Aper army ····· - Group:
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| Ավազակ ~ Erdkun ~ Մարդակեր ~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~O~~~ Stimabili disertori
Զ ~ Turno 0 ~ Զ
(Vahram [pensato, lingua aramana])
200 miglia dal Passo di Bael ~ Notte
Il corpo senza vita della prima sentinella giaceva riverso sulla rena del deserto con la gola squarciata. La seconda, in cima alla torre d’osservazione, era stata freddata con una lama nella schiena, dritta nel polmone destro. La terza e ultima morì nel proprio letto in un mare di sangue, ancora in camicia da notte: non ebbe nemmeno il tempo di dimenarsi o urlare; tre colpi ben mirati in mezzo al petto – uno dritto nel cuore e gli altri in ambedue i polmoni – bastarono a farla tacere per sempre in una manciata di secondi. Volti anonimi, vite senza valore, soprattutto agli occhi di un assassino professionista. L’avamposto, che dominava l’immensa forra dall’orlo di un baratro che sprofondava a strapiombo per centinaia di metri, fu inghiottito dal silenzio della notte. Un’oasi di mesto chiarore in mezzo a uno sterminato mare di tenebra.
Vahram aveva dovuto agire in fretta. Dopo essersi accertato dell’effettivo numeri dei nemici, aveva atteso pazientemente che una delle sentinelle scendesse per espletare i suoi bisogni fisiologici, isolata e fuori dalla vista della vedetta. Presa alla sprovvista la prima, intrufolarsi nel presidio e scivolare come un’ombra sulle restanti fu un gioco da ragazzi. Affondi rapidi, esperti, premeditati e portati con un’accuratezza chirurgica. Tre vittime in tutto.
Erano settimane che il medico errante viaggiava in quella infinita distesa di roccia e sabbia rossa martoriata dal sole ardente. Il deserto era stato la sua casa per anni. Lo avevano addestrato a sopravviverci anche in condizioni estreme: sapeva come scovare gli animali commestibili che vivono sotto la sabbia e da quali piante ricavare l’acqua. Ogni giorno che passava però gli sembrava che si affievolissero le speranze di raggiungere la sua meta prima che fosse troppo tardi. Senza cavallo e senza provviste era praticamente impossibile per lui viaggiare rapidamente.
In quella interminabile terra di nessuno, lo scalo più vicino su cui aveva ottenuto informazioni erano le rovine di Ab’Darib, un antico avamposto commerciale a più o meno 150 miglia da dove si trovava in quel momento. Poi avrebbe dovuto superare il passo fortificato di Bael, in mezzo alla montagne, presidiato delle armate delle Città Libere. Impossibile attraversarlo dalla strada principale; a quanto pareva sarebbe stato costretto a valicare la cordigliera montuosa battendo gli angusti sentieri che si inerpicavano sulle pendici dei monti, eludendo le postazioni di frontiera. Una volta dall’altro lato, solo la Bocca dell’Inferno lo avrebbe separato da Taanach.
Non ricordava quasi nulla del suo periodo di possessione, solo fumose visioni che durante il sonno si mescolavano ai suoi sogni. Non sapeva niente di ciò che stava accadendo, era rimasto senza notizie, senza ordini, ancora una volta da solo, abbandonato da tutti. Per quel poco che era giunto alle sue orecchie, il Clan Goryo poteva ormai essere morto, braccato dai suoi nemici, smembrato da lotte intestine, spazzato via dalla guerra.
Tutto ciò che rimembrava di possedere lo aveva lasciato a Taanach e lì intendeva ritornare, in un modo o nell’altro. Era l’unica pista che poteva percorrere per scavare negli eventi passati.
Quel piccolo avamposto solitario incontrato sul suo cammino fu una manna dal cielo. Era munito di una scuderia, di un pozzo e, ovviamente, di una cospicua quantità di provviste. Quella regione era talmente vasta, desolata e pericolosa da scoraggiare chiunque ad attraversarla; esistevano vie ben più agibili, pattugliate e approvvigionate da oasi a Nord, quindi non c’era da stupirsi se il numero di presidianti era estremamente esiguo. Per giunta, molto probabilmente questi si trattavano di soldati in punizione. Forse non vedevano un loro commilitone da mesi; difficilmente qualcuno si sarebbe accorto della loro morte prima che Vahram avesse avuto il tempo di sparire senza lasciare traccia.
«Questa no... questa no... una gavetta? No, mi sarà solo di peso.» Il guerriero aveva perquisito i cadaveri senza trovare nulla di utile o di valore – se non pochi spiccioli –, dunque, alla tenue luce di una lanterna a olio, aveva cominciato a forzare i lucchetti dei bauli ai piedi dei letti nella camerata per rovistarci dentro.
