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| Միություն ~ Unione Antischiavista ~ Չ ստրուկ
(Vahram [pensato, lingua aramana], Tigran, Ydins, Conte, Mezz'elfa) «Tu sei pazzo, Vahram! Perché sei tornato nel Perwaine? Lo sai che ti vogliono uccidere!» Sbottò Tigran, con tono di premuroso rimprovero.
«Non preoccuparti, Tigran, è da sei mesi che non mi faccio vivo da queste parti.» Rispose flemmaticamente Vahram, portando in braccio la sella del suo cavallo, Raffi, verso il biroccio. «Probabilmente Gomis, quel cane, sarà ormai convinto che io sia morto in mezzo al Plakard. Ho solo dato una lezione a suo figlio, mica ho sterminato la sua famiglia. Be’, sì... gli spezzato un bel po’ di ossa, ma un pezzo grosso come lui avrà certamente ben altro a cui pensare piuttosto che inseguire un morto di fame come me. Di sicuro mi avrà dimenticato non appena quel suo pulcino balordo ha ripreso a camminare.» Aprì la cassapanca che faceva da cassetta del carro e vi ripose dentro la sella. «Fossi in te, non mi darei pensiero: ormai è acqua passata.»
Quella sera non aveva alcuna voglia di stare a sentire paternali, soprattutto dal suo irrequieto compagno d’armi. Tigran era un ragazzo di venticinque anni, aramano come lui, ex schiavo come lui. Un giovane abile, sveglio e irruente. Avevano passato mille avventure insieme: avevano combattuto nelle steppe settentrionali contro i Kiseviti, erano nella stessa unità speciale sotto il nobile schiavista Yussuf Al’Sahid. Insieme sono persino fuggiti da El Kahir, attraversando il deserto e imbarcandosi alla volta del Perwaine. Considerava Tigran al pari di un fratello.
«Se lo dici tu... Però io non riesco a stare tranquillo lo stesso. Non fraintendermi, sono felicissimo di rivederti, ma sono solo preoccupato per te. In fondo sei il mio capitano.» Ribatté, inseguendo da una parte all’altra della scuderia Vahram, affaccendato a caricare nuove merci e materie prime sul suo carretto.
«Ero il tuo capitano. Ora mi sembra che tu possa cavartela anche senza di me. Ti sei accaparrato una bella posizione dentro il Cartello. Tornare e vedere cosa siete riusciti a fare in mia assenza mi ha alquanto impressionato. Vi siete sistemati bene qui dentro.» Disse, accennando alla gigantesca scuderia della nuova sede del Cartello Mamūluk, ancora addobbata a festa con striscioni di tessuto ricamato e variopinto.
«Puoi dirlo. Il nostro capo, Zuben il Turkemanno, ha radunato ogni singolo ex schiavo guerriero del Perwaine, e molti altri ne stanno giungendo da ogni angolo del mondo. Dopo la caduta dall’Impero Sulimano ci siamo divisi, ma ora stiamo tornando ad essere una grande famiglia!» Era euforico nel parlarne. «Ci siamo stabiliti qui da poco più di un mese, ma già la nostra congrega è sulla bocca di tutta la malavita della città!»
Effettivamente i grandi cambiamenti che erano avvenuti in città avevano lasciato di stucco anche Vahram.
I mamūluk erano schiavi guerrieri assoggettati al grande e crudele Impero Sulimano del Nord. Una delle forze armate più temibili dell’intero continente, ma quando una calamità demoniaca spazzò via ogni traccia di quella civiltà, tutti quegli schiavi si sparpagliarono liberi ai cinque angoli del mondo. Nel Perwaine molti di loro, tra cui anche Vahram e Tigran, trovarono impiego come guardie personali o sicari al servizio delle grandi organizzazioni criminali. Dopo quattro anni erano riusciti a riunirsi e a crearsi da soli un proprio giro di affari e ritagliarsi un proprio territorio: giusto un mese prima era nato il Cartello Mamūluk. La sua sede era un grosso caravanserraglio ormai dismesso da tempo, nella periferia Sud della città, acquisito a un prezzo decisamente ribassato. La Piazzaforte dei Fratelli Schiavi, lo chiamavano.
«Resta con noi, Vahram!» Seguitò trepidante. «Conosciamo tutti le tue abilità! Vai a parlare con Zuben, di certo avrà già pronto un posto nell’alta gerarchia per te.»
Vahram tirò un sospiro malinconico. «Non ne dubito... Mi fa piacere venirvi a trovare di tanto in tanto, ma sono sicuro che riuscirete a fare un ottimo lavoro anche senza il mio aiuto. Conosco Zuben, è un uomo abile e coscienzioso, saprà guidarvi saggiamente.»
«Eddai! Perché mai non potresti?» Lo esortò sorridente.
«Il mio posto non è più a Perwaine.» Parlò fermamente. «Ho trovato una nuova casa, a Taanach.»
«Cosa? Che hai detto?» Sul volto di Tigran si dipinse un’espressione incredula. «Tu adesso lavori... per il Goryo?! No no, non posso crederci! Davvero sei riuscito a entrare nel Goryo?»
