Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Scheletri nell'armadio, I nostri scritti: narrativa, poesia, e chi più ne ha più ne metta!

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view post Posted on 23/1/2014, 17:58

Esperto
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Scorrendo la sezione non è raro imbattersi in scritti originali degli utenti che provano a cimentarsi chi nel racconto breve, chi nella poesia, chi in abbozzi di lavori più lunghi e complessi.

Questo spazio è per chiunque voglia condividere con la community un suo lavoro, di qualunque genere, in completa libertà!

Il presente topic sarà riservato unicamente ai lavori degli utenti, sarà possibile commentare in modo costruttivo nel topic apposito, la Tribuna.

Se qualcuno ha già postato lavori propri in questa sezione, e desidera dare loro maggiore visibilità, può tranquillamente copiarli in questo thread!

Come nel resto del forum,dovrà essere rispettata da tutti la proprietà intellettuale degli scritti che verranno condivisi: copiare opere altrui spacciandole per proprie, o appropriarsi di lavori postati in questa sezione (o parti di essi) porterà a sanzioni da parte dello staff.

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Edited by Zaide - 23/1/2014, 19:55
 
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view post Posted on 23/1/2014, 20:13
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CITAZIONE
Molte di queste poesie sono lavori vecchi, che ho già mostrato su Asgradel qua e là. Vado più fiero di alcune piuttosto che di altre, ma visto che adesso c'è uno spazio dedicato, perché non sfruttarlo? Purtroppo col tempo ho smesso di scriverne e temo di aver anche perso l'ispirazione, ma queste le custodisco ancora oggi come un tesoro, nonostante abbiano ormai più di cinque anni.

« Il tradito »

Vive.
Vive?
Non per il peso gravante dei passi
per quello crudo delle lacrime
Non per i battiti leziosi e bassi
per lo spiro, gli pare un crimine
Giace riverso, qui in terra, eppure
Ancora vive.

Cede
Crede
Nel lampo che lo ha illuminato
Rovina di sé, ricorda la voce
Calda e materna che l’ha abbandonato
E piange, e ride, e lamenta; poi tace
E si rigira sul corpo, eppure
Ancora crede.

Sospira
E sale
Rovescia la polvere stesa su sé
Si spoglia del tempo, rialza la testa,
Dimentico; ferito senza perché
Si guarda indietro, non si rattrista
Sorride al domani, felice, eppure
Ancora sospira.

Vive?
Vive.
Nel petto guardia la cicatrice
La nasconde, riempiendola la cura
Perde il ricordo della traditrice
Senza paura si rialza e lavora
Vive di nuovo, dimentica ed ora
La memoria muore.

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« Ingranaggio »

Come un pulsante consumato
la cui lettera sbiadisce col battente
l e n t o mi acquieto;
muoio.

La giacca nera che ho indosso
è rossa
di ogni lacrima trattenuta
e di ogni grida lasciata andare,
ma è tardi e il corpo
si spegne
non respiro.

( distogliendo lo sguardo
come l'Araba Fenice
risorgerò?
)


Chiudo gli occhi
lasciando che la terra, ricoprendomi
piova pesante,
arrugginendomi
- Non vedo più il sole.

Come un orologio fermo
che batte sempre lo stesso momento
mi spezzo.

Io amavo
e amo.


------------------------------



« Argilla »

Questo sono io
Cocci
di un'anfora cui è bastato uno scossone
per frangersi.

E ora sto
( rigetto in terra
butterato )

con l'aria fissa verso l'alto,
in attesa.

Fa buio,
e il tutto s'affonda.

------------------------------



« Dibattito d'un rospo ad una ninfea »

Una garza umida lo interra lentamente, aggravandone il fiato e i palpiti del cuore.

E il tempo scivola goccia dopo goccia,
battendo sul suo capo, sfumando
in stinte totalità di grigio.

Accetta ormai con stanca condiscendenza
gli spiriti che, correndo sul pelo dell'acqua
sussurrano al suo orecchio: "Silenzio
della tua livida specie qui non soffia il vento."

"Ti amo. E ti amerò anche quando i ragni, credendomi una pietra immobile lungo la riva, intesseranno su di me una tela tanto fitta da non poterti più scorgere."
- Nell'attesa che le correnti ti spingano fin dove io possa raggiungerti.

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« Di un fiume arrugginito »

Porpora duole, nel cuore che batte
Si specchia scrosciante d'una passione
che lascia'l sapore del primo amore
e se pulsa d'un tremito, vedilo!
Un cigno lo solca, com'un regnante
spinge le palme nell'acque magenta
rosse,
morte,
di sangue pulsanti.
- Arrugginite della livida specie degli uomini.

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Alb†raum
view post Posted on 23/1/2014, 21:00




Questo racconto l'ho originariamente scritto per un contest su Writer's Dream. A causa del tema trattato non ha ricevuto molta popolarità, né mi aspetto che la riceva qui.
Buona lettura a chiunque mi faccia il piacere di leggere.


