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Nessuno gli aveva visto varcare quella porta da giorni, ormai. Quella che solitamente rappresentava una barriera che gli impediva di essere libero ora era invece vista dallo studioso come l'unica fonte di protezione da un mondo pieno di bugie e illusioni. Un mondo che lo aveva cresciuto con una dottrina devota allo studio e alla scoperta; alla ricerca della verità. Una verità, però, nascosta da una bugia ben più grande e forte di come i molti testi che aveva letto sembravano rappresentarla. Una bugia che aveva condizionato la sua intera esistenza. Forse, si chiedeva, essere nato in un covo di serpi fa di me un'immonda bestialità? Perché per quanto potesse sforzarsi, non riusciva a odiare la sua Lithien, le leggi, la conoscenza e l'armonia delle strade che plasmava i migliori accademici dell'intero continente. Non ci riusciva, pur volendo; non riusciva a maledire il suo maestro per averlo cresciuto e accudito all'interno di una menzogna che sembrava ora volerlo inghiottire una volta per tutte. Ugualmente, gli sembrava impossibile poter odiare il concilio o l'intero sistema che aveva causato la distruzione di un intero popolo. Proprio non riusciva a farlo. E si malediva, per questo. Si sentiva così sporco da volersi togliere la vita: sparire in una folata di vento e lasciarsi tutto alle spalle. Ma anche per quello si sentiva troppo debole. Non lo avrebbe mai fatto; se mai ne avesse trovato le forze, poi, Oghmar sarebbe intervenuto sicuramente per fermarlo. Erano giorni che provava a dire alla sua amata metà cosa fosse successo all'interno di quella voragine, ma le parole si rifiutavano di uscire. Forse voleva proteggerlo da una simile realtà o forse semplicemente non riusciva a realizzare il punto di vista che avrebbe dovuto adottare nel raccontarglielo. Chi era il buono e chi il cattivo? Concetti come questi, dapprima già confusi nella testa di Virgil, assumevano ora delle sfumature che nemmeno riusciva a comprendere, realizzando di essere del tutto incapace di giudicare obiettivamente la vicenda. Così Oghmar continuava a supportarlo, portando lui ciò che gli era necessario: cibo che rifiutava quasi sempre, libri per lo studio che si rifiutava di aprire e, cosa più importante, una spalla sulla quale poter piangere e sfogare la propria inutilità. L'avventuriero si chiedeva per quanto tempo ancora avrebbe dovuto assistere a uno spettacolo del genere; lo faceva stare male, eppure non avrebbe mai forzato l'animo gentile di Virgil. Avrebbe aspettato, semplicemente. E Virgil riusciva ad amarlo proprio per questo. Più volte aveva ricevuto contatti dal popolo nascosto. Inizialmente solo delle parole biascicate tramite la loro capacità sensoriale, poi messaggi sempre più composti fino a che, stanchi di essere ignorati dallo studioso, avevano permesso ad alcuni membri della comunità di sgattaiolare fino alla torre. Inspiegabilmente, non erano mai stati scoperti. Del resto, si era detto Virgil, chi poteva conoscere meglio di loro quel luogo, dato che erano stati loro a dare vita a tutto quello? Ed era stato strappato dalle loro mani con violenza. Tutto, anche la loro umanità. Schiavi di un sistema geloso e distruttivo, erano stati trasformati in orrende creature incapaci di risalire il buco entro il quale erano state confinate. Ciò nonostante, Virgil si rifiutava di parlare con gli emissari del popolo nascosto. Li guardava, annuiva ogni tanto, ma non riusciva affatto a decidersi sulla questione, costringendo le piccole creature a tornare da dove erano venute, rassegnate.
Il discepolo del Quarto non era mai stato chiuso per così tanto tempo all'interno della sua stanza e questo il membro del Concilio che occupava il quarto piano della Torre Eburnea lo aveva notato. Più volte in quei giorni aveva mandato dei collaboratori a verificare dell'effettiva presenza di Virgil, ma questi erano sempre tornati indietro senza una degna risposta. In un certo senso, il Maestro si sentiva preoccupato. Forse perché non poteva contare su quello che riteneva essere il suo degno successore o forse perché, semplicemente, amava quello che aveva accolto come suo figlio più di quanto dicesse. In entrambi i casi, sentiva di doversi occupare personalmente della faccenda. Attraversò lentamente i lunghi corridoi del quarto piano, adornati da quadri e tomi impolverati appesi alle pareti.
« Virgil, sei lì dentro? »
Maestro Dom bussò con forza alla porta dello studioso. Virgil deglutì con fatica prima di pietrificarsi alla vista dell'ennesimo emissario del popolo nascosto. Aveva scalato l'intera torre infiltrandosi poi nelle crepe della finestra, fino a raggiungere il letto dell'elfo. In un secondo la lotta intestina che stava combattendo si trasformò in un'ansia mai provata prima di allora. Prima di quel giorno non aveva mai ignorato un ordine di Maestro Dom, né lo aveva mai costretto a raggiungere le sue stanze. Ugualmente, però, non poteva in nessun modo aprire la porta e lasciare che l'emissario del popolo nascosto - in preda al panico anch'egli, tremante - potesse essere scoperto dal Maestro, che avrebbe di sicuro riconosciuto un abominio che egli stesso, insieme ai suoi colleghi e alla sua sete di potere, aveva creato. Si guardò in giro alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo, ma si era isolato talmente in sé stesso che aveva perso completamente il controllo di quella stanza.
« Apri immediatamente questa porta, Virgil. Non lo ripeterò un'altra volta. »
Doveva prendere una decisione. E doveva farlo in fretta.
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