Rovine di Basiledra
Cripta dei Re
Ricavò l'ultimo anfratto dietro una colonna di pietra spezzata per metà. Impugnò l'elsa dell'arma senza esitazione e con un sonoro colpo, svirgolato alla giusta altezza, il colosso di pietra si tramutò in innumerevoli sassi più piccoli, sgretolandosi ed accasciandosi su di un lato.
Dietro vide l'ultima porta e il cuore gli balzò nel petto. Quando scrutò il legno massello ancora lucido, con le mani callose e sporche poté avvertire i sonori colpi con cui i fabbri del Bianco Maniero avevano disegnato le architetture del vecchio dominio del Re. Se li ricordava ancora, le barbe lunghe e gli occhi lucidi di stanchezza ed esperienza, a lavorare gli arredi con perizia e attenzione, ben coscienti che il loro lavoro era parte del Regno tutto; contribuivano al Leviatano al pari dei maniscalchi, dei cuochi, delle sguattere e di ogni singolo componente del borgo. Tutti insieme costruivano l'enorme mostro vincente che aveva conquistato ogni territorio conquistabile, e vinto ogni guerra che fosse possibile vincere, impugnando l'arma più potente al mondo: l'orgoglio di far parte di un impero millenario.
Una lacrima scavò il volto del comandante. Questo tirò su la mano e se la asciugò col palmo, rozzamente. Al tempo stesso, si portò la ciocca di capelli biondi sporchi dietro la testa, allacciandosela insieme al resto in una lunga coda di cavallo. Poi si aggiustò la bandoliera, che nel mentre gli era scesa giù fin quasi alla spalla.
Doveva essere perfetto pensò e la bocca si inarcò in un sorriso quasi naturale, sebbene sconfitto dal tempo e della cicatrici del suo animo.
Poi spalancò la porta e ciò che vide gli invase gli occhi.
« Sto arrivando, mio signore »
La cripta del Re era un lungo salone scavato nel cuore della terra.
Quasi cosciente di ciò che sarebbe poi accaduto, il Re aveva ricavato una stanza di dimensioni imperiali proprio sotto il Trono che non trema. I tappeti rosso porpora erano pieni di polvere, ma ancora adornavano la pietra levigata di sapienza e beltà, impreziosendo le pareti già adorne di arazzi e ricami dorati con un tocco di maestria. Ad ogni passo il Comandante poté ammirare le opere degli scultori, che si erano fatti pregio di imprimere le fattezze dei guerrieri più nobili dell'impero, così come delle dame più belle e dei cavalli più fieri, che comparivano dalle nicchie sui muri a intervalli regolari.
Tutto quanto richiamava la fierezza degli anni passati, accompagnando il penitente verso la purezza del suo prossimo omaggio. Ogni dipinto, ogni ricamo era un richiamo agli anni passati, col preciso scopo di ricordare all'uomo e al servo ciò che aveva perduto.
In quel modo, chiunque - anche il più sciocco - sarebbe stato costretto a porgere i suoi omaggi alla tomba del Re.
« È tutto bellissimo »
In realtà, non ricordava di essere mai stato in quel posto. Aveva seguito i dettami del Daimon che l'aveva seguito; aveva raccolto un esercito di grandi dimensioni e lasciato le proprie truppe a guardia delle rovine dell'antica capitale, soltanto per poter ammirare lo spettacolo, così come gli era stato suggerito e descritto.
Ma non lo ricordava. Non ricordava quando gli artigiani del Re avessero costruito quell'imponente opera, né il momento esatto in cui le ossa del suo antico Re fossero state traslate in quell'anfratto sotto le rovine di Basiledra.
Forse era accaduto dopo la sua diserzione; forse il mondo aveva capito e compreso il ruolo del vecchio Re, omaggiandolo coi dovuti onori.
Non importava in realtà. Ora era lì e non si sarebbe più fatto domande.
Non sarebbe più fuggito, ora che la sua vita era completa.
« È bellissimo! » Chiosò ancora, quando la vide.
