Si addentrò una volta nelle Selve un vecchio mercante dagli occhi stanchi, aiutato da due giovani bottegai; portava con sé un carico di libri, liquori e spezie e veleni. Le ruote del suo carro battevano forte sulla dura pietra, e gli zoccoli del mulo zittivano il nido dei corvi: non era segreto il loro passo a Morgàn, il cacciatore, il cui sguardo era servo di quella terra, e dell'antica storia che dava voce agli alberi senz'anima, alle bestie prive di pensieri.
Ma non venne toccata loro la vita; soltanto un piccolo oggetto, che cadde dal cumulo in un momento di silenzio - le Selve lo desiderarono -, un libro che portava il nome di un uomo per titolo, e il cui racconto si interrompeva dopo poche pagine, lasciando bianche le restanti. Lo prese con sé il figlio della Zingara, quando il mercante si era ormai allontanato dalla via; vi scrisse le proprie tracce, credendo che il libro lo chiedesse, con fervore. E quello prese corpo. Lentamente, prese corpo.
In a Heart full of Dust
. . .
|
Sei tornato il nuovo giorno, e ti sei mostrato diverso, diversa. Ti prendi i miei ricordi e la mia storia come le acque di una palude. Indossi un vestito nero per il lutto che accompagna la mia morte, e ti copri il volto con una maschera di malinconia: per la mia reincarnazione - qualcosa di prezioso andrà perduto, non è forse così? -. Sei come il bambino che io tornerò ad essere, quando mi sarò perduto: è il sogno che mi attanaglia tutte le notti, perdere i miei ricordi. Ti vedo nella pelle nuda di un bambino. Ma tu hai già veduto me. Cammini sul mio terreno di caccia e vaghi, noncurante dei lupi delle Selve, e mi cerchi con i tuoi occhi aspettando fuori dalla casa; ma il tuo aspetto si turba come aria, come fosse acqua, quando ti viene incontro un corpo che prova la fame dei vivi, e non sei né carne né sangue. Non hai odore per la caccia delle bestie. Vattene. Maledetto, maledetta! Perché non vuoi andartene, fuggire da me? Non hai mai ascoltato che cosa dicono i racconti di me, di me, di me? Io non ho i loro desideri - non sono più uno fra gli uomini, ma un eremo; non in questo luogo, ma lontano - non sai quanto sono distante? - quanto il gelo che un uomo non può sopportare nella sua anima. Io sono uno spettro, e da sempre osservo i giochi e le cose mortali dietro un vetro ed una vita che mi nasconde, e sono invisibile. Vattene, via da me! Ma tu hai visto il mio volto vero: lo hai sentito, toccato con le tue mani, e mi chiami con la tua voce che porta molti ricordi con sé. Immagini di un segreto, di una guerra, e molti nomi: mi vuoi con te? Allora canta e dimmi, se hai deciso di restare, scrivi quello che sono - chi sono io? Tu che mi vedi, come sono io? . . . |
Mi vedo, nello specchio di te: le mie labbra, assetate, gli occhi grigi per il grande sonno. La maschera di ferro e il mio corpo stanco; i suoi capelli, il ricordo della madre. Mi trovo nel centro delle rovine circolari di un tempio: qui non cresce l'edera, perché lo negò un incendio dei tempi antichi e la pietra fu annerita dalle fiamme. Un cerchio è tramite di ogni cambiamento, come nelle notti di lei, la madre. Ma non è presente in questo giudizio. Ne vibra la brezza fredda della notte, lo ingoia la terra, umida; non è più soltanto un presagio, ma qualcosa che già accade, e mangia e cresce. Il loro passo stride sui sassi: ora rispondono ad un richiamo lontano, le bestie, le sagome nere delle bestie si adunano intorno a me, Morgàn: le voci sono inquisitorie, il fiato spira lugubre dalle loro fauci, denti stretti nella morsa del buio. Sono i lupi, i miei vecchi compagni di caccia. Li guida un'immagine arcana, un animo dei tempi che furono, dei tempi che sono, ed è un suo pensiero