Pancakes


«Cos'hai detto?» Sibilla smise di spazzare il selciato con il rastrello e lanciò a Morgana uno sguardo perplesso. L'altra le si avvicinò, le dannatissime foglie secche dei ciliegi che le scricchiolavano sotto gli stivaletti neri. Pareva che durante la notte si fossero divertite a cadere tutte sulla strada che conduceva alla baita.
«Ho incontrato la tua nuova vicina venendo qui» ripeté, aggiustandosi in testa il basco. «Ci ha chiesto se più tardi andiamo a prendere il tè a casa sua».
Sibilla si passò una mano sul mento, dubbiosa. «Molto gentile da parte sua. C'è solo un problema».
«Quale sarebbe?»
«Io non ho nessuna vicina». Per un istante si udì solamente il mulinare del vento fra i rami spogli degli alberi. Morgana aggrottò la fronte.
«Lei ha detto di esserlo».
Sibilla sospirò senza alzare lo sguardo da terra. Era già abbastanza innervosita dalle foglie per aver voglia di altre scocciature. «Questa è una baita isolata nel bosco. Non pensi che mi sarei accorta se qualcuno si fosse stabilito qui?»
«Se avessi provato ad alzare gli occhi, credo di sì» L'altra le indicò un punto oltre il bosco. Sibilla seguì il gesto con lo sguardo. Oltre l'intrico di tronchi si intravedeva una radura in mezzo alla quale vi era una bassa costruzione di legno col tetto a spiovente sorretto da colonnine di pietra.
«Sono sicura di non averla mai vista prima...» balbettò. Non sapeva nemmeno se fosse legale edificare lì.
Sulle labbra di Morgana si disegnò un ampio sorriso. «Questo rende tutto più eccitante. Che ne dici, andiamo subito?»
Sibilla si guardò attorno. Il selciato era ancora pieno di foglie e anche l'erba ingiallita era coperta da un tappeto multicolore. Ci avrebbe impiegato ancora mezza giornata prima di spazzare via il tutto.
«Dovrei pulire il giardino, in realtà. Le potresti chiedere di rimandare il tutto a doman...» Una violenta folata di vento si mangiò la sua frase a metà.
«Stavo dicendo...» Volse gli occhi sulla pila di foglie che aveva accumulato durante quella mattina. Erano di nuovo tutte sparse alla rinfusa per il giardino, alcune ancora svolazzavano per la forza della ventata. Parevano guardarla sogghignando.
«Sai una cosa? Vaffanculo» gettò il rastrello a terra con forza. Morgana rise. Sibilla la fulminò con lo sguardo.
«Vado a mettermi qualcosa di più elegante e torno» grugnì. Un grembiule sporco di polvere non era decisamente il massimo con cui presentarsi a una nuova vicina.

«Bella casa» commentò Morgana bussando alla porta di legno scuro. Sibilla convenne digrignando i denti. La veranda di legno era ben spazzata e decorata con qualche vaso ornamentale giapponese in cui dame dal volto pallido sorbivano il tè in compagnia. Il giardino era ampio e aveva dei cespugli con peonie in fiore persino in quella stagione. Ma, cosa più snervante, non vi era nemmeno una foglia.
«Mi sta antipatica. Andiamocene». La prospettiva di pulire il giardino non era più così insopportabile.
«Ma non l'hai nemmeno incontrata!» protestò Morgana «E poi ho già bussato».
In quel momento la porta si aprì. Fece capolino una ragazza sui vent'anni, i capelli castani raccolti in due code dietro la testa. Portava un grembiule da cucina rosa coi bordi pieni di fronzoli sopra un vestito bianco e pantaloni neri, in mano aveva una spatola di acciaio. Sorrideva con tale gusto che Sibilla ebbe l'impressione di aver compreso la parola “sorriso” solo in quel momento, cosa che contribuì ad aumentarle il malumore.
«Benvenute!» le accolse porgendo loro una mano. «Vi stavo aspettando. Io sono Veronica».
Sibilla ricambiò la stretta brevemente. «Sibilla. È un piacere» biascicò.
«Morgana, ci siamo incontrate prima».
Veronica fece loro cenno di entrare. «Prego, accomodatevi pure. Sto facendo i pancakes da mangiare col tè».
Pancakes. Sibilla strinse le labbra mentre l'acquolina le allagava la bocca. Forse poteva perdonarle il giardino pulito e la veranda ordinata.
Attraversarono un breve corridoio prima di essere introdotte in una grande stanza illuminata da grandi finestre con al centro un tavolo dalla superficie di vetro. Era apparecchiato per tre persone con tazze e piattini di porcellana coi bordi dorati. Nell'aria aleggiava l'odore dolce e morbido dei pancakes.
«Vado a prendere la teiera. Sedetevi intanto». Veronica sparì dietro a una porta lasciandosi dietro una nuvoletta di farina.
«A venire sempre da te credevo che le tazze avessero solo i bordi sbeccati» Morgana rise rigirandosi in mano una delle tazzine.
«Fottiti» sibilò l'altra.
«Non fare così. Mi pare una tipa simpatica».
«Abbastanza». Troppo sarebbe stata la risposta più adatta. La metteva a disagio.
Veronica tornò con una teiera bianca decorata con motivi floreali. Quando versò il tè si sollevò un profumo di frutta.
«I pancakes saranno pronti fra qualche minuto» avvertì sorridendo.
«Da quanto ti sei stabilita qui?» domandò Morgana prendendo con le pinze una zolletta di zucchero.
«Una, due settimane» rispose l'altra, sedendosi vicina a Sibilla, che sollevò un sopracciglio, contrariata.
«Questa era la casa di montagna di una mia zia. Ho dovuto ristrutturarla tutta perché fosse abitabile».
Sibilla aggrottò la fronte. «Non ho sentito rumori di lavori in queste settimane».
Veronica rise passandosi una mano sulla nuca. «Ho dovuto fare da sola, non avevo soldi per pagarmi degli operai».
«Come ti trovi qui?». Morgana posò la tazzina sul piatto.
«È proprio un bel paesino, così tranquillo! Mi serviva proprio per riprendermi dal lavoro».
«Cosa fai?»
«Traduttrice di giapponese. Lavoro per una piccola casa editrice. Nel tempo libero costruisco bambole».
Guardò la tazza ancora intoccata di Sibilla. «Non bevi?»
«Stavo aspettando che Morgana mi passasse lo zucchero» mentì. L'unica cosa che voleva da quella strega erano i pancakes.
«Potevi chiedere a me» rise Veronica, avvicinandole la zuccheriera.
Sibilla sbuffò. Quella ragazza sorrideva troppo. Afferrò la pinza per prendere la zolletta. Veronica mise la mano sulla sua e stringendola dolcemente le accompagnò il gesto. Sibilla la guardò strabuzzando gli occhi.
«Così» mormorò lei, leccandosi le labbra. Aveva gli occhi socchiusi. Fece scivolare la zolletta nel liquido caldo.
«Ma cos...» balbettò Sibilla. In quel momento risuonò uno scampanellio elettronico.
«Oh! I pancakes devono essere pronti! Andate pure a lavarvi le mani, il bagno è la seconda porta a destra nel corridoio» Veronica scappò di nuovo in cucina.