Una scalinata di marmo bianco con venature dorate accompagnava il passo verso un'altare di bronzo e oro. Due figure alate, simili a draghi, si stagliavano ai bordi della tomba, circondando coi propri artigli testa e piedi di una figura umanoide, distesa su di un immaginario giaciglio reale con la propria spada poggiata all'altezza del cuore.
Quando lo vide, lo riconobbe. Si portò una mano alla bocca, nascondendo un singulto e poi pianse.
« Maestà » aggiunse Medoro, commosso. « Finalmente vi ritrovo, dopo tutto questo tempo. »
Si prese un attimo per sé. Giunse le mani in preghiera e chiuse gli occhi, immaginandosi lo spirito del sovrano a vegliarlo in quel momento di meditazione.
Poi si destò, quasi volendosi richiamare all'ordine. Girò il sacco che aveva sul fianco e se lo portò sul davanti, affondandovi all'interno le mani callose. Rovistò per qualche istante e, infine, vi tirò fuori un mucchio di stracci.
« Ve l'ho portata dopo tanto tempo, sire » ribatté, parlando alla tomba. Con la mano destra teneva il fagotto, mentre con la sinistra si premurò di levar le bende una a una, lentamente. Come se stesse carezzando un tenero cucciolo o contando i petali di una margherita a primavera.
Quando finì, ne emerse una maschera intarsiata di preziosi, placcata in rame e dipinta di rosso, curva. Impressa su di essa v'era uno sguardo ilare e, al tempo stesso, minaccioso.
« È la tua maschera... sire » aggiunse poi, fissandola con sguardo spiritato. « È ciò che i Daimon mi hanno chiesto di portarti... »
« Fermati, Medoro. »
Qualcuno richiamò l'attenzione alle sue spalle e per un attimo il comandante pensò che fosse stata la tomba a rispondergli.
Poi, però, fu costretto a voltarsi e sebbene ciò che vide gli assomigliasse molto, capì immediatamente che non era stato affatto il suo re a parlargli.
A metà della sala v'era un uomo con indosso calzoni scuri, fasciato di stracci bianchi. Teneva due spade corte sui fianchi e il rumore degli stivali cadenzava col suo passo il tempo che gli mancava a raggiungere Medoro. Il volto, però, era il particolare più evidente: quei lunghi capelli neri e quell'accigliato sguardo, impresso su di un viso magro e smunto, era disegnato su molti arazzi di quella sala. Ma non era lo stesso volto.
« Zeno » lo chiamò, Medoro. « O dovrei chiamarti Faust? »
« ...impostore, forse è più adatto? »
Zeno si portò a pochi passi da lui, fissandolo con aria seriosa. Il volto non nascondeva la stanchezza e il tempo; qualche capello nero ormai luccicava di un più maturo grigio e profonde occhiaie parlavano assai più della sua bocca, raccontando di notti insonni e lunghe battaglie. Non si era mai arreso a differenza sua. E questa cosa irritò Medoro ancora di più.
« Mi spiace per quello che ti è successo » aggiunse Zeno, serio. « Mi dispiace anche per non averti mai raccontato la verità su di me, o su Julien. »
Poi lanciò uno sguardo a ciò che il comandante teneva ancora tra le mani. « Ma questo è troppo; non posso permettertelo. »
Medoro sorrise, questa volta amaro. Erano stati compagni d'arme, un tempo. Vicini, molto vicini: ma mai davvero amici. Nessuno dei due aveva mai confessato all'altro le proprie emozioni: finanche il volto e il ruolo di Faust / Zeno era rimasto celato al suo comandante per anni. E ora, dopo tutto questo tempo, l'uno era venuto per fare la morale all'altro.
No. Pensò Medoro. Non l'avrebbe accettato.
Coprì lui stesso i pochi passi che lo dividevano dall'altro e gli si portò a un tiro di sputo, afferrandolo per il collo della blusa. « Che cosa sei venuto a fare, impostore? » Ringhiò, digrignando i denti.
« Sei venuto a farmi la tua ultima predica? A dirmi che risvegliarlo è sbagliato? » Abbaiò ancora, con un moto di inedia.
