Aper army ····· - Group:
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| Է Խայթել ~ The Sting ~ Քրեական
(Vahram [pensato, lingua aramana], Jasmine, Killibert Gnam, Harmond Joll, prostitute.)
«Aaah... Ma chi me lo fa fare...»
Vahram non si dava pace. Camminava avanti e indietro per la strada principale del quartiere a luci rosse continuando a stazzonare nervosamente con le sue grosse mani lo strano biglietto che aveva in tasca. Omar, il suo assistente, lo aveva trovato nella cassetta dei ferri chirurgici il giorno stesso in cui erano giunti a Laslandes. Probabilmente qualcuno doveva avercelo messo di nascosto mentre il medico si era allontanato in qualche vicolo a orinare.
Non che quel messaggio lo turbasse, certo che no, il nome del famigerato sicario e assassino Al Patchouli girava e rigirava in continuazione dalle bocche giuste agli orecchi giusti. Grazie ad amici fidati, lui stesso amministrava e indirizzava la rete di contatti tramite cui potenziali clienti sarebbero stati in grado di contattarlo. Ogni volta che si spostava, la notizia del suo arrivo lo precedeva anche di settimane. A dire il vero i tempi di comunicazione erano abbastanza mutevoli, in genere dipendevano dalle distanze o da su quanti contatti poteva contare nella città di destinazione. Nel Perwaine, ad esempio, non gli era difficile procacciarsi clientela.
Chiunque desiderasse i suoi servizi, poteva rivolgersi comodamente a una cerchia affidabile nel giro malavitoso del proprio comune di residenza. In seguito, i membri di questa cerchia – spesso essi stessi ex datori di lavoro o collaboratori di Al Patchouli – notificavano la richiesta a un certo Dottor Azad, un medico tuttofare itinerante che era stato indicato dall’assassino stesso come il suo contatto principale. E poi, hop! All’ora e nel posto stabiliti compariva un possente e taciturno guerriero nero dal volto coperto in grado di portare a termine qualsivoglia compito gli venisse chiesto.
Ben pochi avrebbero potuto collegare quel bonario e generoso medico dispensatore di ampi sorrisi e pozzo inesauribile di facezie all’efferato mastro risolutore dagli occhi gelidi, il freddo e cerusico architetto di piani impeccabili di nome Al Patchouli, detto la Volpe degli Altopiani.
Ma per chiunque sarebbe stato ben più impensabile anche solo immaginare cosa si nascondeva dietro al mutevole volto di quell’attore eccezionale. Non un sicario, non un ladro, non un assassino, ma un mostro temprato negli orrori della guerra, addestrato a sopravvivere in condizioni ben oltre i comuni limiti umani; un essere privo di sentimenti ed emozioni, strappatigli dall’anima sugli insanguinati e meravigliosi tavoli di tortura irti lame e tenaglie dell’Impero Sulimano. Una creatura plasmata tramite rigorosi metodi scientifici per divenire lo schiavo perfetto e il guerriero perfetto.
Un mamūluk.
Ogni medaglia e riconoscimento per i suoi meriti militari passati erano ancora ben visibili: marchiati indelebilmente a fuoco sulle sue braccia.
La sua età d’oro nell’Armata dei Lancieri Neri era ormai tramontata, sprofondata nell’oblio insieme all’Impero. Ora era libero, e ogni giorno che passava errando da città in città, da strada a strada, rispecchiandosi nella sofferenza dei disperati e nei sorrisi dei bambini, realizzava sempre più cosa significasse essere umano. Cosa significasse non avere un padrone.
Grazie alle formidabili qualità di trasformista acquisite in anni e anni di servizio nelle Squadre Speciali Mamūluk, tentò di vivere l’esistenza che più si addiceva alle sue capacità. Il Dottor Azad forse era l’espressione di un suo qualche inconscio desiderio di essere normale, di svolgere un lavoro che lo ripagasse con nuove effusioni di sentimenti: altri sorrisi, altri ringraziamenti, altra riconoscenza... Premi che gli sembrava di non aver mai ricevuto in vita sua.
Al Patchouli rimaneva però la sua principale fonte di guadagno. Chi era del giro o aveva il privilegio di riuscire a farsi spifferare le giuste informazioni spesso arrivava a rintracciare e ad avvicinare direttamente tale Dottor Azad.