«Credici, è così.» Disse, disinvolto. Si tolse il mantello nero dalle spalle e lo gettò nel carro, poi raccattò i suoi vestiti da mercante – la sua zimarra variopinta e il fez – da un chiodo sul muro e se li infilò. Afferrò infine la sua lancia infoderata e si voltò nuovamente verso il suo amico. «Ed è per lavoro che sono tornato qui.»
«Lavoro? Che tipo di lavoro?» Domandò confuso.
Vahram intanto aveva tirato Raffi fuori dal suo stabbio e lo aveva attaccato al carro. «Segreto. Nulla di così impegnativo, comunque.» Saltò sulla cassetta e partì. «A più tardi, Tigran.»
«Ehi ehi! Dove stai andando?» Lo ricorse trafelato.
«Vado solo a fare un sopralluogo.»
«Vengo con te!» Lo raggiunse e saltò anche lui sul biroccio, al suo fianco.
«Non ce n’è bisogno!» Esclamò Vahram, con le briglie in mano, cercando di spingerlo giù a gomitate.
«Ti copro le spalle! Non temere, tutti gli uomini della mia squadra ti seguiranno ovunque tu vada. Il primo malintenzionato che ti si avvicina troppo si beccherà una bella freccia nelle palle.»
Varham buttò gli occhi al cielo. «Ma santi dei! Ho già detto che non è necessario, so badare a me stesso, cosa credi?»
«Troppo tardi. Ho già dato l’ordine.» Rispose Tigran, fiero e impettito. «Per me sei come un fratello maggiore. Se qualcuno osa dirti anche una mezza brutta parola...» Gli agitò contro l’indice, abbozzando quell’espressione dannatamente minaccevole che solo lui sapeva fare. «...lo squarto. Lo squarto con le mie mani, e tu sai che ne sarei capace!»
Vahram si arrese.
In città non era cambiato molto, soprattutto nei bassifondi. Vedeva mendicanti e facce decisamente poco raccomandabili ovunque, le case erano in maggior parte di legno e pericolanti, spesso costruite su fondazioni preesistenti. Le strade erano costellate di piccole baracche e tende, abitazioni improvvisate appartenenti a famiglie miserabili. Conosceva quell’ambiente: da quando era arrivato nel Perwaine per la prima volta, aveva sempre vissuto in quei luoghi, curando e assistendo proprio bisognosi come quelli che aveva davanti. Tra loro era noto come Dottor Azad, e nei quartieri in cui passava tutti lo conoscevano; però non aveva mai portato la sua bottega ambulante in quella parte della città, lì nessuno aveva mai udito il suo nome da medico e mercante tuttofare. Meglio così: se fosse girata la voce che era tornato, avrebbe potuto incontrare qualche problema durante la sua permanenza.
In mezzo a questa sconfortante povertà, torreggiavano le magioni dei nobili e dei cittadini più abbienti. Ville e palazzine, alte mura le separavano dai fatiscenti ammassi di case circostanti creando uno strano contrasto, come se cercassero di arginare tutta quella povertà, impedirle di affluire dentro e sporcare la loro opulenza.
Vahram e Tigran stavano percorrendo una delle vie principali del quartiere, – una delle più distinte, oltretutto – quando passarono appresso a un grande crocchio di gente intenta a osservare qualcosa. Dal centro provenivano grida rabbiose e lamenti. Il guerriero fermò il carro e si mise in piedi sulla cassetta per guardare oltre la folla. In mezzo alla strada, di fronte al portone di una lussuosa residenza, vi erano un uomo sulla cinquantina e un giovane obeso con una tonta faccia da maiale – suo figlio, probabilmente – che a turno si accanivano crudelmente su una povera mezz’elfa prendendola a frustate.
Una schiava. A Vahram bastava un colpo d’occhio per riconoscere uno schiavo quando ne vedeva uno, in fondo lo era stato anche lui.
Quella fanciulla era una creatura di rara bellezza. Nonostante fosse vestita di stracci, lordata di fango e cosparsa di lividi, la sua piccola figura risaltava luminosa in quello squallore come una delicata fatina in mezzo a una spinosa giungla di piante carnivore. Piangeva e supplicava pietà ai suoi aguzzini, che inesorabili continuavano a vergarla, mentre diverse persone intorno ridevano e li incitavano. Gli altri curiosi o guardavano in silenzio o parlottavano sommessamente tra loro.
«Che cosa avrà fatto quell’angioletto per meritarsi un trattamento simile?» Pensò Varham tra sé e sé.
«Lurida cagna! Come hai osato a oltraggiare mio figlio rifiutando il suo amore?! Lo capisci cos’hai fatto? Hai insultato un rampollo della nobile famiglia dei Kuhbach! Lo comprenderai a suon di frustate, disgraziata!» Urlò il padre, menando un’altra vergata.
«Ah, ecco... Dovevo immaginare una cosa simile... Sbaglio o quel nome l’ho già sentito da qualche parte?» Nel dubbio, estrasse il suo taccuino rosso: lì annotava tutte le persone rilevanti che incontrava. Era curioso di sapere qualcosa di più su quella famiglia. Nel frattempo domandò a Tigran. «Chi sono quei due?»
