Maria
Nella radura erbosa cadeva una sottilissima pioggia nera, come se la bile vomitata da un Dio morto ricadesse dal cielo in terra. Maria aveva spalancato il parasole per ripararsi e guardava oltre le ticchettanti falde di stoffa rosa con sguardo assorto. Un'enorme torre si imponeva al centro della radura come un monumento alle grigie e informi nubi che oscuravano il cielo, ma la Strega era certa che fossero le nuvole quelle a onorare quell'orrore nero. Hua e Jeanne avanzavano alle sue spalle coprendosi con un braccio il capo perché non venissero accecate dalla pioggia. Quel temporale era stato improvviso e inaspettato quanto il colore delle gocce ed erano sprovviste di qualsiasi abito impermeabile: non erano abituate a stare all'aperto mentre pioveva. La nekomata aveva il volto contratto in una smorfia di terrore, con le labbra strette e gli occhi spalancati, enormi e tremanti. Aveva sempre avuto un cattivo rapporto con l'acqua e la pioggia, ma mai prima di quel momento Maria l'aveva vista tanto scossa per qualcosa del genere. Tremava sebbene non facesse particolarmente freddo, muoveva le code in maniera irrequieta e con una mano pallida stringeva convulsamente quella di Jeanne cercando protezione, conforto, o anche solo una guida mentre lei si premeva la manica della giacca rossa sulle palpebre, più per non vedere la Torre che per proteggersi. La volpe, invece, non aveva negli occhi dorati nulla se non un gran vuoto, così come prive di espressione erano le labbra mentre lacrime di pece le colavano lungo le guance. Quando si accorse che la Strega la stava guardando, volse il capo verso il terreno con discrezione, senza arrossire. Maria distolse invece lo sguardo da lei con disagio, e una stretta le artigliò violentemente lo stomaco. Jeanne non aveva dimenticato. Non avrebbe mai dimenticato, e lei neppure. L'avrebbe sempre guardata in quel modo? Una parte di lei ne aveva paura, un'altra pensava che se lo sarebbe meritato. Era un mostro. Si trattenne dal poggiarsi una mano sul viso e si limitò a stringerla più forte sull'asticella dell'ombrello. Il ticchettio delle gocce si fece più intenso, fino quasi ad assordarla. Walpurgisnacht le pulsò nel petto, un secondo cuore di pece che batteva accanto al suo. Un mostro.
Era successo notte in un villaggio fra Neirusiens e la Torre. Lì le montagne erano alte e possenti, ammassi di roccia cosparsi di neve come dolci ricoperti di zucchero tritato. I monti ingoiavano il sole molto prima che raggiungesse l'orizzonte in altre terre, così il buio era arrivato presto, ed era un buio intenso, senza luna o stelle e rischiarato solo dalle lampade che qualcuno faceva ondeggiare trasportandole per la sottile maniglia. Jeanne era stata fuori fino a tardi a raccogliere provviste, abiti adatti e informazioni. Come aveva detto poi a Maria con voce atona, aveva consultato una ventina di persone ricevendo come informazione più chiara qualche cenno di capo, a volte insulti. Era tornata trasportando un pesante zaino carico di cibo e vestiti e quando non aveva visto la padrona nella stanza di locanda che avevano affittato, era corsa a cercarla ovunque. E alla fine l'aveva trovata. C'era una cascina di legno abbandonata poco distante dal villaggio, con le pareti divorate dai tarli e piene di schegge sporgenti. Le tegole del tetto erano per la maggior parte scivolate a terra per poi essere mangiate dal fango. Jeanne aveva aperto la porta con circospezione, lasciando entrare la luce poco a poco. I cardini arrugginiti avevano gracchiato rumorosamente, traballando, pronti a spezzarsi, ma non lo fecero. A quel rumore Maria, all'interno, aveva sollevato gli occhi verso il chiarore improvviso, rimanendo accecata. Aveva le ginocchia sulle assi del pavimento e brividi di freddo le salivano lungo la schiena. Rimase spaesata a fissare la lanterna, una falena attratta dal fuoco. Quando le pupille le si abituarono vide che Jeanne aveva portato una mano alla bocca e la fissava con occhi sbarrati. Accanto a Maria vi era un cadavere minuto, appartenuto a quello che doveva essere stato un bambino di cinque, sei anni, ma era impossibile dirlo con certezza, perché al piccolo mancavano gli occhi e il volto era deformato nell'ultimo grido che aveva tentato di lanciare. Ventre e petto erano stati scoperchiati e le punte affilate delle costole frantumate sporgevano dalla cassa toracica e mostravano le viscere lucide di umori come un macellaio avrebbe fatto con la propria merce. Un polmone era stato strappato dal suo posto. Maria lo stava stringendo fra le dita, un pezzo di carne informe che gocciolava sangue, ma non era tutto. Il resto lo stava masticando, lo avrebbe finito di masticare se Jeanne non fosse entrata. Il sapore del sangue era caldo e grasso e le scivolava giù in gola assieme alla saliva. Per un istante la Strega aveva sentito la rabbia arrossarle il volto, rabbia perché la serva l'aveva sorpresa, rabbia per quello sguardo orripilato. Poi si rese conto di ciò che aveva fatto. Vomitò.