Alcuni sprovveduti lo approcciavano direttamente o tramite galoppini – di solito i nobili –, ma altri clienti interessati ben più giudiziosi lo contattavano con più discrezione. Quando questi dovevano inviargli offerte di lavoro, lo facevano nei modi più disparati. Usare mendicanti, bambini, prostitute, tagliaborse e altri “terzi” era uno dei metodi più classici, ma gli era capitato di ricevere messaggi anche tramite bizzarrie come: cani, scimmie, piccioni o altri animali addestrati, frecce o dardi con foglietti legati, scritte sui muri, strambi marchingegni, palline, scatole, bottiglie, sacchetti, panini imbottiti, bambolotti... insomma, qualunque cosa in grado di recapitare un messaggio evitando il rischio di essere messa sotto torchio dal destinatario.
Ai suoi occhi indagatori, però, ognuno di questi approcci raccontava un’intera storia sul proprio aspirante datore di lavoro.
Il metodo “infilo un biglietto tra le tue cose più preziose per dimostrarti che sono in grado di raggiungerle come e quando voglio” lo catalogava tra i classici.
Ladri... Ombre della notte, forse...
Dal carattere formale del messaggio sul biglietto, quella assomigliava a una comunissima richiesta di un servizio remunerato.
Il problema era un altro.
«Odio i cretini che pianificano gli incontri nei lupanari...» Pensò seccato.
Davanti a lui s’apriva la porta d’entrata del bordello chiamato “Le mille grazie”. A vederlo non sorprendeva che fosse una delle case di piacere più popolari di Laslandes. Era un edificio immenso, alto piani su piani. Dalle ampie finestre e colonnati decorate di arabeschi e mosaici raffiguranti voluttuose scene orgiastiche si affacciava uno stuolo di prostitute avvolte in succinti abiti in tessuto trasparente. Schiamazzavano e si proferivano in civettuoli risolini, adescando i passanti nella strada sottostante richiamandoli, salutandoli e talvolta abbassando provocanti il reggipetto, facendo onore al nome del postribolo.
Mille grazie: gambe a ribocco, duemila braccia e mille dolci petti sparsi per mille letti – benché i numeri fossero certamente... millantati – ingrassavano di monete sonanti un già prospero esercizio in grado di fornire sia sciatte marchettare a prezzi abbordabili per i meno abbienti, sia eleganti cortigiane di lusso.
Vahram sapeva bene che quel tipo di attività erano ricettacoli più che consueti per le cosche malavitose che era abituato a frequentare, ma nonostante ciò, quando si trattava di dover entrare in un bordello la paranoia s’impadroniva di lui. Non poteva farci nulla: era la sua fobia, la sua maledizione. Ogni volta terribili ombre di agguati nei piaceri del talamo, letali insidie nascoste dietro curve seducenti lo tormentavano. Rivedeva quel dannato tatuaggio a forma di cobra sul petto di ogni prostituta. Aveva il perenne timore che qualche suo nemico fosse venuto a conoscenza della sua debolezza e lo stesse attirando in una trappola.
Vahram si passò cogitabondo la mano sulla fine cicatrice che segnava il suo mento. Da quando aveva ricevuto quel biglietto, Vahram riservava metodicamente parte delle sue giornate appostato a osservare di nascosto quell’edificio come un ossesso.
Gli parve di notare di tanto in tanto loschi movimenti, segno che là dentro trafficava un qualche nucleo criminale, ma forse queste supposizioni erano solamente frutto delle sue paranoie...
Al Patchouli quella sera giunse alle Mille grazie alle nove spaccate, in perfetto orario, come era sua consuetudine. Data la natura del luogo in cui doveva entrare, aveva modificato di conseguenza la sua solita tenuta lugubre, foderando il mantello grottescamente logoro con nuovo tessuto nero di buona qualità e aggiustando il proprio costume al fine non dare nell’occhio. Conciato in quel modo ridicolo, piuttosto che a un sicario o un avventuriero, assomigliava a un miliziano della guardia cittadina intabarrato alla bell’e meglio per sfuggire anonimo a una monotona ronda o a una moglie gelosa per cercare braccia più accoglienti tra cui abbandonarsi. Aveva pure lasciato la sua preziosa lancia nel carro, per defilarsi meglio.
Restava però lì ritto in piedi in mezzo alla strada, titubante, riluttante a varcare la porta.
«Ehi, laggiù! Yuhuuu? Uomo nero, perché te ne stai là fuori solo soletto?» «Cosa aspetti? Accomodati dentro, siamo qui ad aspettarti.» «Suvvia, non ti mangiamo mica.»
Le ninfette alla finestra non ci misero molto a notarlo. Appena tre di loro iniziarono a invitarlo con schiamazzi civettuoli e ampi gesti provocanti, tutte le altre le seguirono a ruota accanendosi sul guerriero solitario come tanti pescatori intenti a incitare forsennati un pesciolino indeciso a entrare nella rete.
Vahram buttò gli occhi al cielo. «Aaah... E va bene...»
