle sue fragilità, nelle sue indecisioni, nei suoi smarrimenti e ritrovamenti, tanto che a volte, quando ci si trova a riaprire il libro dopo aver vissuto un poco realmente, viene spontaneo chiedersi se sia il caso a dare le giuste risposte tramite esso, tramite ciò che vivono i vari Kaladin, Dalinar e Shallan, o se i valori che esso trasmetta siano tanto universali da rendere facile trovare risposta tra le righe del testo, come se la si cercasse leggendo dei tarocchi, non tanto per farsi mostrare la via, ma per provare più cinicamente a farsela suggerire.

Ogni storia ha una morale diversa, ogni episodio ha un significato, ma quest’ultimo dipende soprattutto dal soggetto e da ciò che ha bisogno di vedere in quel momento. Ed io mi sento di dire che è facile trovare qualcosa per essere arricchiti a livello personale in questa fantastica opera. La consiglio a chiunque voglia avere un momento di svago, magari alternato alla lettura di classici, e a chi desideri ritrovare la vena fantasy tanto apprezzata nell’adolescenza, poi persa, in alcuni casi, nella serietà data dalla crescita con l’approccio rivolto a opere ritenute più intellettuali. Non sono il genere o l’ambientazione a rendere un’opera più importante, sebbene sia diffusa l’idea di legare il fantasy a una certa ‘leggerezza’, ma è il contenuto che comunichi qualcosa di grande, di universale e per questo sempre attuale, a rendere un libro meritevole di essere letto e apprezzato. A volte più di quelli che il sentire comune indica come modelli.
P.S. Ringrazio Grim per avermelo suggerito.

Spero che come recensione sia decente: è la prima volta che ne scrivo una. Visto che questo fantasy mi ha colpito tantissimo, dopo lungo tempo che non ne leggevo, e l'ho finito stamattina, ne ho approfittato. u_u



Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:02
 
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view post Posted on 20/3/2014, 20:47
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Cardine
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John E. Williams
AUGUSTUS




Leggere questo libro è stato un tuffo nel buio: ero convinto che mi avrebbe annoiato a morte, con quella testa di marmo capovolta in copertina e un titolo così latineggiante. Avete presente quei libri che gli amici di famiglia ti appioppano a natale? Li avrei quasi maledetti e beh, ora devo ringraziarli: poche letture mi hanno appassionato tanto quanto questo romanzo, così diverso dal genere che sono solito leggere. Fermi un istante: no, non si tratta di un saggio di storia, come specifica l'autore nel disclaimer iniziale. Alcuni avvenimenti sono stati manipolati, ma rigorosamente a regola d'arte: il risultato è davvero coinvolgente e, per quel poco che storicamente sappiamo del loro carattere, i vari personaggi (Mecenate, Agrippa, Orazio, Livia...) sono resi in modo convincente e fedele.


Tutti conosciamo a grandi linee la storia di Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, ma di sicuro non nei termini in cui Williams la narra. Fin dalle prime pagine si viene risucchiati nel vortice di eventi che precede l'ascesa al potere di Ottaviano: dalla morte di Cesare fino alle guerre con Bruto e Cassio, dal Triumvirato con Antonio fino alla battaglia Azio, e avanti, fin dopo Teutoburgo. La "Parte Prima" del libro mi è piaciuta davvero tanto. Mi ha trasmesso quel senso di genuina epicità che solo le grandi figure della storia possono dare, talvolta riuscendo persino a commuovermi (più all'inizio del libro, paradossalmente, che alla fine). Bisogna sapere infatti che l'intero romanzo è strutturato come una raccolta di lettere, stralci di diario, ordini e atti e anche poesie satiriche, scambiati o riguardanti le più eminenti figure della storia romana: da Cesare fino a Seneca, cronologicamente parlando, nessuno escluso.


Presto però si viene risucchiati, proprio come Ottaviano, negli intrighi di Roma, e nei perversi eccessi di una società sempre più corrotta da matrimoni, congiure, guerre civili e sotterfugi. La seconda protagonista del libro, Giulia (figlia di Augusto), è un personaggio che ho trovato estremamente vivido ed interessante, in alcuni tratti persino inquietante. Gli stralci del suo diario sono probabilmente la fonte più frequente che appare (380 pagine), ma non stufano. È proprio l'abile intreccio tra vari carteggi, e l'astuta disposizione dei personaggi a rendere avvincente il tutto. E il nostro caro Ottaviano, strano ma vero, scrive qualcosa solo nelle ultime pagine, nei giorni appena precedenti alla sua morte.


Si tratta di una lettura di qualità, che nonostante sembri in qualche modo "impegnata" o pesante, non lo è affatto. Mi ha aperto gli occhi su un diverso modo di scrivere, che avrò di sicuro l'occasione di sperimentare a dovere. Mi sono appassionato inoltre ad una figura (e non solo una) che prima era sì una delle maggiori di tutta la storia antica, ma che adesso ha acquisito per me nuovi connotati, ben più umani e vicini a noi contemporanei. Perché è impossibile non rispecchiarsi in Ottaviano, Agrippa, Mecenate e Salvidieno Rufo, appena diciottenni, che coraggiosamente prendono in mano il loro Destino e tornano a Roma, ben coscienti della vita a cui vanno incontro. Nel bene, ma soprattutto nel male.



Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:01
 
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Aesìr
view post Posted on 22/3/2014, 17:11




LeMontagnedellaFolliadiGuillermoDelToroilviaalleripreseagiugno


Titolo: Le montagne della follia, tradotto anche come Alle montagne della follia
Titolo originale: At the mountains of madness
Prima edizione: 1936, su "Astounding Stories"
Prima edizione italiana: Sugar, Milano 1966. Traduzione di Giovanni de Luca
Edizione recensita: Grandi tascabili economici Newton, Roma 2010. traduzione di Gianni Pilo

TRAMA IN BREVE: Una spedizione scientifica parte per l'Antartide, dove si trova alle prese con le vestigia di un'antichissima civiltà di esseri provenienti dallo spazio (rileggendo: toh è anche la trama di Alien vs Predator...)

COMMENTO DI AESIR: Quest'opera ebbe un'inizio alquanto travagliato, dato che, pur essendo stata ultimata già nel '31, "Weird Tales", la rivista dove il grande Lovecraft pubblicava abitualmente le sue opere, la rifiutò. Personalità alquanto... peculiare..., Lovecraft, a questo rifiuto, cadde in una crisi di depressione che lo accompagnò fino alla morte, nonostante cinque anni dopo "Le Montagne della Follia" avessero visto la luce nella ben più prestigiosa "Astounding Stories". Secondo l'autore, questo lavoro doveva contenere e sintetizzare i temi portanti dei suoi libri, ossia i miti di Cthulhu e l'orrore cosmico. Inoltre, essod oveva essere una sorta di continuazione del Gordon Pym di Poe... e chi conosce il racconto di sicuro noterà delle analogie, compreso finalmente il mistero svelato della misteriosa fine del diario di Pym. Si può dire che esso sia ambientato, come tutti i racconti di Lovecraft, in un universo parallelo al nostro, dove il mitico libro nero, il Necronomicon scritto dall'arabo pazzo Abdul Alhazred, esiste davvero... con lel conseguenze del caso. Naturalmente, non tutti credono a ciò che è scritto in questo tomo maledetto... ma presto dovranno ricredersi. La spedizione in questione è partita per l'Antartide alla ricerca di carotaggi; essa èc omposta da quindici membri più il narratore, di cui volutamente non è detto nulla, per accrescere l'immedesimazione del lettore (artificio a cui Lovecraft ricorre quasi costantemente). Lì, dopo essersi imbattuti in straordinari e pregiatissimi reperti fossili, la spedizione, costretta a dividersi a causa di inconvenienti, si imbatte in... segreti che avrebbero dovuto restare segreti.
Lo stile di Lovecraft è il solito: sebbene qui il misticismo e la cosmologia passino in secondo piano e ai suoi orrori venga data una spiegazione quasi scientifica, il risultato è lo stesso, un'excalation di incredulià, paura, e orrore, fino a giungere alla complata follia... Chi riteneva una burla o una superstizione il Necronomicon si ricrederà davanti alla terribile realtà, tutte le certezze sulla storia del nostro mondo sono destinate ad andare in pezzi... e voi, voi che leggete questo libro, fatelo con la luce accesa e qualche compressa di Valium per dormire, poi. Non è una storia per persone sensibili o dai nervi deboli, e chi sapesse di esserlo è meglio che abbandoni questo autore. Oh, guardate, c'è Le avventure di Winnie The Poh sullo scaffale accanto. Quella strana sensazione di essere osservati, di avere qualcuno alle spalle, potrebbe impadronirsi di voi durante la lettura. Perchè questa storia fa paura sul serio...

Voto: 9/10

Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:01
 
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view post Posted on 16/4/2014, 17:52
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"FEAR stands for Fuck Everything And Run. – Old AA saying"

zoEir5f

Prima di parlare del libro vorrei premettere che, sì, sono estremamente di parte e, ancora sì, adoro Stephen King e ho amato qualsiasi cosa sua abbia mai letto. Perciò non aspettatevi una reale obiettività sui difetti di questo libro, e perdonatemi se non vi scriverò una pappardella sui seguiti di una storia originale che sono sempre peggiori del primo libro e bla bla bla.

E il motivo è che NO, questo seguito non è affatto peggiore di Shining (sono magnifici entrambi secondo me). E’ una storia ben congegnata, che recupera personaggi ed elementi scritti per non avere un seguito e dà loro una nuova vita, una nuova prospettiva. Non concede nulla a nessuno, non mostra generosità verso quelli che erano i beniamini del lettore nel capitolo precedente, non ha pietà per il 99% della sua durata. Come tutti i libri di King (escludendo quelli della Torre Nera, che non ho letto e su cui non mi azzardo a discutere è_é) parla di orrore, di paura. Un orrore antico più di quello dell’Overlook Hotel, e in certi momenti più comune, meno sovrannaturale. Mescola il terrore più “horror”, di mostri alieni e lontani, con paure appartenenti alla vita di tutti i giorni, legate ad avvenimenti apparentemente banali, che ci accadono intorno e di cui non ci accorgiamo (ed è proprio questo uno degli elementi che più mi intriga di questo autore).
Alla fine (e non solo), confesso di essermi commossa. O forse di aver quasi pianto di sollievo, o forse entrambe le cose. Come Joyland, solo per dire l’ultimo letto di King, anche questo libro mi ha suscitato un sacco di emozioni, dall’esultanza alla tensione, dalla paura alla commozione.
Forse potrei fare un appunto al finale, dove l’autore sembra aver voluto concedere qualcosa ai suoi personaggi, ma la parte di me che si è innamorata di loro nel corso della storia mi fa dire che se lo sono sicuramente meritati.