«Forse tentava solo di essere gentile» propose Morgana mentre camminavano nel corridoio. Sibilla la guardò sollevando un sopracciglio.
«Ok, ok, magari è un'usanza giapponese o qualcosa del genere. Dove aveva detto che era il bagno?»
«La second... la terza?» Sibilla spinse una porta a caso. Dentro le serrande erano abbassate e vi era un forte odore di colla e carta. «Non credo quest...»
Ammutolì. In mezzo alla stanza, sorretto da un paletto di ferro, vi era un manichino dall'aspetto familiare. Si avvicinò calpestando i giornali disposti a terra che scricchiolarono sommessi.
«Cosa stai facendo? Questa non è casa tua» Morgana la seguì dentro, accigliata. Afferrò Sibilla per un braccio, ma lei si divincolò.
«Questi vestiti sono miei». Accarezzò la camicetta. Era quella che aveva buttato via il mese prima perché aveva un buco all'altezza del fianco. E poi la gonna che si era sporcata di caffé, le calze smagliate... tutte cose di cui si era disfatta. Poteva essere una coincidenza?
«Non fare la cretina e vieni a lavarti le mani che... mio dio...» Morgana trattenne il fiato. «È uguale a te».
Il viso aveva lo stesso mento appuntito, il naso all'insù e ciglia lunghe. E poi i capelli scuri erano raccolti nella stessa coda che la ragazza portava al momento. Un brivido attraversò la schiena di Sibilla. Cosa caspita era quella cosa?
«Andiamo». Morgana la prese per mano. «Veronica ci aspetta per i pancakes».
«Scappiamo» mormorò Sibilla, quando uscirono dalla stanza. Morgana rise nervosamente.
«Su, probabilmente è solo una coincidenza. Proviamo a chiederglielo».
Quando tornarono nella sala da pranzo, Veronica stava disponendo i pancake sui piattini.
«Ci avete messo tanto. Vi è piaciuto così tanto il bagno?» rise, facendo scivolare le frittelle dal piatto di portata. «Sedetevi e servitevi pure».
Sibilla si rimise a tavola. Aveva le budella troppo attorcigliate, l'odore del dolce le fece venire la nausea. Non osò neppure guardarlo.
«Veronica... credo che ci sia qualcosa di strano...» balbettò Morgana. Sibilla si voltò verso di lei. Dalla superficie brunita del suo pancake sporgevano una serie di chiodi dalla punta arrugginita.
«Una noce di burro, marmellata?» Veronica afferrò Morgana stretta per la nuca e le schiantò la faccia contro i chiodi. Il sangue si spanse denso sul dolce mentre la ragazza gorgogliava schiuma rossastra dalla bocca.
«Sciroppo d'acero?» sorrise Veronica fissando Sibilla.

Sibilla si svegliò di soprassalto, ansimante. Era al buio, completamente sudata. Sulla pelle sentiva la carezza delle coperte.
«Solo un sogno...» mormorò, sollevata.
«No» sussurrò Veronica facendo scivolare la lingua nel suo orecchio.
«Meglio».


 
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Fanie Elberim
view post Posted on 12/2/2014, 23:48




~ Alba.

E qui distesa guardo al buio
che si stende lento fuori dalle finestre.
Non comprendo dove mi trovo,
sento solo il mio corpo immobile dolere silenzioso.
Mi domando, con gli occhi appena socchiusi,
quando rivedrò la luce del sole.

Odo rumori, confusi ed indistinti,
sento il bruciore tra le labbra e sulle palpebre.
Il respiro pesante di qualcuno al mio fianco
mi rende improvvisamente tranquilla.
Chi è? Non lo conosco. Eppure mi rasserena.

Muovo una mano, accaldata sotto la coperta,
ma a stento riesco a trovarne l'uscita.
Ho paura?
Chi non ne avrebbe, mi domando,
senza risposta.
E guardo ancora fuori, al buio.

E in quel momento mi rendo conto del mio dolore più grande,
non il corpo, non la mente,
ma quel senso di oscurità che mi pervade,
oscuro e minaccioso anche tra tante persone,
da sola.

No, io devo chiudere gli occhi adesso,
è ancora presto per svegliarsi,
il giorno è troppo giovane ed il mio corpo troppo stanco.
Devo solo chiudere gli occhi e dormire ancora un poco,
sino alla prossima Alba.

Poesia scritta quando ero in ospedale che ho voluto condividere con voi.
 
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view post Posted on 2/3/2014, 18:59
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koneko no baka
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Bruciavano.
Come scie di fuoco, come colate di lava, come acido. Bruciavano.
E le rigavano il viso stanco, traboccando dai grandi occhi arrossati. Le lacrime che stava tuttora versando non sarebbero state ancora abbastanza. Sedeva in silenzio sul ciglio di un muretto, gli occhi persi in un infinito che solo lei poteva vedere. Davanti a lei, la diabolica bellezza dell'autunno devastava il paesaggio che implorava pietà alla prima neve. Non si muoveva, non parlava, non gemeva. Lasciava che la brezza gelida le sputasse in faccia i suoi sbagli ed i suoi ricordi. Lasciava che i rimorsi la facessero marcire da dentro, nel profondo. Ogni tanto, con mano tremante, portava la sigaretta alla bocca ed aspirava, a fatica. Poi lasciava uscire il fumo a soffici volute che venivano soffiate via dal disappunto della natura. Non faceva nulla: esisteva. Dentro era vuota, privata di tutto; non stava nemmeno piangendo: lasciava che le lacrime cadessero. Miriadi di immagini sconnesse le attraversavano la testa, affannandosi per trovare la via di fuga. Poi uscivano, dolorosamente.