Piuttosto che restare lì sotto quella pioggia di lusinghe a logorare la propria copertura, prese un lungo respiro e decise di entrare.
Esotici e soavi profumi mescolati a un’ammaliante musica dal ritmo lento e afrodisiaco si sostituirono bruscamente al fetore di urina, immondizia e sterco di cavallo che aleggiava fuori in strada.
L’interno delle Mille grazie era a dir poco spettacolare. Guarnito in ogni dove di sete, tappeti screziati, panche e triclini imbottiti e cuscini di ogni foggia e dimensione. I diversi piani del bordello, contornati da ricchi cornicioni, si innalzavano sopra di lui come cieli di un qualche paradiso lussurioso. Più si salivano le scale di quel palazzo, più ci si avvicinava alla sublimità di quel luogo: i piani divenivano sempre più accoglienti e lussuosi.
Una gran folla di gente popolava il salone principale; non solo prostitute, ma soprattutto clienti, alcuni riccamente vestiti, altri meno. Appostati in punti strategici si potevano notare un buon numero di sorveglianti, defilati in modo da non disturbare i clienti, ma pronti a intervenire nel caso qualche avventore eccessivamente alticcio si mettesse a molestare la mercanzia. Stavano con i petti in fuori e le braccia muscolose conserte dietro alla schiena; alcuni restavano immobili in silenzio, altri si svagavano parlando giovialmente con le ragazze.
Minimi dettagli, indizi che solo chi ha passato buona parte della propria vita in catene sa riconoscere, tradivano la provenienza di diverse guardie e prostitute.
Schiavi. O forse schiavi liberati.
«Di certo questo è un bordello di quelli seri. Altro che quei soliti lupanari tipici dei bassifondi pieni di baldracche tumefatte e disperate. Qui le sanno trattare come si deve le proprie lavoratrici.» Constatò tra sé e sé.
Vahram poteva dirlo con confidenza: anche lui era un assiduo frequentatore di bordelli, prima del suo... incidente, s’intende. A gestire quell’attività doveva essere una persona esperta. Qualsiasi fosse il passato di quelle ragazze – professioniste, figlie o mogli vendute per saldare qualche debito o schiave acquistate – sembravano vivere e lavorare in un ambiente oltremodo rilassato. Ad animare l’atmosfera vi erano risate e sorrisi, non la sensazione opprimente e piena di patema di certi altri posti.
Non arrivò nemmeno a fare tre passi che un nugolo di prostitute stormirono intorno a lui per accoglierlo come si deve.
«Ciao! Sei nuovo? Non ti abbiamo mai visto qui.» «Vuoi favorire qualcosa da bere o da mangiare prima del servizio, guerriero misterioso?» «O forse hai già messo gli occhi su una di noi?» «Oppure su due?»
C’era d’aspettarselo...
In un istante si ritrovò in un vorticare chiassoso di colori, pelle nuda, provocanti lusinghe e morbidi e profumati seni femminili che lo assediavano da ogni parte. Vahram ebbe un sussulto e ringraziò di avere il volto coperto in quel momento: sotto quegli occhi sbarrati – apparentemente allupati – nessuno avrebbe potuto scorgere l’espressione contratta di puro sgomento della sua bocca. Si accorse si star stringendo come un ossesso il pomolo della scimitarra sotto il mantello.
Gli ci volle un gran sforzo di volontà, facendo appello alla sua proverbiale freddezza di maūluk, per superare quel breve attimo di spaesamento. Individuò sbrigativamente la prostituta dall’aspetto più affidabile, la tirò a sé con la maggior delicatezza che gli riuscì e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio.
«No, vi ringrazio, ma... sto cercando Jasmine.»
Questa lo guardò con aria capricciosa. «Umf, che peccato...»
Fece per staccarsi da lui ma Vahram la avvicinò di nuovo.
«Ehm... e fai presto...» Aggiunse, preoccupato nel vedere che le altre ragazze non avrebbero tolto l’accerchiamento tanto presto.
Questa accarezzò il braccio coperto dalla cappa e si strusciò su di lui con fare ozioso, dando alla pelle dello straniero un indiscreto saggio delle sue curve. Poi sorrise arcuando placidamente la schiena e mettendo “accidentalmente” in mostra le proprie bellezze – come per far dispetto all’ultima richiesta del guerriero – poi si allontanò dalla torma, scomparendo in un corridoio.
Pochi minuti dopo, la piccola folla si aprì per far luogo alla persona che Varham aveva chiamato. Al suo arrivo ogni paia di occhi dell’atrio si spostarono su di lei.
Una donna di scultorea bellezza scolpita in curve sinuose e perfette, portamento elegante e raffinato, occhi da cerbiatta vispi e indomabili, setosi capelli neri che dispensavano sbuffi di soave profumo a ogni movimento.