Non voglio parlare troppo della trama, perché qualsiasi cosa detta in anticipo sarebbe solo uno spoiler. Vi posso però dire che ci sarà di nuovo Danny e che “Doctor Sleep”, il titolo del libro, non è un accostamento di parole casuali. Vi posso dire che amerete Abra (soprattutto se siete state delle ragazzine un po’ nerd e disadattate come la sottoscritta xD), che non guarderete più le roulotte come prima, che probabilmente vi verrà voglia di comprarvi un cilindro (perché sì, Rose Cilindro è un personaggio femminile caratterizzato in modo magnifico). Che vi troverete a perdonare e a provare nostalgia e che chiamerete Azzie il vostro nuovo gatto. E, se siete persone un po’ sentimentali pur senza ammetterlo, scriverete a qualcuno “resterò con te, finchè non ti addormenterai”.
Potrei parlare per ore della godibilità alla lettura di questo libro che è scritto magnificamente (c’era veramente bisogno di precisarlo?). Mai pesante, mai eccessivo, non fa presagire mai niente di quello che succederà e lascia in sospeso fino alla fine. Pensò che sarebbe stato molto più piacevole da leggere in lingua originale, soprattutto perché dalla traduzione appare evidente come ci siano numerosi giochi di parole in inglese. Se vi piace spaventarvi con uno spavento di qualità, questo è il libro giusto <3



Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:00
 
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The Grim
view post Posted on 17/5/2014, 12:47





L'armata dei Sonnambuli
di Wu ming


Stavolta ho aspettato almeno una notte prima di mettermi a scrivere questa recensione, non che a nessuno freghi qualcosa.
In realtà questa recensione non ha molto senso, l'ultimo successo dei Wu ming è recensito ovunque e da gente più capace di me, ma c'è questo spazio ed allora meglio sfruttarlo. Bel libro, leggetelo, punto.

L'armata dei sonnambuli è molto meno innovativo rispetto agli ultimi due titoli solisti del collettivo/rockband bolognese, senza innesti saggistici come in Fuga dal Kenya, un romanzo storico più classico; benché il geniale capitolo finale scardini del tutto la definizione di classico. Possiamo dire che si presenta come un romanzo classico, ma al suo interno nasconde molte innovazioni. Di che parla allora questo libro?
Della rivoluzione con la R maiuscola, la Rivoluzione francese, del Terrore e il Termidoro, di cui spesso si han più reminiscenze scolastiche che un quadro chiaro di chi fa cosa, cosa succede, e come finisce. Attraverso i punti di vista dei tre protagonisti e dell'antagonista riusciamo ad immedesimarci in questo complesso periodo, vivendo la Storia - rigorosa la maiuscola - attraversandone le contraddizioni, respirando l'aria di quella Parigi dove tutto era possibile, niente era certo, e tutto stava sulla lama di una ghigliottina. Chiarisco subito che benché i Wu Ming ci guidino nella complessità e difficoltà di questo mondo, conoscendoli è chiaro per chi si tifi: i rivoluzionari sono i buoni, il popolo i buonissimi, reazionari e monarchici uomini della cacca. Ciò non riduce a stereotipo il complesso affresco di personaggi, né impedisce loro di scrivere: Cosa resta di una rivoluzione fatta solo di ghigliottina e di teste mozzate, se il pane dell’uguaglianza è una colla che si attacca ai muri, e il popolo non ha di che mangiare?

Ma quindi sono settecento pagine di politica noiosa, di riflessione sul significato di Rivoluzione e dello stato sociale?

No, anzi per nulla. L'AdS è un romanzo pop, e uso questo termine non a caso. Pop, come popolare, che parla del popolo ed è rivolto a tutti, con un linguaggio straordinario che vive di dialetti - senza risultare incomprensibile a chi vive fuori dall'Emilia - e facile d'afferrare, senza metafore auliche, ma anzi più pronto a parlare di merda, e calci nelle palle. Ma sopratutto Pop, come la cultura degli anni novanta, che un tempo era nerd e invece ora si sdogana a tutti i livelli, sopratutto nel cinema e nei videogiochi. Perché quando arriva Leo mascherato da Scaramouche, l'ammazza Incredibili, a raddrizzare i torti a suoni di mazzate si pensa subito a Devil o Spiderman. Mentre D'amblanc coi suoi poteri da magnetista esplora la campagna francese e si batte con il lato oscuro del mesmerismo, beh, qualcuno ha detto Star Wars? Si, un mare di persone sull'internetto. E i Sonnambuli che s'agitano insensibili al dolore e che non li ferma niente e nessuno, sono peggio degli zombie di The Walking Dead, o comunque di romeriana memoria. E poi Dracula, orrore lovecraftiano, e tantissimo Dumas.


Ho detto troppo, e forse troppo poco. Scroccatelo ad un amico, compratelo, nascondetevi in un grosso negozio di libri fino a leggerlo tutto, o semplicemente aspettate che lo mettano scaricabile gratuitamente sul loro blog, come da tradizione, insomma leggetelo e se vi ha fatto schifo linciatemi pure, ma per me è godibilissimo e interessante, nonché un ottimo spunto di riflessione su tante, troppe cose.




Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:00
 
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view post Posted on 13/6/2014, 10:00
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Wulf Dorn - Il mio cuore cattivo

«Ma non è detto che le cose siano sempre quelle che sembrano. Conosci la storia di Don Chisciotte che combatteva contro i mulini a vento?

IEBl7da
Prima che qualcuno chiami la neurodeliri vorrei precisare che c'è dell'ironia in questa foto <3

Come premessa posso dire di aver letto questo libro in un solo giorno, dalle 8 del mattino alle 7 di sera, perché mi aveva così appassionato da non riuscire a rimandarlo al giorno dopo. Un thriller psicologico, che si gioca sul confine sottile tra realtà e allucinazione, che suggerisce al lettore la soluzione e gli insinua al tempo stesso il dubbio. La risposta, che potrebbe essere chiara sin dal primo momento, in realtà appare incredibile fino alla fine. Il lettore finisce per immedesimarsi nel personaggio principale e in coloro che lo circondano, totalmente immerso nella storia. Ho trattenuto il fiato, mi sono emozionata, ho dubitato insieme a Doro, la protagonista, fino al finale. Consigliatissimo.

Parlando della trama, “Il mio cuore cattivo” racconta pochi giorni della vita di Dorothea, una ragazza segnata da un grave lutto che cerca la serenità andando a vivere in un nuovo paese. Ma lì i suoi disturbi psicologici, manifestatisi in precedenza, riemergono. E’ forse dovuto allo stress? Si tratta di un ricordo che fatica ad emergere dall’inconscio? O forse tutto sta accadendo davvero e sono gli altri ad ingannarsi? E cosa si nasconde nel passato di Doro, cosa non vuole ricordare?
Queste le linee conduttrici di una trama semplice eppure che fa rimanere con il fiato sospeso dall’inizio alla fine.

Di questo autore avevo già letto altri due romanzi, e devo dire che non mi delude mai. Lo consiglio quindi vivamente a tutti quelli a cui piacciono i thriller psicologici, con poca violenza ma con tantissima suspance, a cui piace dubitare fino all’ultimo.



Edited by Zaide - 29/6/2014, 19:00
 
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Aesìr
view post Posted on 17/6/2014, 10:48




Terra-ignota
Titolo: "Terra Ignota. I - Risveglio"
Autore: Vanni Santoni HG
Casa editrice: Mondadori
Prima edizione: 2013

Bah. La gente che critica i pochi scrittori fantasy italiani decenti è sempre pronta ad osannare una nuova pubblicazione come l'arrivo del Messia. Il fatto che l'autore avesse già pubblicato altri libri è stato assunto a garanzia, peccato che le sue altre pubbliazioni non siano esattamente vicine a questo genere. Il libro in sè è alquanto piatto, i protagonisti anonimi, la storia niente di che, soprattutto i dialoghi confusionari, dato che ci può essere una pagina intera di dialogo ma nessun "X dice", "Y dice"... talvolta bisogna star lì a pensare (o contare le righe) per stabilire a chi vada attribuita una frase, cosa che trovo estremamente fastidiosa, soprattutto perchè, se la caratterizzazione dei personaggi fosse migliore, sarebbe più semplice distinguerli gli uni dagli altri quando parlano. Partiamo con una protagonista appena abbozzata, dal carattere piuttosto sciocco ed infantile, a quattordici anni - come se in un mondo simil-medievale a quattordici anni si fosse ancora bambini! La storia segue una serie di eventi improbabili volti a portare la protagonista ad un certo punto. Si notano parecchio, ma pare esserci una profezia sotto, quindi mi astengo temporaneamente dal considerarla una cosa negativa, perchè potrebbe trattarsi, come per la saga dei Nibelunghi, della necessità dell'anello di tornare nel Reno, tanto da manovrare e piegare gli eventi affinchè questo accada. Per il resto, non basta essersi letti un manuale di scherma per saper scrivere un libro fantasy. Comunque, se questa doveva essere la speranza del fantasy italiano, siamo a posto, davvero...

Voto: 4/10

Edited by Zaide - 29/6/2014, 18:59
 
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view post Posted on 23/6/2014, 20:09
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– E l'inferno è certo.
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Riandavo col pensiero a tutti i ricordi della nostra vita comune, dal primo giorno che ti ho visto (...) e che non osavo entrare nella stanza perché mi avevi intimidito (davvero, mi avevi intimidito e oggi sorrido ricordando questa impressione) al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile e poi e poi tutto il nostro amore: (...) e le nostre vite sono legate, ma noi siamo lontani l'uno dall'altra...

arton12968

Sinceramente mi sento in soggezione a parlare di Antonio Gramsci e specialmente di questo libro, e non so neanche che cosa dire.
Penso che si potrebbe partire dal dire che questo, ovviamente, non è un romanzo. Tanto meno un romanzo epistolare. So che è ridicolo ricordarlo, ma spesso durante la lettura avevo bisogno di tornare alla copertina perché il fatto che ogni lettera fosse stata davvero scritta in un carcere da una persona reale mi colpisse in pancia. E non una persona qualsiasi, una delle menti più brillanti del novecento, che infatti fu messa in carcere proprio per impedirle "di pensare per vent'anni": Non ci sono riusciti. E queste lettere ne sono la prova.