«Ti... ti prego non... non guardarmi...»
Aveva rantolato tra i conati mentre bava acida le colava sul mento. Aveva sangue fra le dita, sulla bocca, sui capelli, aveva sangue di quel bambino ovunque e l'odore metallico le faceva girare la testa. Aveva visto quel bambinetto dai capelli biondi camminare da solo con un secchio d'acqua dal pozzo e lo aveva chiamato con sé con due paroline dolci cariche di potere quasi senza volerlo. L'aveva trascinato lì, al buio, poi aveva stretto le mani sulla sua morbida gola prima che potesse accorgersene. Walpurgisnacht le aveva pulsato nel petto mentre lui si contorceva boccheggiando alla ricerca d'aria, ma le manine non avevano potuto nulla contro quella presa feroce. La lampada che portava, caduta a terra, si era spenta, e Maria aveva compreso che fosse morto solo quando aveva sentito che non si stava più muovendo.
«Non guardarmi... non guardarmi...»
Si era messa a singhiozzare di fronte a Jeanne, a piangere ricoperta di vomito e sangue. La Volpe non aveva detto nulla. Le braccia le erano cascate distese lungo i fianchi, poi si era voltata e se ne era andata in un silenzio rotto solamente dai suoi passi barcollanti sul terreno. Era stato allora che aveva incontrato la ragazza con i capelli viola. Lei e Jeanne non si erano più parlate. Non più apertamente come prima, almeno, e Maria si era resa conto di quanto avesse avuto bisogno di lei, di quanto ancora ne aveva bisogno. Aveva ucciso la propria famiglia, aveva fatto bruciare sul rogo una vecchia, aveva mangiato di fronte a un uomo incatenato la sua stessa carne viva e mandato a morte i soldati a lei affidati dopo averli incaricati di far strage di donne e bambini. Nonostante questo, mai si era pensata come un mostro prima di allora. Aveva calcolato tutto, aveva fatto tutto per rispettare il disegno che si era creata in testa. Ma quel bambino... quel bambino cosa c'entrava in tutto questo? Cosa aveva pensato nel momento in cui l'aveva attratto a sé? “Ho fame”. Un singulto l'attraversò costringendola a fermarsi.
Ormai la Torre era vicina, tanto che solo ora si rese realmente conto quanto fosse alta e imponente. Per un istante tutti i suoi pensieri vennero catturati da quella gigantesca massa scura. Velta, la Torre distrutta, la Torre nera, la Torre dei sogni, questi erano i nomi con cui era chiamata, tutti estremamente calzanti per quell'ossessione tangibile. Il suo canto era una melodia dolce e sommessa, una ninna nanna di miele, ma miele velenoso, letale, con gli aculei delle api nascosti, pronti a pungere senza pietà. L'aveva conosciuta attraverso le storie che le serve di suo padre le avevano raccontato quando era piccola, favole spaventose, irreali. Ma tutte le leggende hanno un fondo di verità e spesso è proprio la parte più oscura e oscena. Murasaki si sarebbe tenuta lontana dal Sorya, terrorizzata dall'idea di essere catturata da Velta, ma Murasaki, come i sogni le ricordavano ogni notte, era morta. Il salmodiare della Torre l'aveva attratta vicina, sempre più vicina, finché non le era definitivamente apparsa di fronte agli occhi, svettante fino al cielo.
«Milady... perché siamo qui?»
Hua le si era fatta vicina e si era stretta a lei per ripararsi sotto il parasole. Quest'ultimo non era abbastanza da coprirle entrambe, ma Maria lo scostò un poco in maniera che la pioggia non le bagnasse i capelli.
«Non mi piace la pioggia. È... sporca.»
La nekomata fece una smorfia e alla Strega venne improvvisamente da sorridere, eppure il riso le morì sulle labbra ancor prima di nascere. Lei non sapeva del bambino. Jeanne non gliel'aveva detto, ovviamente, non glielo avrebbe mai detto, ma cosa avrebbe pensato di lei se lo avesse saputo?