~



« Che cosa stai facendo?! » esclamò una voce indignata alle sue spalle. Lei non si mosse. I passi si avvicinarono a lei, velocemente. Le si parò davanti e, strappandole di mano la sigaretta, la spense nell'erba umida. Non vedendola reagire, le prese il viso tra le mani e fissò i suoi occhi vuoti e stanchi. Preoccupato le accarezzò la guancia arrossata dal freddo con il dorso della mano, calda. Quel contatto fu inutile, nonostante avesse provocato una scossa che aveva attraversato la mano di lui e le rosee e gelide gote di lei. Altre lacrime solcarono il suo viso, ma lei non si mosse.
« Che cosa stai facendo? » sussurrò lui sconsolato, « Che cosa stai facendo? » sospirò di nuovo. Una smorfia di orrore e sorpresa si dipinse sul suo viso. La prese per le spalle, poi le appoggiò delicatamente la testa sul petto, come per ascoltare il suo cuore, per assicurarsi che fosse ancora viva. Poi sollevò la testa e tornò a guardarla negli occhi. L'abbracciò con sentimento, cullandola come una bambina spaventata. Lei si lasciò dondolare, un corpo senza vita. Poi la liberò preoccupato, dalle sue braccia e con estrema delicatezza cercò di asciugarle il viso dalle lacrime. Solo a quel punto, lei chiuse gli occhi, lasciando il mondo fuori, lontano, esterno. Le sue labbra iniziarono a tremare, come se volesse parlare, dire tutto ciò che le era stato impedito di dire. Ed alla fine lo fece.
« Perché? » sussurrò; la voce tremante cercava di farsi largo nel silenzio. Lui continuò ad accarezzarle il viso con le lunghe dita sottili. « Perché? » sussurrò di nuovo lei, aprendo gli occhi e riempiendoli finalmente del lume della ragione. Ora guizzavano vibranti attorno, come due irrequieti pesciolini verdi in una boccia di cristallo. Lui le voltò delicatamente il viso, cercando di incontrare il suo sguardo. Lei si lasciò andare come un'obbediente marionetta. Fu un attimo, si trovarono.
Erano infinitamente verdi, come i suoi; un verde diverso, strano, verdi dentro. Verdi come il bosco, come il calore, la natura. Verdi come l'autunno, la speranza. Inconfutabilmente verdi, nascosti abilmente dietro una maschera castana.

~



Rimase immobile, mentre lo guardava. Sedeva su quel muretto di vecchi mattoni, tenuti insieme dal muschio che si insidiava nelle crepe. Lui, in piedi sul terreno, era comunque più alto di lei. Lo fissava, con i suoi grandi e tristi occhi sgranati, come se volesse domandarlo perfino con gli occhi "perché". Lui fece scivolare via le sue lunghe ed affusolate dita dalle rosse gote e prese tra le sue le piccole mani nervose e tremanti di quella ragazza tanto strana. Le accarezzò per un tempo che parve infinito, in silenzio, mentre le ultime lacrime rigavano il bel viso della fanciulla. Poi le ripose gentilmente ed appoggiando una mano sul suo viso la avvicinò e le baciò la fronte, gli occhi chiusi e poi le lacrime. Lei rimase immobile, poi riaprì gli occhi. Lui la guardò ancora e le sorrise dolcemente. Poi sedette accanto a lei e con delicatezza la fece stendere supina, la testa adagiata sulle sue gambe.

~



Non avrebbe chiesto, preteso. Non avrebbe cercato di capire. Si sarebbe accontentata ed avrebbe apprezzato ciò che le sarebbe stato offerto. Avrebbe avuto paura ma anche coraggio. E soprattutto, si sarebbe fidata.
In quel momento, circondata dalla demoniaca bellezza dei suoi sogni e dalla devastazione dei suoi ricordi, si sentiva a casa. Protetta da quel ragazzo, che tanto le stava a cuore, si sentiva a casa. Nel silenzio dei loro respiri, si sentiva a casa. Per un po' osservò il cielo bianco e terso, un cielo vuoto, come lei stessa. Infine chiuse gli occhi, sperando di non doverli riaprire mai più: ciò che era stato lasciato per lei era soltanto solitudine.
Stettero così, in silenzio per ore, mentre dietro di loro il sole tramontava, ignorato.


scusate, non ha nemmeno un titolo. Questo è il primissimo testo che, uscendo dal mio diario, è stato letto da qualcuno che non fossi io. Ringrazio la persona che mi ha convinta a continuare a scrivere ed a non vergognarmi assolutamente delle mie creazioni. Grazie.


Edited by aki - 4/3/2014, 15:15
 
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view post Posted on 12/3/2014, 23:00
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NEVE

Candida neve senza pensieri badi
ai rami e dal tuo nembo cadi
cadi in silenzio nel buio della sera
posi il tuo sguardo sognando primavera …

… presente eterno e niente scelte nel futuro
solo languire godere assaporare
la pizzicante aria della sera
della magia il prodigio e la chimera.

Non può durare, non per sempre,
questo silenzio questa calma questa pace
nulla si muove infatti in lontananza
eccetto un lamentare acuto d’ambulanza …

io canto e guardo i sensi della neve
che sono 5 a cominciar dal lieve
posar dei fiocchi discendere dal cielo
e senza fretta decorare insieme il melo.

Non per la vita è fatto questo mondo congelato
Ma per la morte è fatto, per essere ammirato,
Sei solo al mondo, solo con te stesso,
E questa cosa non capita si’ spesso.

Non la lasciare dunque che ti scappi
Pensa e rifletti e taci e godi
D’ogni silenzio d’ogni fiocco e d’ogni istante
Dell’infinito rifluir di questo sangue

Che dona vita dona impeto e dona amore
Così diverso da quel candido biancore,
poi torna dentro e del termosifone
accogli grato l’abbraccio ed il rifugio.

E della neve l’infinito sgocciolio
Risuona fioco come l’ultimo suo addio,
la luce spegni e nella stanza a letto vai
forse, chissà, doman la rivedrai.


Poesia scritta da me l'anno scorso come regalo di natale per mio padre, una sera in cui qui a padova è nevicato e ho deciso di andare in terrazzo a godermi il momento.
 
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view post Posted on 21/3/2014, 10:17
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Eternal Light
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La lucciola erra.
Dall'eterno cipresso
Cadono foglie.

Stavo studiando letteratura giapponese e m'era venuta voglia di scrivere un haiku in un momento... un po' difficile. Preferisco tralasciare il significato allegorico dietro ogni parola. u_u
 
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ArticMark
view post Posted on 28/3/2014, 11:02




Comatus

Giorno 1.