Queste lettere non erano destinate alla pubblicazione ovviamente, sono state raccolte solo dopo che il carcere aveva indebolito e infine portato alla morte Gramsci, postume. Sono lettere dolci, sofferenti, talvolta irate e spesso disperate ai suoi familiari: il suo guscio sardo, Teresina, la madre, e le donne russe, sua moglie Iulca, la cognata Tania. Lettere alla famiglia, perché in carcere ovviamente non poteva scrivere ai suoi compagni di partito, una scelta quasi obbligata quindi. Un'esclusione forzata da metà del suo mondo. Ma è proprio questo ad aprirci il suo lato più privato; a volte leggendo mi sentivo quasi in colpa.
Lettera dopo lettera ciò che mi stupisce è la letterarietà, la grandissima qualità estetica delle lettere. Pensare che poteva scriverle solo a certe ore del giorno, solo in un determinato giorno della settimana, quando magari stava male e non riusciva a concentrarsi mi mette letteralmente i brividi. Non mi stancherò mai di ripetere quanto sia forte il fatto reale dietro a queste lettere.
Gramsci è un eroe, e non esagero quando lo dico. Non c'è un solo punto delle lettere in cui egli si lamenta per la sua condizione, pur avendone tutto il diritto: anzi, è lui a riprendere gli altri quando viene compatito. Non vuole essere compatito, non si sente una vittima. E' consapevole fin dall'inizio del destino che lo aspetta, conosce lucidamente il suo futuro e non rinnega mai il suo passato, anche se forse gli avrebbe risparmiato sofferenze e anni di carcere. Per questo, anche se era un piccolo uomo, è un eroe. E tutti siamo infinitamente piccoli di fronte alla sua grandezza.

Forse sono passati molti anni, ma le sue sono le lettere di un condannato ingiustamente, di un padre, di un marito, di un fratello: sono lettere universali, perché forse lui le aveva scritte solo per i destinatari, ma esse sono state strappate al tempo ed è un bene che siano state pubblicate. Ha vinto, non è morto inascoltato; è un'altra opportunità di sentirlo parlare un secolo dopo. Per questo consiglio a tutti di leggerle.



Edited by Heautontimorumenos - 17/7/2014, 11:12
 
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view post Posted on 30/6/2014, 15:23
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Murakami Haruki - L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

« Non è vero che tu non hai colori. Era solo un problema di nomi. […] Tu sei fantastico, Tazaki Tsukuru, pieno di colori, che costruisce una dopo l’altra stazioni magnifiche »

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Il romanzo narra la storia di Tazaki Tsukuru, del suo presente intimamente legato alle esperienze che ha vissuto in passato. Questo uomo, ingegnere brillantemente impiegato nella ristrutturazione di stazioni, ai tempi del liceo era stato parte di una compagnia molto affiatata insieme a ad altri quattro membri. Tutti avevano il cognome legato ad un colore tranne lui che, appunto, si considerava “l’incolore” Tazaki Tsukuru. Ad un certo punto, però, la compagnia caccia Tazaki apparentemente senza motivo e questa esperienza segnerà tutto il resto della sua vita (nel bene e nel male).
La storia, a descriverla così, sembrerebbe apparentemente banale. E, a onor del vero, devo ammettere che non sono molti gli avvenimenti raccontati in questo romanzo. Non è una storia di azione, un thriller o un racconto horror. Eppure riesce a tenere con il fiato sospeso, a commuovere, a rasserenare. Perché narra, con tutta la pulita essenzialità di Murakami (che io adoro), una storia di vita quotidiana nella sua complessità. Anche dietro un evento apparentemente comune, un evento che dovrebbe ormai essere dimenticato o dal quale sono trascorsi anni, vi possono essere mille sfumature diverse, mille significati, mille verità.
Mi sono sentita molto vicina ai temi narrati, coinvolta in prima persona. L’autore non ci mette di fronte ad un eroe, a un personaggio capace di superare gli ostacoli con il sorriso. Ma racconta del baratro, della sofferenza dovuta ad un abbandono improvviso. Racconta della paura di affrontare la realtà, della solitudine, della gelosia, dell’amore improvviso e bruciante che spinge ad atti prima inaspettati. Guardate come anche dietro un uomo come tutti, mi è sembrato l’autore suggerisse, si può nascondere un intero mondo, una storia bellissima. E guardate quante vite si intrecciano con la sua, la affiancano e poi se ne allontanano, e guardate come possono cambiarlo.
Ho adorato questo libro dall’inizio alla fine (mi piacerebbe poter commentare il finale, ma vi farei troppi spoiler), soprattutto per la sincerità con cui narra le vicende della vita di Tazaki, senza condanna né redenzione, con pacatezza, senza infiorettature. Forse mi sono sentita anche vicina a questo personaggio, facendomi conquistare dalla sua quotidianità. Penso sia un libro dove il protagonista è l’antieroe e al tempo stesso dove non ci sono eroi, ma solo uomini e donne normali, con le loro paure e le loro gioie, con le loro sofferenze e i loro segreti.
Non posso fare altro che consigliarlo.