«Un sacchetto di monete...» Slacciò la stringa del borsello e sbirciò all’interno. «Rame, argento... mah, meglio di niente.» Intascò la refurtiva e tornò a immergere il naso nel baule. «Dunque, vediamo... Stracci cenciosi...» Sospirò. «Qui non c’è nient’altro di utile.»
Sbuffando si alzò in piedi e avanzò verso l’ultimo baule, quello in fondo al letto su cui giaceva il cadavere massacrato del soldato in camicia da notte. Ormai disperava di trovare qualcosa degno del suo interesse in quel buco lercio infestato dai topi. Con la punta della lancia picconò violentemente il lucchetto, spaccandolo, ma non appena aprì il coperchio si trovò davanti qualcosa che non si aspettava.
«Mehreth chunam...» Esclamò, stupito. «Questo non è un miliziano.»
Oltre a un cofanetto colmo di gioielli e scudi d’oro – che, senza bisogno di dirlo, imboscò subito nella sua bisaccia – nel grosso baule trovò svariate strumentazioni e armi di foggia raffinata, nonché diverse pile di libri, mappe e scartoffie. Il tutto riposto in maniera insolitamente ordinata.
«Una coppia di sciabole, una daga, coltelli da lancio...» Studiò attentamente l’arsenale di quel misterioso individuo. «Intarsi stupendi, soprattutto sui foderi. Sono tutte armi di pregevole fattura. Forse mi converrebbe venderle, piuttosto che tenerle per me.» Affastellò dunque le lame con cura al suo fianco e, utilizzando gli indumenti logori che aveva trovato nei gli altri bauli, le infagottò in modo da nasconderle e riuscire a trasportarle più agevolmente. Ormai era avvezzo a trattare con i rivenditori di malaffare, nei dintorni di Cerro Karkas qualche trafficante d’armi con agganci tra i briganti di certo lo avrebbe trovato, e forse anche qualcuno disposto ad acquistare quella merce. La guerra di certo non garantiva una florida compravendita, ma gli bastava racimolare qualche soldo in più: in situazioni scomode, talvolta il denaro poteva rivelarsi un incentivo ben più fruttuoso e costruttivo di una lama puntata alla gola. Oltre a questo, Vahram non nutriva una particolare predilezione per le spade. “Esistono armi molto meno inutili” continuava a ripetere, quando era un mamūluk. Quella che portava al cinturone gli bastava e avanzava; non vedeva il bisogno di appesantirsi con altri oggetti superflui.
«Dunque vediamo... Uhm, mappe tracciate e annotate... e una bussola. La Dea Fortuna a quanto pare sta cominciando di nuovo a sorridermi. Poi... un cannocchiale...»
Faceva al caso suo. Anche lui in passato possedeva un cannocchiale, prima che quel combinaguai di Raffi ci camminasse sopra.
«Raffi...» Quello strumento lo riportò indietro nel tempo. Sembravano passati secoli dall’ultima volta che aveva parlato a un amico. Il suo fidato cavallo prima di tutti. Chissà dov’era in quel momento. Chissà come stava...
Chissà se era ancora vivo.
Proprio lui... la Volpe degli Altopiani, il mostro senza emozioni che da sempre creava il vuoto intorno a sé, solo in quell’istante si rese conto di quanto gli mancassero tutte le persone da cui Sharuk lo aveva strappato.
Kirin, Omar, Chojiro, Mariha, Sejano...
Zaide e sua figlia. Il Goryo tutt’a un tratto era divenuto un nome vuoto senza di loro.
Anche senza Fanie...
Aveva passato la vita vedendo morire i propri cari e i propri compagni in modi indicibili. Credeva di averci ormai fatto l’abitudine a queste cose, eppure non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Fanie riversa al suolo esanime. Cercava in tutti i modi di giustificare l’accaduto incolpando il demone, ma il ricordo delle sue stesse mani che si stringevano attorno al collo dell’elfa, di quel volto pallido e delicato contratto dal dolore e dalla paura continuava a inseguirlo senza posa, nelle sue notti tormentate.
In quel momento si sentì più debole di quanto fosse mai stato. Forse aveva finalmente trovato la libertà che cercava, l’umanità che tanto agognava. Per la prima volta nella sua vita desiderò di tornare ad essere una macchina assassina sterile e insensibile.
Se prima considerava insulsa la sua esistenza, ora questa scoraggiava in lui ogni desiderio di vivere. Ma forse c’era una soluzione, un modo per rimettere insieme i tasselli del proprio essere. Doveva tornare a Taanach, dove abbandonò i suoi amici. Anche se non gli avesse trovati, forse loro gli avevano lasciato un qualche messaggio, un qualche indizio...
Fu proprio mentre era assorto nei suoi turbamenti che scorse in fondo al baule un indumento stranamente a lui familiare.