Tigran scrutò i due individui. «Ah, sono il Conte Fernand Kuhbach e suo figlio Ronald. Sono abbastanza famosi da queste parti, per diversi motivi. Ad esempio per la crudeltà con cui sono soliti trattare i loro servitori.»
Da quelle parti funzionava così, c’era ben poco da fare. I potenti erano i potenti, i miserabili erano i miserabili, e quando un miserabile – schiavo o povero cittadino che fosse – oltraggiava un potente, questo aveva tutto il diritto di trascinarlo in strada di sua iniziativa e punirlo dinanzi al pubblico ludibrio. Anzi, non tutto il diritto; tutta la libertà, poiché non era la legge a permettere questi abietti sfoggi di potere, ma il senso comune. Secondo la gente di quel posto, così giravano le cose, punto e basta.
Ciò che più faceva storcere il naso a Vahram era però il sadismo con cui erano trattati gli schiavi a Perwaine, soprattutto quelli provenienti da Xuaraya. Non la crudeltà, ma proprio il sadismo.
Nell’Impero Sulimano se uno schiavo – di qualunque genere: guerriero, servitore, manovale o prostituta – era accusato di un qualche crimine leggero, era il padrone a pagare, – di solito versando una multa allo Stato o alla parte lesa – ma se invece la sua colpa era grave, veniva sequestrato al suo proprietario e trucidato nei modi più mostruosi che la fantasia umana possa immaginare. Ma questa era la legge, non libertà personale; i comuni criminali ricevevano un trattamento ancora peggiore.
Oltretutto i Sulimani avevano una solida cultura schiavista che si perpetuava nei secoli ed erano ben coscienti del fatto che un criminale non ha alcun valore, ma uno schiavo sì. Perciò, secondo il loro senso comune, malmenare o torturare inutilmente uno schiavo era semplicemente stupido o malvisto.: danneggereste un vostro buon acquisto solo per capriccio? Picchiereste a sangue il vostro cavallo migliore solo perché non ha obbedito al vostro comando? Agli occhi dei Sulimani per l’appunto non conveniva per nulla.
In breve, nell’ambiente in cui era cresciuto Varham, le atrocità si consumavano eccome, ma perpetrarle senza alcun fine plausibile non era un comportamento coscienzioso. Insomma, lassù gli schiavi, sebbene venisse sterminata sistematicamente la loro intera famiglia o fossero rinchiusi in gabbie sotto il sole rovente, legati con pesanti catenacci o obbligati a spaccarsi la schiena, secondo un diffuso pensiero, godevano di una minima... “considerazione”. La stessa considerazione che si dava a un oggetto o a un acquisto di un certo valore, e uno schiavo non costa poco.
Di sicuro la condizione degli schiavi sulimani era migliore rispetto a quella che vivevano i prigionieri provenienti da Xuaraya. Negli occhi dei loro padroni Varham scorgeva una specie di perverso piacere nel maltrattarli, come se dovessero espletare un qualche primordiale bisogno di sopraffare, di umiliare, di mostrare animalescamente la propria superiorità. Sembrava quasi che li trattassero alla stregua di marionette su cui poter sfogare i loro più bassi istinti.
Il Conte Kuhbach e suo figlio parevano spinti da quella stessa sadica pulsione.
A un mamūluk insegnano ad essere fiero della propria condizione di schiavo. Parole fiere lo avevano educato: “La sofferenza rende virtuoso uno schiavo. Siete esseri indistruttibili, la vostra anima appartiene all’Impero, ma il vostro corpo è temprato dal martirio!” Parole incoraggianti: “Siete schiavi guerrieri! Mamūluk! Ogni gemma incastonata nella corona dell’Imperatore non vale quanto uno solo di voi!” La vista di quegli umilianti soprusi gli fece salire una grande rabbia.
Guardava quei due infierire su quella povera ragazza con il suo sguardo gelido di assassino. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma cosa?
«Non puoi farci nulla, Varham. È così la vita in questa città. Si riesce a campare decentemente solo non immischiandosi inutilmente negli affari degli altri.» Tigran cercò di riportarlo alla realtà.
Fu proprio ciò che accadde in quel momento a colpirlo profondamente.
Un nano si fece strada tra la folla e corse in difesa della mezz’elfa, prendendosi una frustata al suo posto, in pieno viso.
«Spostati, nano, questa cagna si è rifiutata di accettare l'amore di mio figlio e devo insegnarle le buone maniere.» Lo minacciò il Conte.
«Chiedo scusa per l'intromissione signore. Tuttavia non sono riuscito a sopportare la visione di questo fiore venire maltrattato. Credo che abbia imparato la lezione e che dovreste perdonarla.» Ribatté pronto il nano. Per un attimo scorse nel suo sguardo un lieve timore, quel timore. Il timore della frusta che solo certe persone sanno provare. Quel fremito non sfuggì agli allenati occhi indagatori di Vahram.