a disegnare questo cerchio famelico: intorno a me, solo, ad oscurare la Luna dal mio sentiero, perché si dice che io sia un traditore. Un traditore. Un respiro, nel corpo del silenzio, uno e molti, a fatica, si ripete denso come il sangue, caldo come la bocca prima della morte; scandisce il tempo che più non è, ed è fermo ed è immobile. E pur si stringe il cerchio, danzando le bestie: chiedono, a gran voce, con un filo di voce, in una moltitudine di voci: chiedono! Danne anche a noi. Di che cosa vai a caccia, Morgàn? E avanza uno fra di loro, il capobranco: un bagliore notturno rivela i suoi occhi piccoli, grigi e infossati nel grande muso piatto. Il pelo sbiadito e un sentore di polvere dicono di lui che è antico, e la vecchiaia porta con sé un sapere, assopito, una saggezza, cieca come l'istinto. Il suo corpo secolare, a tratti fumoso e indistinto, e infinito, poiché prende origine da un ricordo: di fronte a me, ha l'aspetto di una divinità. Egli è una grande bestia della passione, e del rancore e della caccia; è lo spettro di un lupo e cresce forte del suo odore gramo, e si distorce nel teatro della mia mente, dentro il tuo specchio come ombra fra le più pesanti da sopportare; cresce la sua voce, e d'un tratto è tutto il grido delle Selve: di chi vai a caccia, Morgàn? Danne anche a me.
[ . . . ]
Quella volta Morgàn dette le spalle alle Selve, e nei giorni che non gli riusciva più di contare vagò a stenti, ad inseguire la sua Voce, l'infante. Camminò a lungo per i sentieri scoscesi, le strade impervie e divorate negli anni dalla vegetazione; e corse e si nascose, perché i lupi seguivano il suo odore e lo attanagliavano. Corse finché il tempo non divenne irreale, e divennero invece tempo i pensieri che cacciavano dentro la sua mente, prendendo a popolare la terra attorno al suo corpo: molti si tenevano a debita distanza da lui e mormoravano sottovoce, temendo per lui la morte. Altri lo aiutarono a leccarsi le ferite. Ma non gli lasciava tregua la caccia delle bestie, e la lotta era estenuante; aveva l'aspetto di un angelo sfregiato, costretto nella follia e nella solitudine delle strade. E credette di non avere più un volto, per le tante ferite. Un vento freddo gli sferzò i capelli, quando i nodi intricati della boscaglia lasciarono il posto ad un campo d'erba incolta, dai toni spettrali. Gli parve che fosse stato l'incubo di una sola, lunga, interminabile notte, quando vide il cielo bruno aprirsi sulla radura: era costellato degli stessi racconti che camminavano sulla terra, spiriti randagi. Alcuni gli tesero le mani, alla vista di Morgàn, come fossero stati antichi compagni di viaggio; ed erano davvero suoi compagni, pensò il cacciatore, mentre muoveva i nuovi passi sul suolo morbido, e l'erba tornava a frusciare alla brezza dopo che il suo cammino l'aveva piegata. Così si lasciò accogliere, abbracciando i fantasmi che salivano con lui. Verso dove? Essi guardavano a qualcosa che si trovava più avanti, e gli sussurravano: Vieni, è finita la lotta - non devi più - è finita la lotta. E gli parve di vedere, che sorrideva, il bambino, bianco per un solo istante. I suoi piedi affondarono nel fango e la brezza divenne fredda, la notte scura, perché insieme con la Voce erano state prese le luci tutte dei racconti. Essi avevano guardato a un lungo pontile che si reggeva sulle acque di un lago, all'apparenza senza confini. Un bagliore riflesso, quando la Luna comparve nel suo cielo ventoso: il cacciatore colse sull'acqua lo specchio di sé. Aveva le mani sporche, grumi di sangue sulle dita e le unghie nere. I suoi denti erano stati troppo feroci, dentro la bocca di un uomo.
Sono io il bambino; sono i lupi e sono il cerchio. |