«Io sono Jasmine.»
Si avvicinò sinuosa, ipnotizzando chiunque la guardasse con le sue movenze, poi si fermò davanti al guerriero e inclinò delicatamente il capo.
«Mi cercava?» Domandò.
Vahram rimase incantato da quella visione, nonostante l’inquietudine che non accennava ad abbandonarlo. Quella sì che era una prostituta di lusso. Gli sorse per un attimo la curiosità di quanto sarebbe potuta costare anche una sola notte con lei.
Di certo era una ragazza sveglia, un’intermediaria perfetta su cui gente che vorrebbe rimanere discreta potrebbe affidarsi sotto giusto compenso per compiti di particolare delicatezza.
Il guerriero si rivolse a lei avendo cura di non farsi udire dalle persone circostanti.
«Barev aper, aghjik. Non sono qui per favrorire dei vostri... Ehm... Insomma...» Con un cenno la invitò ad appartarsi in un posto defilato. «Devo parolarvi in privato.»
Si spostarono in un angolo appartato, tagliato dal resto della sala e celato da pesanti tendaggi. Vahram si guardò ancora meticolosamente intorno con circospezione prima di proseguire.
«Mi hanno detto di rivolgermi a voi. Qualcuno ha richiesto un servizio da Al P...»
Il dito della ragazza si posò sulle labbra del guerriero un soffio prima che dicesse una sola parola di troppo.
«Niente nomi, questa notte.» Ammonì con un dolce sussurro.
A quelle parole il suo volto si adombrò, i suoi occhi divennero di gelidi e penetranti. “Niente nomi”? Che significava? La cosa puzzava sempre di più: la faccenda sembrava farsi molto più losca di un comune incarico.
Per un attimo tentennò, indeciso sul da farsi. Il suo sguardo squadrò diffidente la donna che aveva di fronte, poi passò sulla sala gremita di gente, alla ricerca di occhi sospetti o indiscreti puntati verso di loro; quando appurò che nessuno li stava spiando, riprese il suo fare artificiosamente gioviale.
«D'accordo, aghjik. Siete voi il capo.» Ridacchio in tono ironico, alzando le mani con aria colpevole.
La prostituta porse la mano al suo ospite, nel più classico e regale degli inviti.
Varham fece per prenderla, come incantato dal fascino di quel gesto, ma all’improvviso si bloccò. Ebbe come un ripensamento improvviso. Il gesto abbozzato dalla sua mano protesa si trasformò in una goffa e sbrigativa, seppur cortese, esortazione ad andare avanti.
«Ehm... grazie, ma non disturbatevi. Vi seguo.» Borbottò.
Alle sue parole, Jasmine inclinò lievemente la testa e annuì, si avviò. Superarono lussuosi corridoi dai cui lati provenivano soffusi respiri affannosi e gemiti sensuali, poi scescero una rampa di scale, intrufolandosi in intricati corridoi e passaggi sotterranei di servizio. Giunsero infine davanti alla disadorna parete di uno sgabuzzino.
La ragazza si alzò sulle punte dei piedi e cominciò a spingere delle precise mattonelle, che rientrarono nel muro come leve di un qualche curioso meccanismo. Una, due, tre quattro. Alla quarta, una sezione della parete s’incassò con un sibilo e si aprì scorrendo di lato. Jasmine entrò senza esitazione, come se quella prassi fosse una sua routine quotidiana.
«Sapevo che c’era sotto qualcosa d’interessante...» Pensò Vahram, che era stato ad ammirare con curiosità l’azionamento di quel marchingegno.
Dentro alla stanza segreta, una sommessa discussione s’interruppe all’istante. Quattro teste si alzarono per guardare il nuovo arrivato e la sua accompagnatrice. I quattro uomini si fissarono per un istante, poi Jasmine salutò ognuno di loro con un cortese inchino.
«Vi lascio soli.» Disse infine, e se ne andò, richiudendo il muro alle sue spalle.
Dopo un breve e pesante silenzio, uno di quegli uomini, un giovane dai capelli biondi, ruppe il silenzio.
«Be', piacere. Io sono Killibert Gnam, loro invece si chiamano Joan Butcher, Harmond Joll e Reginald Foe. Siediti pure.»
«Oh, adesso dobbiamo anche aspettare.» Bofonchiò l’uomo presentato come “Harmond Joll” un uomo nero come il carbone.
Vahram non disse nulla. Si proferì in un rispettoso e marziale inchino per poi sedersi nel posto libero più vicino alla porta, lontano da loro, scrutando silenziosamente i suoi misteriosi anfitrioni.
E aspettò...
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