«Un altro schiavo...» Pensò.
C’era un barlume negli occhi di quel nano, un barlume che scosse il suo cuore arido, sterile di sentimenti e di ambizioni. Non avrebbe saputo spiegarlo. Quell’individuo non conosceva la mezz’elfa, eppure era chiaro che avrebbe dato la vita per sottrarla a quell’esistenza di schiavitù. L’ardore che aveva spinto quello schiavo a fare ciò che aveva fatto... era ciò che mancava nel vuoto della sua esistenza.
Provò una grande stima per lui. Sentiva che doveva fare qualcosa per aiutarlo.
«Allora, che aspettiamo?» Tigran scrutò oltre la folla, incuriosito dagli strani brusii e dallo sguardo perso di Vahram. «Ehi! Ma chi è quel demente?»
«Tigran! Dimmi qualche altro motivo per cui sono famosi.» Chiese nuovamente, sfogliando ansiosamente il taccuino.
«Eh? Cosa? Ah, be’, poi sono infangati praticamente con tutta la malavita della città.» Disse come se stesse parlando di qualcosa di ovvio.
«In senso buono o in senso cattivo? Cos’ha combinato esattamente?» Il tempo stringeva. Gli sudavano le mani e le pagine gli scivolavano maldestramente sulle dita.
«In tutti e due i sensi. Poi cosa ha fatto esattamente non ricordo...» Alzò le spalle. «Sei tu quello che li conosce. Cosa ti avevano chiesto di fare?»
Vahram si paralizzò di colpo e si voltò con gli occhi sbarrati verso il suo amico. «Come, scusa?»
«Ma sì, non avevi lavorato per loro, tempo fa? Poi non ricordo se...»
«Porci dei!! Sono un cretino!» Lo interruppe con una sfuriata, mettendosi la mano alla fronte. Subito ricordò. Poi tornò ad affondare il naso nel taccuino. «È vero, è vero! Sapevo di averli già visti da qualche parte. Aspetta... Eccolo, trovato! Conte Fernand Kuhbach di blablabla... questo non ci interessa... Età, altezza, segni particolari...» Alzò lo sguardo per dargli un’occhiata. «Sì, insomma, è lui. Ha solo cambiato pettinatura dall’ultima volta che l’ho visto. Dunque... Ha un figlio e una figlia maggiore al collegio e poi... Ah! Interessante!»
«Cosa?» Chiese Tigran scrutando il taccuino da sopra la spalla di Varham.
«Dovevo aver avuto un sacco di tempo libero. Guarda quanta roba ho scritto sulla sua casa e la sua famiglia.» Mostrò la pagina al compagno. «Avevo lavorato per lui nei panni di Al Patchouli due anni fa. Mi aveva pagato per assassinare un tizio che lo stava ricattando, un certo Laxilo. Ed è qui che arriva il bello.»
«Perché? Che hai fatto?»
«Ho interrogato il suo ricattatore, prima di ucciderlo.» Disse, ammiccando.
«Ah... furbo.» Rispose, sorridendo impressionato.
«È sempre meglio essere previdenti, lo dico sempre.» Cominciò a spulciare «Vediamo... Però! Ha un bel curriculum: corruzione presso il clan Ohia, corruzione presso la banda Vela Rossa, corruzione, corruzione... Ha chiesto favori a mezza malavita della città, anche a bande rivali. Ci credo che è nei guai. Ah, un falso in bilancio, un altro qui... Oh, due assassinii di amministratori di esercizi concorrenti. Credo di avere abbastanza materiale.» Poteva aiutarlo.
«Per cosa? Ehi! Ehi!! Dove stai andando??» Vahram era appena balzato giù dal carro.
«Tu aspettami qui e goditi lo spettacolo.» Lo rassicurò sorridendo. E poi sparì nella folla.
Si fermò in mezzo alla calca, si chiuse il colletto sopra la bocca per nascondere parte del viso e ripassò mentalmente tutto ciò che doveva ricordarsi, aspettando il momento giusto. Prese un lungo respiro.
La sua proverbiale lingua da vipera era pronta a colpire.
«Qualunque sia il tuo nome, spostati o le prenderete tutti e due. La punirò fino a quando la sua schiena sarà più rossa del tramonto e chiederà scusa a mio figlio, oltre ad accettare il suo corteggiamento.» Minacciò il Conte Kuhbach, alla vista del sua sacrosanto dovere impedito da un misero nano.
«Comprendo pienamente il vostro punto di vista ed ancora una volta chiedo perdono per essermi scordato le buone maniere. Sono Ydins Rou e forse posso dichiararmi un vostro possibile partner in affari.» Fece una pausa, fissando dritto negli occhi il Conte. «Vostro figlio è stato in effetti maltrattato. Questo è un comportamento inaudito, ma credo che tutti sappiano che l'amore è spontaneo e se obbligato può solo originare sentimenti negativi. Credo che lei sia una persona intelligente e con un certo fiuto per le occasioni. Che ne dice se compro questa sua schiava? Avrei in mente un certo prezzo.»