« Quello che sta succedendo al mondo intero è giusto, invece? » Proseguì, indicando con la mano un punto immaginario alla sua destra. « Da quando lui è andato via, tutto è andato storto! »
« Abbiamo bisogno di lui. »
Zeno non disse nulla, sul momento. Si limitò a staccarsi le mani dell'altro dal suo collo e a fare qualche passo indietro; si mosse piano, come quando non si vuole infastidire una fiera pronta all'attacco.
« Il mondo sta andando in pezzi, sicuramente » commentò, secco. « Ciononostante, risvegliare lui non potrà far altro che peggiorare le cose. »
Poi si limitò a fissarlo, portando - senza farsi vedere - una mano alla spada sul fianco destro. « Ora dammi quella maschera, Medoro; risolveremo tutto senza di lui. »
Medoro gli restituì un'occhiata gelida. « Quindi è solo questa che vuoi? » Fece un passo indietro e poi un altro, impugnando a sua volta l'arma. « Vieni a prendertela! »
Zeno non se lo fece ripetere due volte; scatto in avanti con agilità, svirgolando la spada destra con un fendente orizzontale, all'altezza dello stomaco e uno più in alto, poco sotto il mento. Medoro rimase stupito dall'atto, ma - per quanto arrugginito - la tecnica ancora non gli faceva del tutto difetto. Fece un altro passo indietro ed evitò il primo fendente, parando il secondo con il piatto della lama.
Poi fece un passo di lato e rispose con due affondi all'altezza dello stomaco, che Zeno schivò con agilità, rispondendo ancora con una finta in direzione della gamba destra, salvo salir su e tentare i colpire la mano destra con cui teneva ancora la maschera. Medoro, stanco e affaticato per il lungo cammino, capì con un attimo di ritardo la finta dell'altro, non riuscendo a evitare il colpo alla mano.
Il risultato fu che la lama del secondo gli strisciò sul palmo e dovette mollare la presa sull'artefatto. La maschera scivolò nell'aria e con un volo ad arco si aprì si andò a posare proprio sopra la tomba del Re.
Medoro ruggì di rabbia e rispose con un rapido fendente orizzontale che colpì Zeno di striscio, costringendo quest'ultimo a indietreggiare.
« Traditore! » Urlò ancora, col volto contratto e nuovamente in lacrime. « Confessa: la vuoi solo per te! »
« Vuoi per te la Maschera di Loec...! »
Zeno sbarrò gli occhi.
« Credi davvero che quella sia la Maschera di Loec? » Chiese, con voce atterrita. « ...magari sei anche convinto che questa sia la Tomba di Rainer? »
Medoro rimase immobile. Poi abbozzò un sorriso amaro, finto. Dubbioso, ma ancora incredulo. « Certo che questa è la Tomba di Rainier... e quella è la maschera di Loec... »
Mentre rispose, si girò a fissare l'artefatto che gli era appena scivolato dalle mani, ormai poggiato sulla tomba dietro di lui. Con orrore poté vedere una maschera assai diversa da quella fissata qualche istante prima: era una maschera priva di bocca, inespressiva, tutta bianca e con ghirigori dorati sulle guance a simulare un volto privo di emozioni.
Una maschera da Corvo.
In quell'esatto istante Medoro vide gli arazzi, le statue e gli arredi della Cripta del Re sciogliersi come neve al sole, dissimulando l'illusione che erano stati fino a quel momento.
Al loro posto comparvero le mura tozze di un cunicolo scavato sotto la terra brulla, spugnosa delle paludi del Sud del Dortan, con la puzza di umido che gli risalì fino al cuore.
Non si ricordava della cripta, perché non era mai esistita.
« Dove siamo, veramente? »
Ma conosceva benissimo la risposta.
Rovine di Basiledra
Cripta dei Re
Qualche tempo prima
« Un inganno? » Ribatté Haym, tendendo il volto in un'espressione mista di disappunto e stupore.
I suoi occhi vuoti presero a fissare un punto imprecisato della terra brulla. « Vuoi ingannare il comandante Medoro? »
« No » Zoikar sentenziò e la sua voce risuonò come un tuono.