Buio.
Tanto buio.
Un lungo, lento, angoscioso sonno perpetuo.
Dov'era la Morte ? Dove ella indugiava ? Quale raccapricciante destino aveva dettato quel forzato sonno, non dolce, ma amaro come il veleno.
Una luce.
Era un tunnel ? Una porta ? Egli camminava lungo un nero e tetro sentiero, ove passo dopo passo i contorni sembravano stringersi attorno a quel piccolo barlume di speranza, li dove ogni speranza era vana, perduta, obliata dall'oscurità.
Correva, quando una spettrale dama gli apparve.
Sangue le sgorgava dai neri occhi e marce erano le sue guance come anche il suo corpo minuto,ed egli conosceva bene quel viso, poiché di sua figlia si trattava.
Un malsano ghigno le deformava le labbra dalle quali fuoriusciva una nerastra lingua che prometteva mille perdizioni.
Fuggì così dinnanzi a tanta depravazione quando egli stesso prese fuoco, ed ardendo nelle fiamme dell'inferno si dimenava implorando la Morte di salvarlo, ma ella non giunse, e godendo del suo dolore ghignava soddisfatta invitata a pascersi del dolore di quell'essere dal diavolo in persona.
Senza preavviso l'atmosfera cambiava da se, tetra era la stanza in cui ora era rinchiuso, inutilmente cercava a forza di pugni e calci di aprirsi un varco nelle spesse pareti che tuttavia sembravano di viva carne, ad un tratto più egli le calciava più loro sgorgavano sangue.
Un sangue fetido, un sangue maledetto, dal lago di sangue che ora gli lambiva i piedi vennero fuori viscidi esseri deformi, per occhi carboni ardenti e per denti schegge d'osso marcio.
Lo prendevano e lo divoravano, grande era lo strazio, quei denti scheggiati e malridotti macellavano con brutalità le carni di colui il quale era intrappolato in quel viscido lago di sangue che nel frattempo stava pian piano solidificandosi in un blocco dal quale non nessuno era mai sfuggito.
E tutto finì.
Le ferite sanate.
E l'orrore ancora vivo nel cuore e nella mente.
Un conato di vomito lo scosse, e sfinito giacque nel buio nella chiazza della sua stessa bile.

Giorno 2.

Tuoni.
Lampi.
Era l'apocalisse, la terra tremava sotto i suoi piedi scalzi, la pioggia batteva fitta ed incessante sul suo capo, a fargli da mantello la sua nuda pelle.
Fumo; chi mai avrebbe mai pensato di vedere del fumo sotto una così rigida intemperia, e dopo pochi istanti di riflessione una risata.
Malefica, profonda, ferina, la risata del Male.
Da quella poté facilmente capire che il dolore sarebbe tornato, più intenso di prima.
Le sue aspettative non vennero deluse, e la pioggia mutò in acido.
L'acido continuò a corrodere tutto ciò che incontrava ed invano egli correva in cerca di un riparo; la sua pelle era piena di ustioni che a mano a mano scavavano profondi solchi nella sua pelle, a tal punto che dopo qualche attimo si trasformo in un ammassi informe di carne con l'unico scopo di volersi salvare, di sopravvivere a tutti i costi.
Ma quando trovò riparo fu troppo tardi, gli mancavano buona parte degli arti superiori che si reggevano a stento su ciò che rimaneva della struttura ossea, la quale aveva ceduto alla maledetta pioggia.
Si lasciò andare, una parvenza di morte lo accolse fra le sue benigne braccia, tuttavia dopo un solo secondo le sue ferite furono di nuovo sanate e stavolta un cane gli venne incontro, intenzionato a spartirsi la sua carcassa che avrebbe giaciuto in maniera docile.
Non poteva opporsi, ed il cane continuò finchè di lui non ne rimasero soltanto le ossa bianche senza traccia di cosa quell'uomo fosse.
Le ossa tornarono a comporsi, la carne fu ricostruita ed egli si trovò di fronte ad immagini mostruose.
Donne che si accoppiavano con animali in putrefazione, uomini che stupravano cadaveri carbonizzati di bambini, viscere sparse in terra, sangue ovunque, strangolati con occhi fuori dalle orbite, ed all'improvviso cominciò a spalancare la bocca ed emettere suoni gutturali sbavando e farfugliando con la lingua di fuori mentre legato ad una sedia piena di chiodi veniva ora costretto ad osservare tali scempi ripetuti all'infinito, quando non ci fu più saliva da tossire iniziò a tossire sangue, vomitò i suoi organi e schiere di gatti malati vennero a cibarsene mentre lui osservava attonito ed agonizzante, stremato fisicamente e mentalmente, annichilito da tanto male.
Per la seconda volta egli morì fra bava e sangue mentre gli orrendi animali si cibavano dei suoi resti.

Giorno 3.

Sto bene si ripeteva, sto bene, sto bene.
Mentiva a se stesso dondolando avanti e indietro in bilico fra ragione e follia, in attimi di lucidità provava orrore, in quelli di follia riusciva solo a camminare, sbavare e balbettare.
Quattro bruti dalla testa di toro apparsi dalle tenebre lo presero e lo condussero in quella che sembrava una nuova cella stavolta fatta di mattoni.
Lo scaraventarono dentro come fosse un pezzo di carne da macello.
Di fuori la cella vedeva cosa accadeva, il macabro panorama era cambiato, notava figure indistinte muoversi nella foschia che velava tutto.
Non aveva mai visto quel luogo e così domandò ai suoi carcerieri in un disperato tentativo di civiltà e loro risposero con un acuto grido che deformò i loro tratti.
Rabbrividì dal terrore e si ritrasse dalla porta della cella e ad ogni battito di palpebre le sagome di quei volti deformati con occhi vuoti di un nero malsano come la loro bocca tornavano a tormentarlo, nel frattempo quattro energumeni continuarono la loro opera di male conducendo il povero malcapitato in un posto dove migliaia di persone lavoravano senza scopo, senza paga e senza nessun contratto.
Picconi, pale e vanghe erano usate per estrarre massi di carne rancida da una montagna anch'essa di carne.
Ogni picconata sollevava schizzi di sangue fetido che al contatto con la pelle dei dannati lavoratori produceva ferite profonde che all'istante suppuravano in uno spettacolo raccapricciante.
Cercò di scappare.
Scappare era inutile, quel posto era al servizio di un'entità più forte della ragione umana, ne la mente ne il corpo poteva vincere tale malvagità.
La marea di lavoratori deformi per gli schizzi di sangue acido lo sollevarono, e in quell'attimo egli seppe che era la loro vittima sacrificale.
Lo graffiarono beandosi del suo sangue e del suo dolore, lo condussero in una nicchia e lo murarono li in quella montagna di carne abominevole.
Più egli scavava più le sue mani fondevano nell'acido di quelle orride secrezioni, e fu lì che la montagna collassò su se stessa e prima che il mondo gli finisse addosso sentì distintamente due cose : una malvagia risata, ed il suo cuore che esplodeva.
Per la terza volta egli morì, ma come legge di quel luogo il suo corpo necessitava di essere fagocitato.
E tutti i deformi ed orrendi lavoratori furono invitati a quel macabro banchetto che erano le sue carni.