Diverse persone deridevano quel folle, ma altre si mostravano impressionate da quel gesto coraggioso.
Qualunque fosse stata la proposta del suo offerente, il conte non sembrava particolarmente incline a scendere a patti con un tale pezzente di fronte a tanta gente. In un altro momento forse avrebbe fatto un buon pensiero davanti a una buona proposta, ma lì in quell’istante era la sua faccia ad essere in ballo. Doveva difendere l’onore sporcato della sua famiglia ed era intenzionato a finire ciò che aveva cominciato.
«Dove credi di essere, nano? Nella piazza del mercato? Sono qui in mezzo alla strada per castigare una schiava che ha avuto l’ardire di oltraggiare il sangue del mio sangue, non per venderla al migliore offerente! Questa cagna resterà nelle mie mani finché non avrà espiato le sue colpe e riparato all’offesa verso mio figlio. Quindi ora...»
«Un momento, sehre! Rilancio un’altra offerta.» Tutti gli occhi si spostarono verso lo strambo individuo appena emerso dalla folla, vestito di variopinti abiti esotici e con in mano un bastone nero, decorato sulla sommità, sopra un sostegno d’acciaio, da una splendida placca in avorio lavorato e inciso con motivi floreali e, ai lati, due minacciosi tralci appuntiti d’acciaio curvati verso l’alto. Il tutto gli dava l’aria di uno.
Vahram si avviò sicuro e deciso al centro del capannello. Il conte di certo non l’avrebbe riconosciuto: l’assassino Al Patchouli lavorava a volto coperto, riceveva ed eseguiva gli ordini impassibile e silenzioso. L’uomo che in quel momento stava camminando verso di lui era tutt’altra persona: una specie di strano mago dall’aria orientale.
Guardò il nano, ammiccò verso di lui con un sorriso e in un nanico tanto grezzo da far accapponare la pelle a chiunque lo parlasse sin dalla nascita, gli disse: «*Davvero vorresti acquistare quella fanciulla? Stai comprando la persona sbagliata. Lascia fare a me, ti mostro io come si fa.*»
Il conte rimase confuso dalla comparsa del curioso nuovo arrivato e da quella repentina intesa in una lingua che non conosceva. «Ma cos...?! Un altro? Che cosa pensate di fare?» La sua faccia era paonazza dalla rabbia. «Ho parlato! Non ho la minima intenzione di dare corda alle vostre patetiche scenate da filantropi! Ora vi concedo dieci secondi per togliervi di mezzo prima che... Ehi, come osi?!»
Vahram non si era arrestato, ma aveva raggiunto rapido come una volpe il nobile, gli aveva appoggiato un braccio sulla spalla, come se si trattasse di un amico di lunga data, e lo stava trascinando di peso verso il portone, lontano dalle orecchie indiscrete degli astanti.
Il conte cominciò a sbraitargli contro. «Hai idea di cosa stai facendo, pezzente? Lo sai ci sono io? Io sono...»
«...il Conte Fernand Kuhbach di Parisia, lo so.» Lo interruppe Vahram, sorridente. «E voi sapete chi sono io, sehre?»
«Non ti ho mai visto prima d’ora!»
«Perfetto!» Era ciò che voleva sentire. «Adesso calmatevi e ascoltate cosa ho da dirvi.»
«Tu non mi devi dire niente, canaglia! Adesso...»
«...chiamate le guardie? Prego, sehre. E che cosa vorreste dirgli?» Avvicinò la bocca all’orecchio del nobile, la sua voce gracchiante divenne un sussurro. «Forse dovreste raccontargli com’è morto il vostro “amico”... Laxilo.»
«Cosa?!» Esclamò con un sussulto, liberandosi dalla presa di Vahram. «Ma voi... Come diavolo...?! Ah, adesso è tutto chiaro, bastardo.» Cominciò a parlare sottovoce anche lui. «Sei un amico di quel verme ricattatore.»
«Più o meno.» Certo che sì: lo aveva ucciso lui.
«Be’, peggio per te. Immaginavo che qualcuno sarebbe tornato ad assillarmi, prima o poi. Se sai qualcosa di troppo, è meglio se mi stai alla larga. Per tua informazione, ho degli amici nelle alte sfere della guardia cittadina.»
«Tutti corrotti, suppongo. Siete un professionista della corruzione, sehre. Vantate un’esperienza veramente invidiabile in questo campo. Permettetemi di farvi qualche esempio...» E cominciò a enumerare a memoria una a una tutte le persone che aveva corrotto; per lo meno tutte quelle riportate nel suo taccuino.
«Basta! Non un’altra parola! Bada a te!» Lo fermò bruscamente, digrignando i denti dalla rabbia. «Farnetica pure quanto vuoi sulle tue fantasie. Ti vesti elegante, ma sei solo un pezzente, chiunque può fiutarlo dal tanfo che emani. Vivi ogni giorno strisciando nella lordura dei bassifondi, come la maggior parte della marmaglia criminale di questa città. Un misero approfittatore alla ricerca di qualche soldo facile, ecco cosa sei. Tu non sei niente in confronto a me.» Iniziò a minacciarlo. «Va’ pure a dire alle guardie le tue stupidaggini. A chi daranno ragione? A te o a me? Prova solo a cercare di ricattarmi e come minimo passerai il resto dei tuoi giorni in galera!»