 
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Lill'
view post Posted on 2/7/2014, 06:48





Arthur Koestler - Darkness at Noon

NSK9l3I


« We brought you truth, and in our mouth it sounded a lie. We brought you freedom, and it looks in our hands like a whip. We brought you the living life, and where our voice is heard the tress wither and there is a rustling of dry leaves. We brought you the promise of the future, but our tongues stammered and barked... »


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Darkness at Noon, o Buio a mezzogiorno, è un romanzo che parla dell'imprigionamento da parte della polizia segreta di Nicolas Rubashov, personaggio inventato nel contesto della Russia Sovietica di metà '900. Il libro è perlopiù ambientato tra le quattro mura della cella del personaggio principale, dando ampio spazio quindi alle memorie e ai pensieri di questi, unitamente alle manifestazioni più emozionali ed inconsce. Nonostante questo, però, la vena narrativa è presente ed ha una sua forza: è una forza all'inizio lenta, poco percettibile, come appare nelle prime pagine il ritmo del romanzo. Già dopo poco, però, si inizia a capire come l'evoluzione delle vicende, la loro narrazione, segue di pari passo gli sviluppi dei pensieri del protagonista, riuscendo ad affascinare ed invogliare alla lettura con una domanda, "cosa succederà?" che non si riferisce solo alle vicende esterne al personaggio, ma anche a quelle interne alla sua psiche.
Il libro riesce, a mio avviso, ad intrecciare bene questi due aspetti, l'esternalità e l'interiorità, come ci si aspetterebbe nei panni di un condannato a morte: ma è un condannato a morte particolare, Rubashov; un personaggio ricalcato su uomini veri, esistiti nell'Unione Sovietica di quegli anni, che ha avuto nel libro un ruolo importante per la riuscita della rivoluzione e ora, vecchio, se ne ritrova "tradito".

E' normale e credibile quindi il modo in cui Rubashov si pone domande di carattere generale sulla vita e sulla politica, sulla rivoluzione e le reazioni. Non ho personalmente trovato quasi mai esagerate e stucchevoli le riflessioni del personaggio; mai di facciata i suoi dubbi. Il vecchio rivoluzionario e il libro stesso si interrogano sui mezzi e sui fini, chiedendosi in che rapporto sono gli uni con gli altri, fino a che punto un atto è lecito.
Ma chiariamo: non trovo il contesto storico impeccabile, il taglio filosofico dato al libro impareggiabile. Il libro si mantiene sul vago circa i fatti storici, inventandone di simili a quelli avvenuti, e a mio avviso alcuni punti sono vittima di un'enfasi troppo forte data dalla cultura generale (che poi generale non è, visto che ci sono sempre vinti e vincitori) circa le nefandezze e la spietatezza dei leader rivoluzionari.
Nondimeno, come detto, in generale il contesto è assai credibile e con il procedere degli eventi (o dei pensieri del protagonista) ci si troverà immersi affondo nelle questioni che lo assillano, lasciando perdere il resto.

Un mattone psicologico pesantissimo, quindi?
No. Non sono d'accordo.

A smentire questo è innanzitutto la lunghezza: 200 pagine. Il libro è breve. Sopratutto, però, a colpire è il taglio con cui viene affrontata la "vita" di Rubashov nella sua cella: si da spazio alle sue memorie, con pagine e pagine a narrare eventi passati che gli sono accaduti; si descrivono tutte le minuzie della vita reale che possono plausibilmente appagare un prigioniero, dal saltare un pasto al parlare tramite "codice morse" al vicino di cella.
Il linguaggio e le descrizioni sono di ottimo livello. Per carità, il libro non indulge su aspetti lirici e poetici, il tratto è essenziale e sobrio. Eppure, senza neanche aspettarselo, già dopo poco ci si ritrova coinvolti, impressionati dai pochi eventi che scandiscono la giornata dei prigionieri, dagli squarci di cielo dietro le sbarre. E, in alcuni momenti, le descrizioni toccano punte liriche davvero di alto livello, i dubbi di Rubashov esplodono in modo concitato e incalzante in passi di una nettezza e credibilità disarmante.
E ancora, il tutto senza spiattellare lì riflessioni esageratamente patetiche o descrizioni volte chiaramente ad ingraziarsi il lettore. Proprio come il vecchio protagonista, le parole del libro sono spoglie di facili ricami, prive di imbellettamenti: e proprio per questo, quando si lascia spazio all'emozionalità - espressa sia all'esterno con le descrizioni che all'interno con i pensieri, di nuovo - il tutto risulta credibile; non semplice, problematico. Ma senza annoiare: come un grande romanzo dovrebbe essere.

Dando un occhio alla critica, il libro fu ai suoi tempi facilmente liquidato come "anti-comunista" dato l'influsso che il Partito aveva e considerando come nel mondo culturale occidentale non fossero pochi i simpatizzanti per la rivoluzione.
Io, dal mio piccolo, non ho trovato nel romanzo una vena così marcatamente di parte: mi è sembrato piuttosto un ragionevole interrogarsi su alcune questioni cardine di quegli anni (e non solo, direi!), molte delle quali poste dalla rivoluzione, ma senza una definizione chiara e netta di quanto l'autore trovi giusto o sbagliato. Al contrario: pur se una risposta sarà data a fine libro (una risposta assai in linea con gli sviluppi della cultura novecentesca, se può interessare), io trovo che il bello del romanzo stia proprio nell'arrivarci, a questa risposta, se di arrivarci si può parlare. Un cammino che lascia questioni e problemi aperti, con aperture come detto a sviluppi più in linea con la cultura postmoderna (nondualità e riferimenti psicologici citati sul finire). Ma lo fa infiammando, facendo partecipe il lettore dell'esperienza esistenziale inventata, eppure così credibile, di un personaggio che, come l'autore stesso date le sue vicende personali

« had not been taken to the top of a mountain; and wherever his eye looked, he saw nothing but desert and the darkness of night. »