«Ho sentito narrare di come il Sorya custodisca un antico potere. Di come le Ombre siano arrivate su questa terra dopo che il grande Gorgo nero ha fatto traboccare le proprie acque creando morte e desolazione.»
Fissò con occhi ridotti a due sottili fessure l'oscuro obelisco che si ergeva di fronte a loro.
«E io devo scoprire il perché.»
“Poiché io sono la Strega dei Confini”
Hua sbuffò. Pareva ancora un poco scossa per la pioggia nera, ma sulle guance le era tornato colore e pareva aver riacquistato parte del proprio carattere irrequieto.
«Ancora Ombre? Credevo avessimo finito con loro a Neirusiens.»
A quelle parole, la Strega non seppe se ridere o piangere. Si portò una mano sopra il seno sinistro, lì dove ancora percepiva il freddo ago che Jeanne le aveva piantato dritto nel cuore. La notte ancora si svegliava ricordando il dolore di quell'iniezione. Sotto le dita, Walpurgisnacht formicolò, facendola ritrarre di scatto.
«Il potere non è mai abbastanza quando si inseguono scopi come i miei.»
Mormorò sfiorando la mela dorata che teneva nascosta nella manica. Un regalo della ragazza con i capelli viola. “Alla più bella”, aveva riso ponendogliela fra le mani.
«E a Neirusiens non abbiamo ancora finito. Avrai il piacere di rivedere la piccola Leanne molto presto.»
Sorrise, ma il riso era finto, così come finta fu la carezza che le passò fra le orecchie.
“Dein aschenes Haar Sulamith” sussurrò incomprensibile una voce.
“Taci.”
Jeanne
Di fronte a Velta si erano raccolte poco meno di una ventina di persone, individui più eterogenei dei fiocchi di neve che riempivano le valli e le montagne del nord. Jeanne riconobbe a distanza il bardo incontrato nell'Akerat quando avevano accompagnato Priscilla al cospetto di Crono, così come l'uomo con la tunica blu e la beduina con cui avevano combattuto Cerbero e Caronte. La volpe serrò le dita, a disagio, incapace di comprendere se avesse dovuto provare timore. Era stata la Torre ad attirare lì tutte quelle persone o erano arrivate di loro spontanea volontà come Milady? E, in primo luogo, Maria aveva davvero scelto liberamente di inseguire il canto? L'immagine della donna riversa a terra in preda al vomito e al pianto accanto al cadavere del bambino le trasmise un moto di disgusto nelle viscere, niente di simile a quello che aveva provato quando aveva smembrato ser Jeral. Davvero Maria aveva scelto di uccidere senza ragione? Era stata una morte crudele quella del piccolo, e lei si sentiva responsabile quanto la padrona: era stata lei a spingerle Walpurgisnacht nel cuore, era stata lei a ubbidire a quell'ordine insensato di inserirle l'Ombra e il Fiume all'interno delle vene. I sogni di Maria si erano fatti intensi, agitati: di notte si rivoltava nelle coperte pronunciando frasi in lingue sconosciute, urlava, squarciava i materassi con le unghie. In oriente i pazzi li si chiamavano “toccati dai kitsune”, e Jeanne non poteva fare a meno di pensare quanto fosse tragicamente appropriato quel nome quando vedeva la padrona dimenarsi in quella maniera. “Edwin... è tutta colpa di quel bastardo di Edwin” pensò stringendo i denti con ferocia, ma si chiese quanto vero fosse ciò, visto che era stata la stessa Maria a unirsi al vecchio e ai suoi folli esperimenti. Milady voleva potere, quel potere che invocava così tanto spesso da risultare noiosa. Non valutava affatto i rischi di quella ricerca. Da quando aveva ucciso il bambino Jeanne provava paura, una paura viscerale che non riusciva a comprendere. La paura che Maria fosse diventata un'altra, diversa, terribile. Qualcosa di alieno alla ragazzina che l'aveva salvata dalla fame lasciandole striscie di carne salata. Arrivarono ai piedi della torre ormai grondanti di pioggia nera. Gli abiti candidi di Jeanne erano diventati scuri, come scuri i capelli e le orecchie animali. Mosse le code dal pelo bagnato per scrollare via quella pece immonda con scarsi risultati. Nelle loro immediate vicinanze c'erano altre quattro persone. Jeanne riconobbe l'arciere che aveva scoccato una freccia a Maria durante l'imboscata, ma l'attenzione dell'uomo pareva essere rivolta completamente alla torre.
«Così tanti vecchi volti.»
Sospirò con nostalgia affettata Milady chiudendo con un gesto secco il parasole ormai fradicio. Hua era ancora attaccata a un suo braccio e, per quanto Jeanne facesse fatica ad ammetterlo a sé stessa, aveva paura che Maria le potesse fare del male, ma non aveva il coraggio di allontanarla da lei.