Varham non si lasciò intimidire e continuò indefesso la sua recita. «Oh, ma guardate che sono pienamente d’accordo con voi! Cos’è la mia parola in confronto alla vostra?» Disse con tono giustificatorio. «Però una soluzione si può sempre trovare, non credete? Ad esempio potrei offrire tutte queste interessanti informazioni su di lei al Barone Ordal Blan De Vedenberg, la sua fondazione bancaria è un’acerrima concorrente della sua, no? Lo odiate così tanto da aver persino assassinato due suoi dirigenti solamente perché avevano rifiutato delle vostre mazzette. Brutta cosa la fedeltà alla propria azienda, non è vero?» Seguitò in tono marcatamente ironico. «Direi che la sua parola sarebbe influente quanto la vostra, se non di più. Potrebbe crearvi non pochi problemi, o sbaglio? Se non basta come incentivo, lasciatemi aggiungere che saprei dargli ogni indirizzo da cui potrebbe comprare tutti i vostri debiti.»
Il conte rimase sbigottito. «Che cosa?! E va bene, canaglia! Dimmi cosa vuoi, fai alla svelta.» A quanto pare era diventato bendisposto a negoziare.
«Chiedo poco: solo quella graziosa fanciulla.» Indicò la schiava mezz’elfa.
Il prode nano stava vegliando premuroso su di lei, come se quella giovane fosse sua figlia. Il suo sguardo risoluto trasmetteva a Vahram un caldo senso di sicurezza.
Il ciccione invece era rimasto imbambolato come un ebete al suo posto, confuso dalla strana svolta degli eventi. Trepidava aspettando il permesso del padre per poter insultare e cacciare arrogantemente quei due guastafeste che gli stavano rovinando il divertimento e continuare a frustare la sua fiamma ingrata. L’espressione irrequieta del suo caro papà sembrava però renderlo indeciso sul da farsi. Seppur da quella distanza potesse udire i discorsi di Vahram, la sua faccia spaventata lasciava intendere che non avesse compreso un granché dell’argomento della discussione, fuorché il fatto che quel brutto omaccio stesse cercando di portargli via il suo giocattolo preferito.
A sentire le sue parole, il conte scoppiò a ridere. «Cosa? Ohohohohoho!! Davvero? Fa’ pure, prendila. Davvero volevi cercare di rovinarmi in cambio di una sgualdrina per scaldarti il letto durante la notte?» Vahram stava per voltargli le spalle. «Hahaha!! Non credevo esistessero persone talmente stupide da ricattarmi solo per avere una misera schiava.»
Non l’avesse mai detto.
Sul volto di Vahram si dipinse un sorriso malefico. Non aveva ancora finito.
«Accidenti, sehre, sapete che avete ragione? Concedetemi un momento.» Si voltò verso la fanciulla e cominciò a confabulare con lei in un elfico che avrebbe fatto storcere il naso a qualsiasi elfo.
«*C’è qualche tuo amico che vuoi portar fuori da questa casa, signorina?*» Le disse cordialmente.
La ragazza esitò.
«*Non avere paura, posso sottrarre da questa casa te e qualunque altro schiavo o amico tu voglia. Dammi il nome di qualcuno e io lo libererò. Ti assicuro che ne sono perfettamente in grado.*» Cercò di tranquillizzarla.
«Cosa gli stai chiedendo?!» Berciò il conte, camminando minacciosamente verso la schiava. «Non dirgli nulla, lurida cagna! Oppure...»
Vahram si frappose prontamente. «Eh, no! Eh, no! Lo avete detto voi: la ragazza ora è mia e ci parlo quanto mi pare e piace.» Si rivolse di nuovo alla fanciulla, incoraggiandola con un cenno del capo.
Abbassò la testa timorosa per un attimo, poi la rialzò decisa. I suoi occhi lasciavano trasparire una spiccata brama di rappresaglia.
«*Ha mio cugino, Letho.*» Rispose, in elfico.
«Voglio anche suo cugino, Letho...» Intanto Vahram riferiva al conte, in attesa degli altri nomi.
«*Poi Lia e Valanthe, le cameriere, sono mie amiche. Mezz’elfe anche loro.*» «...Lia e Valanthe...»
«*Omar, lo sguattero. È un ragazzino umano.*» «...Omar...»
«*E infine Laucian, il giardiniere. È un elfo. Questi sono tutti gli schiavi che lavorano in casa, tutti gli altri servi sono normali dipendenti.*»
«E Laucian, il... Ehi, avete un elfo giardiniere, sehre? Avete buon gusto nel scegliere i vostri schiavi dal pollice verde.» Disse in tono di scherno.
Vahram scambiò un sorriso complice con la ragazza e col nano.
Il conte stava perdendo la testa. «No! No! Ora stai superando il limite! Hai idea di quanto mi sono costati quegli schiavi? Niente da fare! Ora prendi la tua puttana e...»