Lo afferrò e lo spiegò davanti a sé, in modo che potesse ammirarlo meglio. Aveva l’aspetto di un pregevole abito da avventuriero, o meglio... da assassino. Era nero come l’ossidiana, corredato di mantello, bandoliere, giberne e una maschera di cuoio rigido per nascondere il volto. Il tutto era finemente decorato da ricami e ossature formate da bande di cuoio goffrato. Gli parve di aver già visto un indumento simile in passato, ma non ricordava né quando né dove.
Improvvisamente qualcosa che era stato accuratamente celato tra le pieghe del vestito cadde con un tonfo sul pavimento di legno marcio. Un pugnale riccamente cesellato e adornato da metalli e pietre preziose: un simbolo di riconoscimento, piuttosto che un’arma. L’araldica impressa sull’elsa risaltò subito alla luce della lanterna.
«La Casata della Chimera...?!» Esclamò in un sussurro.
Proprio in quel momento rimembrò: il guerriero senza volto che durante i tumulti di Taanach assalì Zaide indossava la medesima uniforme. «No, impossibile. Non può essere la stessa persona.»
Lo ricordava bene: quell’assassino era morto per mano di Zaide. Il cadavere riverso sul letto apparteneva a giovane che non raggiungeva nemmeno i venticinque anni di età. Inoltre, se davvero si fosse trattato dello stesso sicario, difficilmente Vahram sarebbe riuscito a sorprenderlo nel sonno in quel modo; anzi, con tutta probabilità si sarebbe ritrovato egli stesso cadavere. Quel ragazzo doveva essere un confratello di quel bastardo, un novellino appartenente allo stesso ordine.
«Bah... In fondo che importa.» Adagiò il vestito sulle cosce, continuando a fissarlo assorto. «Però, a pensarci bene... potrebbe tornarmi utile.»
Ab’Darib, 50 miglia dal Passo di Bael ~ Aurora
Erano passati ormai sei giorni da quando aveva lasciato l’avamposto. Aveva preso con sé tutti e tre i corsieri che aveva trovato nella stalla della torre. Vahram possedeva un legame speciale con i cavalli, diceva sempre di averlo ereditato dalla sua stirpe, gli Aramani. Per nulla al mondo li avrebbe lasciati da soli a morire in quel posto. Aveva dato loro anche dei nomi, perché un cavallo non può non avere un nome: Shant e Virò, due maschi, e Leylì, una femmina. Un baio e due sauri. Con una corda – abbastanza lunga da lasciargli sufficiente libertà di movimento – li aveva legati insieme e li aveva caricati, assicurandosi sempre di non gravarli troppo, con tutti i contenitori trovati nell’avamposto che era riuscito a riempire d’acqua potabile, più la refurtiva e tutto ciò che gli sarebbe potuto servire lungo il cammino. Grappoli di otri e mucchi di fagotti e cassette di vario genere ondeggiavano sulle selle da carico al ritmo del ticchettare ovattato degli zoccoli sulla terra arida. Vahram, in testa, li guidava a piedi.
Aveva indossato la veste dell’assassino. Nessuno avrebbe dovuto riconoscerlo. Ed esiste travestimento migliore di un guerriero senza volto? Un guerriero senza volto raccomandato oltretutto: tra i documenti che aveva trovato nel suo baule vi erano un gran numero di mappe annotate e informazioni interessanti sul territorio, e poi salvacondotti e lettere di presentazione firmate dal reggente in persona, Acheiron Graub. Per non parlare del pugnale: mostrarlo all’interno dello stato di Taanach significava aprire un gran numero di porte che prima gli sarebbero state precluse. Leggendo quelle carte, venne a conoscenza persino della missione di quel sicario. Un cacciatore di disertori. Eh, già... la guerra, oltre a vittime e devastazione, produce anche transfughi.
Ormai Vahram sapeva una buona quantità di informazioni sul personaggio che doveva interpretare. Se fosse riuscito a giocare bene le sue carte, forse sarebbe riuscito persino ad entrare nella regione della città stato passando dal portone principale.
«Forse mi basterà non parlare. Mostrare i documenti necessari ed essere pronto a sparire una volta passato dall’altra parte.» Continuava a ripetere, assorto nei suoi piani.
Tutte quelle settimane di solitudine e monotonia avevano provato la mente del medico tuttofare più della calura del deserto. Ultimamente aveva persino iniziato a parlare da solo, di tanto in tanto. Le uniche note di colore che costellavano le sue giornate erano sparute rovine di villaggi rasi al suolo durante la guerra e occasionali carcasse di animali e uomini vinti da quelle lande inospitali. Profughi, sfollati, molti lasciati indietro dai propri compagni e i propri cari, costretti loro malgrado a proseguire per non incontrare la medesima fine. Vittime di una disperata traversata alla ricerca di un’estrema speranza, lontano dall’inferno che erano divenute le loro plaghe, i loro villaggi... le loro case. Ora di essi non rimanevano altro che carcami rosicchiati dagli animali, mummificati dall’arsura, congelati nel tempo prima ancora che la putrefazione iniziasse a consumarli. Innumerevoli storie, lacrime e tragedie giacevano insieme ad essi.