Edited by Lill' - 2/7/2014, 08:04
 
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view post Posted on 21/12/2014, 21:06
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Philip K. Dick - Ubik

« Io sono vivo, voi siete morti »

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Questo romanzo mi è stato consigliato da Grim, e me ne sono innamorata più o meno alla seconda pagina. La storia è apparentemente molto semplice: un’organizzazione che contrasta esseri umani con poteri psionici all’improvviso si trova vittima di un attentato. I suoi membri, mantenuti in vita artificialmente, devono scontrarsi con un nemico ancora più pericoloso, che si annida proprio tra i semivivi. In realtà la trama di Ubik è ben più di questo: sembra svilupparsi su più strati e salta da uno all’altro lasciando nel lettore un vago senso di confusione. In breve tempo non si riesce più a capire cosa sia vero e cosa no, e ci si trova a formulare ipotesi insieme ai protagonisti della storia, vedendo meno chiaro di loro. Ogni volta che sembra di aver raggiunto un punto fermo, questo viene stravolto e la storia appare ancora più complessa e avvincente. Mi si conceda la metafora: Ubik è come uno di quei famosi cioccolatini che per Natale sto mangiando a palate. Fuori sembra liscio, semplice, comprensibile, e dentro c’è prima la crema (mmmmh la crema, vi fa dire, mmmmmh che specialità, che bontà, chissà come è fatta), e più a fondo c’è la nocciola, nascosta dove non si riusciva a vederla (ODDIO la nocciola! Che squisitezza la nocciola, questo è l’ultimo piacere!). solo che in Ubik dopo la nocciola c’è ancora dell’altro, nascosto nelle ultime parole del finale, nell’ultimissima frase. Confesso di averlo letto mentre ero a lezione (no, non si fa uwu) e di aver resistito a stento dall’alzarmi e correre fuori con le mani nei capelli. Perché quel finale è GENIALE è la nocciola con dentro un altro cioccolatino. E nessuno vi darà una risposta univoca su cosa significhi.
Avevo già letto qualcosa di Dick in precedenza, e avevo adorato il suo stile (confesso di aver visto anche più di un film ispirato ai suoi romanzi). Adoro la sua fantascienza che, anziché essere liscia, smaltata e luccicante, è molto più “umana”. Una fantascienza quasi steampunk, con gli ingranaggi a vista, macchine dotate di avidità pari a quella degli uomini, strumenti pieni di bottoni, tubicini, fili, olio e sporcizia. Poco a che vedere con lo splendore magnifico dei film di fantascienza che mi capita di vedere al cinema di recente: in Philip Dick l’evoluzione è avvenuta a fatica ed è rimasta a cavallo tra vecchio e nuovo. Forse proprio questi elementi la rendono al tempo stesso grottesca e tristemente realistica.
Anche i personaggi della storia, secondo me, sono meravigliosi. Non c’è un unico protagonista indiscusso (anche se alcuni emergono più di altri), ma tutti sono ben caratterizzati e si fanno conoscere e voler bene nel corso della narrazione. Addirittura sembrano suggerire di poter rivelare di più, se solo il lettore volesse soffermarsi ancora per un poco nel loro mondo.
E poi mi si conceda una nota sulla “morale” di questo romanzo. Di Philip Dick ho sempre amato il suo lasciare spazio al lettore di decidere a cosa voglia credere: ogni storia che ho letto sembrava suggerire la presenza di più di una morale, di più di un significato. Anche Ubik non fa eccezione. Qui sarebbero davvero molti i temi su cui si potrebbe offrire una riflessione, e non voglio certo essere io a dirvi quale sia il più importante. Mi limiterò a sbavare su quanto l’autore sia geniale: affrontando il tema della discriminazione e della paura dell’uomo di cambiare, un argomento su cui molti meno capaci avrebbero scritto duemila pagine di fuffa, lui riesce a creare un racconto di duecento a dir poco sublime e pieno di mille altri significati.
La smetto, altrimenti potrebbero venirmi gli occhi a cuoricino. Lo consiglio a tutti gli amanti della fantascienza (e anche agli scetticoni, perché qui di spade laser con la guardia non se ne vedono) e a chi vuole passare qualche ora di mindfuck, condannando i successivi giorni a cercare di decifrare il significato del finale.
<3


 
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view post Posted on 12/7/2015, 23:44
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Cardine
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norwegian-wood


In genere leggo libri più brevi di questo e proprio oggi, arrivato in fondo alle trecentottanta pagine di Norwegian Wood, ho avuto il brutto presentimento di non averlo apprezzato a dovere. Di non aver cioè dato la giusta importanza a ogni frase, di non aver soppesato ogni parola del racconto. Tant'è che la prima cosa che ho pensato, finito il postscriptum dell'autore, è stato ricominciare immediatamente il romanzo.