«Come sta vostra figlia Adelasia, sehre? Spero bene.» Il sorriso diplomatico sul volto di Vahram sparì improvvisamente.
Il nobiluomo si irrigidì. Presagì quello che stava per sentire.
Era chiaro che anche il guerriero si stava seccando e voleva concludere la trattativa al più presto. Aveva deciso di passare all’attacco, sfoderando uno degli stratagemmi più infidi e crudeli che conosceva.
«Ho saputo che adesso sta frequentando il Collegio di Willroot. Una bella sistemazione. Deve sentirsi tanto sola... lontano da casa. Senza alte mura a proteggerla, senza guardie personali. Mi hanno detto che adora uscire la sera, e lo fa anche spesso, anche fino a tardi. In locali d’alta classe s’intende, per carità, è ovvio.» Disse, flemmaticamente. In realtà non ne sapeva niente degli svaghi della sua figlioletta, si stava inventando tutto di sana pianta, ma a giudicare dall’espressione terrorizzata del padre, a quanto pare la minaccia stava funzionando. «Non avete paura che una sera entri nel vicolo sbagliato e incappi in qualche malintenzionato? Con tutti i nemici che vi siete fatto in questi anni, poi.»
«Non oserai...» Balbettò il conte terrorizzato.
«Io? Ma vi prego, sehre! Per chi mi avete preso? Io sono una brava persona.» Sbottò Vahram offeso, con aria innocente. «Ma è più facile di quanto s’immagini che certe indicazioni raggiungano le orecchie di... non so... la Fratellanza Sherevita? Con cui avete una montagna di debiti, se non ricordo male. È un bel rischio, mi creda! Se la rapissero, chissà in quali barbari rituali potrebbero...»
«Va bene! Va bene! Va bene! Ti darò ciò che chiedi, ma non dire altro!»
Vahram abbozzò un sorriso compiaciuto.
«Sei un mostro! Questa volta passi! Ma ti avverto, maledetto schifoso, te la farò pagare!» Il volto del conte ormai sembrava quello si una bestia rabbiosa. «Scoprirò chi sei, contaci! In futuro farai meglio a guardarti bene le spalle: potresti ritrovarti un bel coltello piantato nella schiena!»
Non ce la fece più a fingersi sereno; dentro di lui stava esplodendo dal livore. Quelle parole furono la goccia che fa traboccare il vaso. Il volto del guerriero cambiò repentinamente. Il nobiluomo ebbe un sussulto: due occhi gelidi e sanguinari lo stavano inchiodando sul posto. Il volto dell’uomo dinanzi a lui era diventato inespressivo, glaciale, colmo d’odio, terrificante. Quello era il suo vero volto.
Vahram lo ghermì per la spalla e lo strattonò violentemente a sé, facendolo voltare verso la strada.
«Guarda laggiù.» Gli ringhiò nell’orecchio.
Ciò che vide gli fece accapponare la pelle. Nell’ombra dei vicoli oscuri che affluivano sulla strada, scorse un gran numero di figure osservarlo minacciose. Guerrieri imponenti dal volto di ghiaccio, vestiti con abiti variopinti e armati di arco e armi da mischia pesanti e terribili. Tigran non si smentiva mai: i suoi uomini stavano davvero vegliando su di lui.
«Li vedi quegli uomini? Sono schiavi. Anche io sono uno schiavo come loro, come quel valoroso nano e quella ragazza. Ognuno di noi ha sopportato tanto dolore quanto mai ne ha provato la tua intera stirpe di pomposi scellerati.»
Lo trascinò oltre il portone, fuori dalla vista della folla. Gli afferrò il mento con la sua grande mano, costringendolo a guardarlo negli occhi.
«Voi grassi, arroganti e perversi schiavisti non potete comprendere il nostro dolore. La nostra vita è una guerra. Ogni nostro giorno è una battaglia. Noi non viviamo, sopravviviamo. Non siamo pezzenti. Siamo guerrieri! E se hai un problema con noi, non lo risolverai con un coltello. Ti servirà un esercito!» La sua voce era ferma e grigia. Il conte lo guardava e ascoltava ogni parola sempre più atterrito.
«Le tue minacce non mi fanno paura. Mandami contro tutti gli assassini che desideri, ho vissuto innumerevoli battaglie, una in più non mi spaventa. Consiglierei io a te piuttosto di guardarti le spalle. Una freccia silenziosa nella notte e ben più pericolosa di qualsiasi pugnale. Se non vuoi temere ogni ombra che calpesti per il resto della tua vita, non tormentare mai più me e la mia gente.» Ovviamente non avrebbe scomodato gli uomini di Tigran, sarebbe stato più che felice di uccidere lui stesso quel porco, e gratuitamente.
Con una spinta allontanò da sé il conte e si diresse nuovamente in strada senza degnarlo di uno sguardo.
«Domani mattina, prima di mezzogiorno. Porta gli schiavi e tutti i documenti di proprietà che li riguardano al magazzino abbandonato della 44° strada, nella periferia Sud.» Gli disse, voltandogli le spalle. Quello era un posto discreto che utilizzava spesso in passato. Il conte annuì tremante. «Li voglio illesi, ovviamente. Sii puntuale.» E ritornò in strada.
