La fossa era sudicia. Il fango emanava un vago sentore metallico, non più forte dell'odore che poteva emettere un singola goccia di sangue. Eppure, potevo sentirlo distintamente. Penetrava le mie narici, lento, ma inesorabile; giungeva fino al cervello e si espandeva in tutto il corpo. E la mente, lungi dall'essere sotto il mio dannato controllo, vagava incessantemente: collegava quell'odore a ciò che lo aveva causato. E quindi morte, dolore, rassegnazione, ansia e di nuovo morte: immagini, queste, che mi assillavano da quando quel massacro era stato compiuto. Non ero stato io la causa diretta, lo sapevo, non ero così stupido, ma di certo ero complice. No, di più, ero ben più di un complice! Potevo considerarmi il mandante di quella carneficina. In effetti se solo non avessi scelto quel dannato posto come mia dimora, se solo non avessi assecondato quel mio infantile desiderio di fondare una città, allora, beh, allora questi pelleverde sarebbero ancora vivi. Quanto dovevo risultare ridicolo? Creare un città, dal nulla, io? Così, senza mezzi, senza denaro. E senza nessuno che ci avrebbe abitato! C'è mai stata una stupidità che è costata tanto?
Posai la pala a terra. La fossa che avevo scavato era ormai abbastanza grande da contenere almeno una decina di corpi: dovevo una sepoltura a quelle vittime. Vittime, sì, le ritenevo vittime! Poco importava che probabilmente avevano causato più morte loro in una settimana di quanta ne avrei potuta causare io in tutta la mia vita; io non ero nessuno per giudicare, tantomeno per punire!
Volevo, con questo gesto, cercare una redenzione. Eppure, anche in questo tentativo non potevo fare a meno di essere ipocrita. Tra le mani stringevo forte un fazzoletto di stoffa, per evitare di toccare con le dita quei corpi in decomposizione. Sembrava, no, no, non sembrava, era proprio così: non volevo insudiciarmi con quel viscidume, quello stesso marciume che io, sì, proprio io avevo causato!
Vedete, lo vedete? Vedete quanta poca umanità mi era rimasta, nonostante mi lambiccassi il cervello costantemente e soffrissi dei più penosi sensi di colpa?
Tra notti insonni e giorni passati a seppellire cadaveri in fosse senza nome, speravo veramente di rimediare ai miei errori. La verità, lo sapete e lo sapevo anche io, è che non c'è rimedio alla morte.
Non c'era redenzione che potesse salvarmi.
E mentre continuavo con l'insulso tentativo di donare un po' di rispetto a quelle che potevo considerare a tutti gli effetti mie vittime, notai un uomo correre verso l'accampamento. Lo vedevo venire nella mia direzione con gran foga, quasi avesse di fronte lingotti d'oro sparsi sulla terra, in attesa che lui e solo lui potesse raccoglierli; ciò che lo aspettava, in realtà, non era altro che cadaveri e sangue. La sua figura era piuttosto imponente, tanto che per un attimo fui realmente convinto che si trattasse di un pelleverde! Magari uno sopravvissuto al massacro, o, chessò, forse uno che era riuscito a sfuggire alla schiavitù da noi imposta. Forse era lì per cercare vendetta. Ne avrebbe avuto tutti i motivi.
Ed io, ancora una volta, mi crogiolai nella mia ipocrisia; nel timore che quello di fronte potesse essere realmente una minaccia, strinsi forte le dita all'elsa della spada. Volevo forse combattere? Volevo togliere la vita anche a chi cercava una giusta vendetta? No che non lo volevo! Ma non volevo neanche morire. Ed era proprio questa la mia ipocrisia. Cercavo – e mi impegnavo, credetemi – palliativi per rimediare ai miei errori, quando la cosa più giusta, più etica oserei dire, era proprio quella di morire. Cedere la mia vita, come pegno per quelle mietute. Uno scambio ancora non equo, ne ero consapevole, ma senz'altro più vicino ad una forma di giustizia.
Un dilemma morale, il mio, a cui per fortuna non ero stato costretto a rispondere. La misteriosa figura, che ora si era avvicinata abbastanza da mostrare i suoi lineamenti spigolosi, non era un pelleverde.
Poteva trattarsi di un guerriero, un mercenario, un viandante, un turista, persino. Più probabilmente era uno sciacallo. E quei morti erano per lui non tanto diversi dai lingotti d'oro che avevo ipotizzato. Ero certo che lo sconosciuto non avrebbe trovato nulla di valore (e come avrebbe potuto, considerando che avevamo già razziato ogni genere di provvista o di materiale utile?) e se ne sarebbe presto andato da solo. Ma, ahimé, non volevo permettere che quei pelleverde venissero disonorati per l'ennesima volta.
"Andate via, straniero."
Pronunciai forte, certo che l'uomo mi avrebbe udito. Tossii un paio di volte per schiarirmi la voce, mentre mi allontanai dalle macerie per rendermi più visibile.
"Non c'è nulla per voi qui: ci troviamo solo in un grosso cimitero. Andate via, ripeto, andate via e lasciate riposare i morti."
E non impediate che i colpevoli scontino le loro pene, aggiunsi nella mia mente. Finché anche l'ultimo cadavere non fosse stato seppellito, non me ne sarei andato da quel posto. Finché quell'odioso fetore di sangue non fosse sparito, non avrei permesso a nessuno di stanziare lì.
Quell'accampamento aveva subito una crudeltà inaudita e ora esigeva rispetto.
Il minimo che potevo fare era garantirglielo.
La storia del mio personaggio continua da
qui. Penso sia tutto chiaro, altrimenti contattami pure sia per chiarimenti che, qualora tu lo voglia, per concordare eventuali dialoghi. Per il resto, niente. In bocca al lupo e che vinca il migliore!