« Non il comandante Medoro » ribatté. « Medoro il guerriero caduto in disgrazia; Medoro il vagabondo... »
Il suo elmo in ferro nero battuto tintinnò appena, mentre il colosso di ferro e nulla si stagliava con la sua prepotenza, rimbeccando di quelle parole fredde tutta l'ipocrisia del suo piano vittorioso.
« Inganneremo Medoro il disgraziato » sottolineò, girando il viso in direzione dell'altro. « Inganneremo un guerriero decaduto, che farà di tutto pur di riabilitare il suo nome agli occhi del suo re... »
« ...persino credere a una bugia. »
Calò un silenzio immobile tra i due; finanche il vento si placò, quasi tendesse l'orecchio per ascoltare.
« È crudele e sbagliato » sussurrò Haym, dissimulando un rigurgito di coscienza. « Non dovremmo farlo. »
« Ma lo faremo » gli rispose Zoikar. « Perché è necessario. »
« E quando tutto sarà finito, non potrà che giurare fedeltà al suo nuovo padrone. »
Si rialzò, scrutando il cielo plumbeo che iniziò a gocciolare di una pioggia scura e sporca.
« D'altronde non può farne a meno » concluse.
« Medoro non può fare a meno di servire un padrone; chiunque esso sia. »
Abbazia di Acque Perdute
Ultima città dei Corvi
Scavata sotto la terra bagnata della palude, l'ultima città dei Corvi era stata un cunicolo di vermi.
Si erano rintanati dove nessuno li avrebbe trovati, soltanto per fuggire alle persecuzioni dei Regni ed evitare le esecuzioni sommarie. Poi, erano fuggiti anche da lì: si erano riabilitati come nobili, guerrieri, cantastorie o qualunque altro ruolo avrebbe nascosto al mondo ciò che erano stati o il credo cui avevano giurato fedeltà. Perché il Credo del Sovrano era divenuto qualcosa di innominato per i regni del Dortan, dopo la caduta dell'ultimo Re, Julien.
Ciò che era rimasto lì, nell'ultima città dei Corvi, era soltanto la memoria, il rimpianto e una cassa.
Una cassa di legno sporco, adagiata su di un piedistallo di pietra grigia e sporca, che Medoro fino a qualche momento prima aveva scambiato per un bellissimo altare.
Sulla tomba, invece, non c'erano draghi alati a impreziosire alcunché, né figure regali adagiate con una spada, ma soltanto un'asse di legno sbilenco e una scritta scura, rovinata e illeggibile.
E, ora, anche una maschera da Corvo, poggiata sul centro.
Quando si rese conto dell'inganno, il Comandante rovinò a terra, come se il peso della sua corazza fosse aumentato all'improvviso. « H-haym... c-cosa mi hai fatto fare...? »
Si accasciò in lacrime, seguitando a fissare la tomba con orrore, incapace di realizzare appieno ciò che era accaduto.
Zeno, invece, non si perse d'animo. Come una furia scatto in direzione della maschera; nel mentre, impugnò una delle sue due lame con entrambe le mani e svirgolò un un fendente dall'alto verso il basso, cercando di spaccarla in due. Con suo grande stupore, però, il colpo fu rimbalzato da una forza invisibile e quella stessa forza lo respinse con violenza, scagliandolo a diversi metri di distanza.
« Dannazione! » Urlò Zeno, colpendo la parete di terra brulla con la schiena. « È troppo tardi...! »
Con orrore, i due videro la maschera da Corvo sciogliersi in un liquido biancastro e poi scivolare all'interno della cassa di legno velocemente.
Dopo qualche istante, un urlo inumano risuonò dall'interno della cassa e, infine, un bagliore dorato investì entrambi e tutto il cunicolo di una luce accecante.
All'esito di quella scena, non c'era più alcuna tomba.
Solo una figura umanoide, nuda ed eretta sopra di essa, che li fissava con occhi infuocati e pupille dorate.
« R-rainer? » Chiese Medoro, continuando a fissarlo. Sperando in una risposta affermativa.
« Non insultarci con quel nome, Comandante Medoro » rispose l'uomo, con voce greve. « Sapete benissimo chi siamo »
« Noi siamo Caino »