Giorno 4.

Era ora del tutto pazzo, attendeva rannicchiato il prossimo supplizio canticchiando ad intervalli filastrocche di quando era bambino e vecchie ninna nanne.
A tratti si contorceva al ricordo del dolore passato, urlava e si graffiava le carni, che prontamente guarivano permettendogli di ferirsi all'infinito.
Ma dopo poco sentì un odore confortante che gli fece lacrimare gli occhi, quella che sentiva era erba.
Ed era vera si disse perché ora ricopriva tutto il terreno, e sotto il suo sguardo attonito il tetro posto della sua agonia era mutato in un verde paesaggio con alberi, un lago e un chiosco.
Rise come non mai, perché la pazzia era svanita ed il benessere lo invadeva, le sue membra erano di nuovo forti e vigorose e la sua voglia di vivere era grande.
Non gli parve strano anzi, il tutto gli pareva la cosa più naturale del mondo, trovarsi li, dopo tanta sofferenza.
Godeva del contatto dell'erba sotto i piedi e della dolce brezza, e giunto al chiosco di legno una giovane ragazza lo accolse, aveva un che di familiare, tuttavia non vi badò, perché quel giorno la vita era bella.
La ragazza era bionda, con occhi di un azzurro disarmante, seni pieni e prosperosi, un corpo perfetto.
Ebbe voglia di possederla, e come se ella avesse inteso i suoi pensieri si denudò e lo strinse a se sospirando di beatitudine, e quando ella lo baciò il mondo prese a mutare ricadendo nell'inferno.
La giovane si trasformo in una demoniaca imitazione storpia, orba e monca di un braccio, a terminare l'opera tenendolo stretto nel suo orrido bacio gli riversò in gola fiumi di liquido suppurale misto a sangue.
Quella mistura lo corrose dall'interno uccidendolo.

Epilogo

Patì l'ultimo supplizio,l'uomo che tanto aveva sofferto si risvegliò dal coma in un letto di ospedale.
Nelle sue orecchie ancora tuonava la malvagia risata, che presto mutò in un ordine.
Muori.
Ed egli nel buio,non degnando di uno sguardo sua moglie e sua figlia che da giorni vegliavano al suo capezzale, uscì dalla sua camera raccolse una scopa,salì su di una sedia e vi si gettò sopra inghiottendola e morendo impalato.
Due mesi dopo lo raggiunsero sua moglie e sua figlia e tutti e tre si ritrovarono per sempre prigionieri di quella Morte e di quella suprema entità maligna che li torturò sino alla fine del mondo.
 
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view post Posted on 5/4/2014, 21:44
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koneko no baka
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Sto bene, sto bene. Non mi sento sola, non sono triste e non sto piangendo. Non sto pensando al vuoto. Di nuovo. Non sto sognando il paradiso. Ancora. Non sto sentendo il gracchiare di qualche volatile. Un'altra volta. La mia vista non si sta annebbiando e non viene interrotta da brevi spezzoni di una vita che non vorrei mi appartenesse, perché sto bene. Sto bene perché durante il concerto non sono stata in apnea, come immersa in uno stato catatonico. Perché durante il settimo brano i miei occhi non sono stati tempestati da rapidi flash che raccontavano le mie estati, la mia vita in brevi e semplici passi. La mia vita fatta ad immagini, fatta da boschi, alberi, cortecce, muschio, vecchie case abbandonate, cantieri di case ancora da nascere, lacrime, nuvole, lune, fiori, bolle di sapone, foglie colorate, gufi, disegni. Fatta di te. Lasciami andare.
Lasciami scappare via.


Questo post fa più che altro "canale di sfogo" ma in questo momento credo che nessuno possa contraddirmi senza rischiare danni. Permanenti.
Buona notte a tutti.
 
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view post Posted on 10/4/2014, 15:10
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koneko no baka
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Apro gli occhi e mi alzo, camminando senza una meta in giro per la casa. Le mani tremano, così come le gambe che minacciano di cedere nel giro di pochi secondi. Mi guardo furiosamente attorno, in cerca di un appiglio, un aiuto, uno sguardo gentile, una mano tesa. Nulla. Niente potrebbe salvarmi dall'ennesima caduta. Le ginocchia si ribellano e in pochi centesimi di secondo mi ritrovo faccia a terra, pochi centimetri dal marmo che avrebbe potuto determinare seri danni al mio cervello. Cerco di muovere le braccia, le gambe, cerco di alzarmi. Ricado penosamente. Urlo. Piango. Cado.

Apro gli occhi e mi alzo, attorno a me una radura circolare pullula di meravigliosi fiori di campo che ondeggiano mossi dalla brezza. Il cielo terso e blu viene accarezzato dalle cime degli abeti. Sotto i miei piedi una coperta azzurra copre una piccola porzione di prato, in fondo alla coperta tu siedi a gambe incrociate e mi guardi sospettosa. Hai coperto il disegno con una mano. Mi soffi addosso come un gatto rabbioso e continui a guardarmi di sottecchi. Io mi volto e muovo una decina di passi verso il centro della radura, controvoglia. Poi, silenziosamente torno a guardarti. Sei concentrata, stai disegnando. La brezza sfiora delicatamente i tuoi capelli color nocciola chiaro, sciolti. I tuoi occhi chiari guizzano da una parte all'altra del blocco da disegno e la matita scorre leggera lasciando vellutate scie di grafite a comporre figure tanto maestose e sorprendenti da lasciarmi ogni volta senza fiato. Senza volerlo, senza accorgermene, senza pensarci, muovo alcuni passi incerti verso di te. Devo essermi avvicinata, sì. Devo aver allungato un braccio verso di te, credo. Non voglio sapere cosa succederà quando alzerai lo sguardo. Comunque non riuscirei a fermarmi. Nemmeno se lo volessi. Ma perché mai dovrei volerlo?