Dire che "mi è piaciuto" sarebbe estremamente riduttivo. Mi sono emozionato come una ragazzina appena adolescente, nel leggere gli undici capitoli. Sarà che sono un sentimentalista senza speranza, sarà che in questi lunghi pomeriggi mi sono sentito più tra i locali di Tokyo che a Trento... Peccato per il caldo insopportabile che mi ha un po' frenato; con il cervello a pieno regime credo l'avrei letto molto più in fretta.
Norwegian Wood è una storia che parla di amore, morte e sessualità nei primi due anni di università di Toru Watanabe, il protagonista e voce narrante. Attorno a lui orbitano due ragazze: Naoko, con la quale il protagonista ha un rapporto estremamente complicato, e Midori, che riempie con energia e vitalità le sue giornate a Tokyo. Importanti sono però anche i legami con altri personaggi, come la strana amicizia con l'eccentrico Nagasawa, il rapporto di fiducia e sincerità con Reiko e il ricordo malinconico di Kizuki, che aleggia in tutto il romanzo, come uno spettro.
Al di là del fatto che il libro sia scritto squisitamente bene, tanto che mi sembrerebbe inopportuno persino esprimere apprezzamenti e ancor meno recensioni - questa è più una pubblicità, in un certo senso, un consiglio di lettura -, l'ho trovato stupendo ed emozionante sotto tutti i punti di vista. L'intreccio è semplicemente perfetto, sviluppato con una maestria che non posso non invidiare. Qui su Asgradel parliamo tanto di "rendere vivi i personaggi", e... dannazione! Se penso poi a tutto il sentimentalismo spiccio della letteratura italiana moderna mi vien male, dico sul serio. Questa non è una storiella strappalacrime; è il perfetto resoconto dei sentimenti più profondi di una persona.
Si tratta del primo libro che leggo di Murakami e, da quel che ho potuto leggere e sentire in giro, è anche uno dei lavori che si allontanano di più dalla "normalità" di questo scrittore (ma prendete questa considerazione con le pinze, perché non posso confermarla né smentirla). Me l'hanno prestato qualche settimana fa, e credo di averlo letto proprio nel momento più adatto della mia vita - guarda caso, subito dopo aver finito Il Grande Gatsby, che viene a più riprese menzionato da Murakami/Watanabe. Ho sorriso spesso, pensandoci.


«Nel buio totale dietro i miei occhi chiusi, quella piccola pallida luce continuò a vagare molto a lungo, come uno spirito inquieto. In quel buio provai molte volte ad allungare la mano. Le mie dita però non incontravano niente. Quella piccola luce era sempre un po' più avanti delle mie dita.»

 
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view post Posted on 23/9/2015, 15:42
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Cardine
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Se c'è una cosa di cui mi rammarico spesso, di me come lettore, è che sono istintivamente restio a sperimentare. Raramente un libro completamente sconosciuto attira la mia attenzione a tal punto da prenderlo in prestito - ancor meno mi spinge a comperarlo. Ma cadere nel pozzo del meh, non mi ispira, finendo per essere completamente ignorato, non è stato il fato di questo modesto libretto (160 pagine di racconto, forse qualcuna di meno) trovato per caso in biblioteca. La copertina mi ha incuriosito, il retrocopertina ha stuzzicato il mio interesse intellettuale, per quanto atrofizzato dall'estate di ozio esso possa essere, e me lo sono portato a casa.


«It's the terror that's unspeakable»



Queste sono le poche parole del taciturno Alan, mentre gli ospiti dei suoi futuri suoceri discutono su quanto sia ignobile la pratica della caccia alla volpe. The horror, the horror, in altre parole. Ed effettivamente Il richiamo del corno, racconto pubblicato nel '52 da un modesto e riservato diplomatico britannico, presenta numerosi parallelismi con la novella di Conrad. Ad esempio è il protagonista, proprio come Marlow, a raccontare in prima persona una storia ai limiti dell'incredibile, nella cornice della campagna inglese. Le altre somiglianze sono però da ricercarsi nei risvolti più profondi del racconto, l'indagine della perversione dell'animo umano, e sarebbe ingiusto anticiparvele.

Non somiglia a Cuore di tenebra dal punto di vista della storia narrata, però. Il protagonista, incerto se quanto ricorda sia un sogno, la realtà o il delirio dettato dalla pazzia, confida per la prima volta a un vecchio amico la sua esperienza in un campo di prigionia nazista (1943) dov'era stato rinchiuso durante la guerra. Nel corso di un disperato tentativo di evadere, però, giunge allo stremo delle forze e si trova inspiegabilmente catapultato in un punto imprecisato del futuro (un centinaio di anni dopo, come minimo). Un futuro dove il nazionalsocialismo ha prevalso sul blocco degli Alleati, vinto la seconda guerra mondiale e conquistato, per quanto ci è dato sapere, l'intera Europa, ma forse tutto il mondo. Si potrebbe pensare a una distopia, eppure non è questa l'impressione che si ha, leggendo: il microcosmo in cui si svolgono gli eventi più misteriosi truci, ovvero la foresta della Germania orientale ove il temuto Gran Maestro Delle Foreste del Reich - un Kurtz ben più spietato e crudele - ha creato una bizzarra riserva di caccia, non ricorda di certo i futuri distopici di diversa natura e respiro (oltre che di diverso significato allegorico), come l'Oceania di Orwell.
La curiosità del protagonista nei confronti di quello strano futuro, così idilliaco e allo stesso tempo terrificante, lo mette nei guai. Il richiamo del corno è il suono lontano che giunge alle sue orecchie di notte, che fa pensare a una bizzarra e continua battuta di caccia notturna. Ma quali sono le prede che il selvaggio Conte Hans von Hackelnberg caccia ogni notte?

Non sapete cosa leggere? Date una possibilità a questo breve racconto del terrore. Merita ben più attenzione di quanto la sua scarsa fama gli abbia procurato.
 
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28 replies since 20/1/2014, 12:09   1240 views
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