Ad attenderlo fuori c’era il figlio del conte. Era terrorizzato: si teneva i pugni stretti al petto e tremolava come un budino dopo aver visto il volto di quel figuro. Senza dire nulla, il Conte Kuhbach lo prese per mano e lo trascinò dentro casa.
La folla rumoreggiava, qualcuno suggeriva di chiamare le guardie.
Vahram tornò magicamente bonario e gioviale come se nulla fosse successo. Si voltò verso i due che se la davano a gambe. «Grazie infinite, signor conte! Sapevo che era una persona di buon cuore!» Poi si rivolse alla folla con la sua affettata disinvoltura da mercante. «Sehres yev parona! Cosa c’è da borbogliare? Il Conte Fernand Kuhbach ha dimostrato grande spirito di clemenza! Ha appena deciso di liberare tutti gli schiavi di sua proprietà!»
A queste parole, la gente parve molto più confusa e rumorosa di prima, ma perlomeno l’idea di chiamare le guardie passò immediatamente in secondo piano in seguito a questa sconvolgente notizia. Era il momento di tagliare la corda. Con un rapido cenno, fece segno a Tigran di prendere le redini del carro e avvicinarsi.
Infine, finalmente, si rivolse ai due ex schiavi.
«Barev achper, il vostro gesto mi ha colpito profondamente. Siete stato fin troppo educato con quegli aristocratici; certa gente non merita una simile gentilezza. Se ho sentito bene, vi chiamate Ydins Rou, giusto? Avete il mio più profondo rispetto.» Gli porse la mano, il suo sorriso in quel momento sembrava incredibilmente spontaneo. Gli stava dando volontariamente del voi. «Da queste parti mi chiamano in molti modi diversi, ma un fratello schiavo ha tutto il diritto di conoscere il mio vero nome: io sono Vahram. È un grande piacere per me fare la vostra conoscenza, strukbayr Ydins.»
Si guardò intorno, scrutando i passanti che li osservavano incuriositi. «Forse ho esagerato un po’... ma per lo meno così quel conte non darà più fastidio a nessuno schiavo almeno per un po’ di tempo.» Accarezzò dolcemente la testa della ragazza. «Poverina... Non temere, sono un medico, adesso ti portiamo in un posto sicuro.» «È meglio allontanarsi. Il mio alloggio non è molto lontano da qui.»
CITAZIONE Scusa ancora per il mio mostruoso ritardo. Le feste purtroppo non mi hanno lasciato scampo.
Ti chiedo scusa anche per lunghissimo post. Sto cercando di mettere assieme poco a poco il background del mio pg e l'ambiente in cui si muove. Ho inserito anche un mio nuovo npg che ogni tanto userò in altre ruolate. Come al solito mi sono lasciato un po' trasportare scrivendo un po' troppo.
Facendo un riassunto, Vahram, insieme al suo ex sottufficiale e compagno d'armi Tigran, stanno girando per le via della città, quando si trovano davanti alla situazione che hai descritto.
Appena Vahram ti vede correre in soccorso della mezz'elfa, rimane colpito dal tuo coraggio e dal sentimento che ti spinge a farlo. La sua esperienza di schiavo fu talmente atroce da uccidergli quasi del tutto ogni sentimento umano e ogni ambizione e speranza (i suoi atteggiamenti bonari e amichevoli sono tutte messinscene); ora che è libero, vaga per il mondo nella speranza di comprendere cosa significa non avere un padrone e vivere come tutti gli altri esseri umani. La cosa più sconcertante è però il fatto che lui era fiero di essere uno schiavo, dato che i mamūluk, gli schiavi guerrieri, di cui faceva parte erano tra le forze armate più temute del continente. Ora che quel suo "periodo d'oro" è terminato, si trova davanti la vera faccia dello schiavismo di Xuaraya, rimanendone inorridito e indignato.
La vista del tuo gesto d'amore gli fa pensare che tu potrai essere un prezioso amico. Qualcuno da cui poter imparare qualcosa e che potrebbe dare uno scopo alla sua vita insensata.
Dunque va dal nobile (che mi sono permesso di chiamare Conte Fernand Kuhbach) e comincia a ricattarlo, fino ad arrivare a minacciarlo apertamente. Alla fine, grazie anche alla complicità della mezz'elfa, lo convince a "vendergli" tutti gli schiavi che ha in casa. Il conte si rintana in casa terrorizzato e Vahram viene a farti i complimenti e si presenta, offrendosi di curare la mezz'elfa. Infine invita entrambi alla sede del Cartello Mamūluk, dove alloggia, per dialogare in tranquillità.
PS: 1) Ti prometto che è l'ultima volta che scrivo così tanto. I miei prossimi post saranno più brevi. 2) Al post ci ho dato solo una mezza riletta, quindi ti avverto che quasi sicuramente troverai degli errori.
Edited by Orto33 - 31/12/2013, 00:35
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