Apro gli occhi e mi alzo, il tuo letto è davvero comodo. E poi profuma, profuma di una fragranza misteriosa e squisita. La tua, suppongo. Squadro la camera semi spoglia, i giocattoli ed i libri di quando i nostri genitori erano solo dei bambini mi guardano da una vecchia libreria sul muro opposto. Tu sei seduta sul letto, proprio di fronte a me. Sfogli il tuo nuovo e-book. Vado a dare un'occhiata. Stai leggendo il nuovo capitolo di Naruto, in giapponese. Peccato, non capirò quasi nulla. Sembri parecchio concentrata. Azzardo un dito verso la tua spalla, ti punzecchio leggermente. Tu alzi una mano, mi fai segno di aspettare. Poi con mio immenso stupore inizi a tradurmi il capitolo per intero. Sono esterrefatta. Ti ascolto ammaliata, non posso fare a meno di fissare le tue labbra che si muovono a ritmo ipnotico. Sono splendidamente rosse e sottili e da esse scende come manna dal cielo una voce tanto divina da mandarmi a cercare paradisi lontani, dove passare il resto della mia miserabile vita ad ascoltare questo suono tanto meraviglioso. Allungo una mano, le dita tese per sfiorare la tua bocca, in preda all'ipnosi più totale. Non voglio sapere cosa succederà dopo. Non voglio sapere come reagirai. No. Voglio solo che il tempo si fermi così: io, te, la tua voce, le tue labbra e nient'altro.

Apro gli occhi e mi alzo, corro verso il mio letto e soffoco le mie urla nel cuscino. Poi cerco di calmare le lacrime ed il respiro ancora affannoso ed ascolto. Ascolto il rumore delle valigie, dei saluti, dei baci sulle guance, delle risate malinconiche e nostalgiche. Quando non sento più nulla mi affaccio alla finestra e mi siedo sul davanzale, come da mio solito. Vedo la macchina grigia metallizzata che viene caricata di zaini e bagagli, vedo organizzazzione e determinazione sui visi di tutti. Di tutti meno una. Tu mi guardi di sfuggita. Io tengo tra le mani una piccola striscia di carta scritta rapidamente e male poco prima, in preda alla disperazione. C'è scritto "sad", spero che giù dove sei tu si riesca a leggere. Poi tutti salgono in macchina, sbattendo le portiere. Tu indugi sull'entrata. Cosa stai facendo? Perché non sali? Sto male, verso altre lacrime schiacciata dal peso delle illusioni che io stessa sto creando. Ma succede. Alla fine succede. Tu ti volti verso di me, i nostri occhi si incontrano. Le tue labbra fremono e mimano un muto e distante "scusa". Mi blocco. Poi realizzo. Salto giù dal davanzale e mi precipito sulle scale. Non mi importa di essere scalza, di avere il viso sfigurato dal pianto. Non mi importano gli sguardi scioccati della gente al mio passaggio. Mi lancio di corsa all'inseguimento della macchina. L'asfalto mi scortica le piante dei piedi scalzi ed il sale delle lacrime mi corrode ancora il viso mentre corro verso di te. Ma tu ti allontani sempre di più, sempre di più. Cado. Urlo. Piango.

Apro gli occhi e mi alzo, la stanza immersa nel consueto bagliore grigio di una giornata nuvolosa. Dove sono? Oh, già. Sono a casa. Che giorno è? Probabilmente ancora estate. Maledetta. Mi infilo svogliatamente un maglione. Gli occhi bruciano ancora come l'inferno, li strofino e la vista mi si annebbia di una tempesta di puntini scuri. Scuoto la testa e scendo al piano di sotto. Sul tavolo c'è un biglietto. "Siamo a fare la spesa. I nonni". E così sono sola. Mi prendo del succo ed esco sul poggiolo. I piedi nudi a contatto con il granito freddo trovano sollievo dopo la corsa sull'asfalto di qualche settimana fa. Sono devastata. La casa non è mai stata così vuota. Tutte le sere entro in camera tua, per qualche minuto e muoio un po'. Mi inginocchio davanti al tuo letto, ne bacio il lenzuolo profumato. Ieri sera sollevando il cuscino ho scoperto che ti sei dimenticata il tuo pigiama. Ho passato la notte ad annusarlo e baciarlo. Fra qualche giorno la nonna cambierà le lenzuola: si è stufata di assecondare le mie preghiere. Riemergo dai miei pensieri quando un gatto randagio nero e bianco si strofina sulle mie gambe, lo sguardo implorante. Sfodero i croccantini segreti che tengo per i selvatici e gliene offro un po', ascoltandolo prodigarsi in infinite fusa. Guardo il cielo e penso a te.

Apro gli occhi e mi alzo, le gambe stanche e stufe delle solite giornate vuote. Mi dirigo verso il parco e mi siedo sulla consueta altalena. Inizio a volare un po', senza volerlo troppo. Devo avere proprio un aspetto terribile, la gente comincia ad evitarmi. Sono dimagrita, mi lavo compulsamente tutti i giorni, ma tengo sempre gli stessi vestiti di quando te ne sei andata. Già quel giorno erano sporchi. Ora sono lerci, lordi di fango ed erba. Di foglie umide, di bosco e di vita. Una vita che sto sicuramente sprecando. È agosto, ma il mio viso è pallido e smunto. I capelli ormai sfiorano le spalle, secchi e rovinati. Gli occhi rossi e stanchi chiedono pietà, testimonianza ne sono le violacee occhiaie che li circondano. Le labbra sono pallide ed immobili da troppo tempo, ormai. Sto male.