«Credevo che questa sarebbe stata una canzone per degli eletti. Mi sbagliavo. Era una chiamata alle armi.»
Di fronte a loro, infatti, una donna a cavallo si fece avanti alla testa di un modesto esercito, forse una cinquantina di persone, tutti con spade, alabarde e pugnali stretti fra i guanti di maglia o di pelle. Alexandra, la regina senza regno, la donna il cui nome era sulle labbra di tutto il nord. Anche da quella distanza Jeanne ne intuì lo sguardo duro, autorevole. Lasciava che le gocce le macchiassero il corpo senza disturbarsi a pulirle. Il mantello trasudava pece liquida e la sua intera armatura era segnata dalla pioggia.
«Ricordo che vi fu un tempo dove il Sorya era un oscuro antro di tenebra ai confini del mondo»
Gridò Alexandra a sé stessa, al proprio esercito, a tutti coloro che erano giunti presso alla torre. Estrasse la spada, una lama lucida, bellissima, baluginanti del sole che filtrava fra le nubi, eppure era una ben misera scena in confronto all'enormità di Velta.
«Dove l'Edhel riecheggiava dei sussurri di un mondo sotterraneo nero e desolato. Dove l'orrore dominava le menti infestando tanto le notti quanto i giorni di tutti. E dove il Sogno fuggiva, ferocemente braccato dagli incubi più terrificanti.»
La Torre, come dotata di propria volontà, emise un basso sbuffo, già stanca delle parole della formica ai propri piedi. Fumo di notte si disegnò attorno alle pendici dell'obelisco, il vapore di un vulcano pronto a vomitare lapilli.
«E ricordo una donna, una creatura la cui potenza era pari solo alla sua più genuina e inarrestabile pazzia. Chiamata dalle Ombre Madre. Acclamata dagli uomini Salvatrice»
La donna cavaliere puntò la propria arma in gesto di sfida verso l'enorme struttura.
«Eitinel»
Ripeté con un sogghigno il nome che Ka Shanzi aveva pronunciato il giorno in cui erano arrivate a Neirusiens, un nome che Jeanne aveva letto solamente nei libri di fiabe che leggeva a Jeanne e nemmeno troppo spesso in questi. Erano sempre storie strane quelle che la riguardavano, contrastanti a tal punto da apparire inquietanti, ma tutte convenivano su un singolo punto: lei era stata una delle persone più formidabili mai esistite.
«Forse un tempo è con il nome di Dama Bianca che voi la conosceste, ma oggi è con il suo vero appellativo che io ve la presenterò per quello che sarà il suo ultimo atto, il suo canto del cigno. Da questo momento in poi, lei è e sarà per sempre il Passato»
La P maiuscola la si poteva udire nelle sue parole quasi con arroganza, come se fosse la sua spada a segnare l'inizio del futuro. Si erse dritta sul cavallo tentando di conferire compostezza alla propria figura annerita dalla pioggia, e per un istante quasi vi riuscì a splendere in mezzo alle nubi nere.
«Abbandonate le false credenze, i miti bugiardi. Quella non è affatto la culla di ogni vostro desiderio. Non è la scala per l'immortalità. Quella è solo e solamente la nostra prossima battaglia»
Maria si portò una mano alla bocca per ridere a quelle parole.
«La reginetta prova troppo odio per rendersi conto delle sciocchezze che sta dicendo. Ma presto comprenderà i suoi errori.»
E come di risposta a quelle parole sulle pareti della Torre cominciarono a ramificarsi profonde crepe. Lo scricchiolio riempì l'aria, e per un istante Jeanne rimase paralizzata a fissare l'edificio temendo che sarebbe crollato. Una paura stupida, si rese conto dopo, ma in quel momento nelle orecchie le suonava un canto violento, assordante, e i pensieri le si confondevano alle parole insensate della nenia.
Dal terreno sorsero quattro creature immense, mostri partoriti dagli incubi più oscuri mai esistiti sulla terra. Velta si prendeva gioco delle parole della ragazza in armatura, si beffava del suo coraggio e del suo ardore. La volpe istintivamente si ritrasse. Quello che si trovava a fronteggiare assieme alla padrona, Hua e agli altri chiamati dalla Torre era una creatura dall'aspetto serpentino, dotata di un corpo sinuoso ricoperto di scaglie lucide come l'ebano da cui si ramificavano tre teste di vipera dai denti affilati, l'idra dei racconti antichi.
«Perché scontrarsi con le leggende è il compito di eroi, non di ragazzine che hanno paura delle ombre.»
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