Un limbo di morte senza fine.
Persino il Wúshēng Yǎn era rimasto inerte per tutto quel tempo. La strana creatura dalla voce di bambina che gli parlava dal piccolo specchietto d’argento sembrava essersi ammutolita.
Un fievole alito di vento rinfrescò l’aria tiepida del mattino, non ancora arroventata dal sole impietoso, portando un acre odore di erba secca alle narici del guerriero. Superato l’ultimo dosso, si profilarono finalmente all’orizzonte le sagome affilate della cordigliera. Cerro Karkas emergeva dalla rena ocra in un labirinto di canali irregolari e creste e speroni affilati coperti da un tappeto di bassi arbusti. Incastonati tra le rocce si potevano scorgere alcune torrette diroccate spuntare dalle forre meno profonde; apici di piccoli complessi di costruzioni celati più in basso.
Ai piedi del colle, in fondo alla valle, languivano le rovine dell’antica città commerciale di Ab’Darib. Un dedalo di edifici e torri scoperchiate dal vento e stonacate dalla sabbia. Una volta era praticamente disabitata; gli abitanti del posto preferivano insediarsi al sicuro, nascosti tra gli anfratti dell’altura. Scendevano a valle unicamente per incontrare contatti esterni o gente che doveva in ogni caso rimanere all’oscuro dell’ubicazione dei loro covi. Ora però non era più così.
Entrando nel dedalo di viottole, ostruite il più delle volte da macerie o sepolte sotto metri di sabbia, si potevano vedere panni stesi, provviste e attrezzi accatastati lungo le pareti, recinti per il bestiame costruiti in mezzo alla strada. Tracce di abituri improvvisati rozzamente sistemati con quel poco che si poteva trovare in giro, ovvero pietra spoglia, detriti, legno marcio, ferro consumato dalla ruggine e – perché no? – ossa. Ovunque andasse, percepiva su di sé sguardi sospetti e timorosi scrutarlo di nascosto dal buio. Talvolta bisbigli irrequieti, pianti e vociare soffuso di bambini rompevano improvvisamente il silenzio.
Nonostante si scorgessero dappertutto segni di vita, sembrava di camminare in una città fantasma.
Quel posto lo rendeva inquieto.
Convenne che la cosa migliore da fare era cercare al più presto qualcuno in grado di fornirgli informazioni accurate su cosa lo aspettasse oltre nel suo viaggio o di introdurlo in qualche banda di predoni, dove avrebbe potuto trovare gente in grado di aiutarlo.
Chiuse bruscamente il taccuino blu che era intento a consultare e iniziò a tamburellarlo nervosamente sul suo pugno, guardandosi intorno alla ricerca di un’anima, una stramaledetta anima con cui poter parlare... dopo tanto tempo. E fu in quel momento che la vide...
Vide una persona, seduta a riposare all’ombra dei poveri ruderi di un’antica torretta. Una donna dalle fattezze vagamente ferine, una mezzorca. Possedeva la prestanza di una guerriera e l’aspetto di una perlustratrice. Di fianco a sé teneva a portata di mano un grande arco. Un’esploratrice: proprio quello che cercava.
Sotto la maschera di cuoio nero si aprì un sorriso speranzoso. Avanzò a passi rapidi verso la cacciatrice.
«Ehi, tu!» Cercò di attirare la sua attenzione.
Non si curò del suo mantello ondeggiante al vento... o del fatto che il pugnale alla sua cintura poteva essere scorto da qualcuno.
E in quella tana di reietti i simpatizzanti delle Città Libere non avevano lunga vita.
Eccomi, scusami per il ritardo e il mio solito post lungo un un chilometro (in genere è solo il primo, una volta descritta la situazione d'insieme scrivo meno roba). La situazione si svolge dunque in seguito agli eventi del torneo. Avverto che il travestimento e il pungale li ho inseriti solo a scopo scenico, per inscenare l'equivoco concordato con Ashel che darà inizio al combattimento. Non sono inseriti nel mio inventario e pertanto non posso usarli. A livello tecnico, l'equipaggiamento del mio pg non differisce in nessun modo da quello presentato in scheda. Ashel, suppongo che Astrid, per conoscenze maturate all'interno delle armate delle Città Libere, possa, scorgendo il pugnale o distinguendo la divisa del sicario, riconoscere un "agente speciale" di Taanach. A te la penna! ^^
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