Apro gli occhi e mi alzo, mio malgrado. Di me non resta che un vuoto involucro. Mi sforzo di fare qualcosa, di migliorare la situazione. Fallisco miseramente. Non posso fare a meno di entrare in camera tua ogni sera. Il tuo pigiama ha cominciato a perdere profumo. È una sensazione orribile sapere che gliel'ho tolto tutto e l'ho messo nei miei polmoni per poi buttarlo involontariamente fuori in un'azione così inutile come respirare. Sono delusa di me stessa. Ora il tuo pigiama, l'ultima cosa che di tuo m'era rimasta non c'è più. Hai mandato tua madre a riprenderlo, ti serviva a quanto pare. La sera mi ritrovo seduta in cucina, a guardare la tivù. Ma l'apparecchio è spento. Mi ritrovo seduta a tavola, davanti a me una scatoletta di tonno e due forchette. Ma sono entrambe pulite e la lattina chiusa. La notte mi ritrovo a vagare per la casa buia e deserta. Mi ritrovo nella tua camera ad allungare una mano leggera verso il tuo cuscino con la speranza di poter sfiorare ancora le tue braccia e le tue guance morbide. Con la speranza di poter sentire ancora il tuo respiro. Spesso vorrei non arrivare alla parte in cui scopro per l'ennesima volta che le mie speranze sono vane. Che tu non ci sei e non ci sarai mai più, probabilmente. No. Non può essere vero. Voglio solo annegare nelle mie speranze e non riuscire a salvarmi.

Apro gli occhi e mi alzo, o forse no. Qualcuno bussa alla porta. Il tempo passa, chissà quanto. Qualcuno infila le chiavi nella toppa ed entra. È la nonna, preoccupata. È mezzogiorno passato ed io sono ancora a dormire, o forse no. Mi trova nel letto, gli occhi spalancati che fissano il soffitto e le travi di legno. Non mi muovo. Non parlo. Non penso. No. I ricordi invadono la mia testa, come un fiume in piena. I miei occhi sanguinano lacrime, più verdi che mai. Un nodo nella mia gola non si decide a sciogliersi, vorrei gridare, piangere, vomitare. Non riesco a capire dove sbaglio, dove ho sbagliato. Tutti i ricordi tornano, ma tu no, vero? Tu non torni mai. Tu continui a torturarmi lentamente, senza pietà, senza amore. Eppure sai, ne possiederesti tanto se solo mi avessi lasciato la possibilità di dartelo. Perché tanto è l'amore che ho qui, per te. Proprio qui. Tanto. Ma tu non l'hai voluto. Dopo questi anni, dopo tutte le nostre giornate tu non l'hai voluto. Allora ti prego basta, ti supplico. Basta così. Mi maledico ogni giorno ed ogni notte per le cose che avrei potuto fare, che avrei potuto cambiare se solo avessi saputo. Ogni sera piango e una sensazione orrenda, un nodo gigantesco, una vibrazione sinistra sale dal mio ventre fino alla mia gola e mi lascia così angosciata da non dormire la notte. Al mattino mi sveglio e prego di non dovermi alzare, di poter restare stesa tutto il giorno a pensare ai nostri giorni felici, quando sorridevamo. Quando tu sorridevi. O meglio, accennavi un sorriso. Ma ora basta, finiscimi ti prego. Uccidimi. Fai finire il dolore, ti scongiuro.
Non amerò mai abbastanza, mai. Perdonami.


Chiederei ai lettori di non giudicare, ho preso coraggio ed ho postato questo Scheletro.


Edited by aki - 10/4/2014, 17:34
 
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MrCorra
view post Posted on 18/7/2014, 18:14




una mia poesia nella raccolta "Dei Morti"

La morte eretica

Tempo a corto,
questo è il culto del morto.
Colto dal loculo, arso vivo in vita,
mi rialzo, spirato, dal sepolcro.
Reo di sevizione subita
stringo la vendetta,ardita,
tra le dita.
Mitigo il dolore
e anche se siete in errore
la mia condanna è già stata impartita.
 
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Verel
view post Posted on 18/7/2014, 18:29




CITAZIONE
In genere non scrivo tranne che per Asgradel, mi ricordavo però di aver steso un qualcosa su una pagina di Word. Scavando tra le cartelle, l'ho trovato e lo desidero condividere con voi. Non è niente di speciale, anzi: quando lo scrissi la mia idea era solo quella di sfogarmi durante un periodo grigio.

« Blank pages »
Un pensiero breve.

Il silenzio è una pagina bianca.
Fissa, immutata ed immacolata nella sua semplicistica perfezione. La pagina bianca non perdona, né giudica: non dice nulla, così come il silenzio. Ne esistono di milioni come lei, uguali ad essa in ogni suo più piccolo e non esistente dettaglio. Il bianco invoca l’immobilità, la staticità ed, infine, l’apatia. Chi non si è trovato di fronte al candore di questo silenzio, solo per ritrovarsi senza parole, impossibilitato ad incominciare o tanto meno a continuare?
Sommersi in questo mondo pieno di parole nere, diventa quasi impossibile respirare, i rumori altrui ci invadono e si scagliano contro il cuore, quell’unica parte di noi che non possiamo difendere. Non ci si può schermare dalle parole.
In questo disordine, presto ci si rende conto che le pagine bianche sono la salvezza. Permeati dalla loro fredda indifferenza, i fogli iniziano a somigliare più a specchi in cui ci si vede riflessi. Ma è un’immagine dolorosa quella che si osserva, un ritratto bianco e senza emozione, come un urlo rinchiuso nel silenzio o un pianto trasformato in debole sorriso. La pagina bianca è finzione: nient’alto che un futile scudo contro il nero del mondo.
Stretti nell’abbraccio di questo velo, è difficile vedere come il rumore non faccia altro che fare sempre più danni. Del resto, il nero è sempre più scuro sul bianco.

Ed è in questo momento di assoluta desolazione che giunge una mano amica a sollevarci dalla pila di fogli ormai macchiati. Sfiorandola, ci si rende conto del calore che irradia, così diverso dal freddo bianco. Tuttavia, questo aiuto non è caduto dal cielo o mosso dalla pietà: vuole qualcosa, vuole parole. La paura attanaglia i cuori fragili, spingendoli a credere che ciò che sceglieranno di dire non sarà altro che una goccia nel mare, un’inutile tentativo ed un ennesimo fallimento. Temendo di affrontare di nuovo il nero, ritraendo la mano tesa, si apre un varco di bianco silenzio.

Ma se scelgo di sciogliere queste catene di carta, se sfido la sorte e me stesso aprendo il mio cuore, finalmente posso spendere le mie due ed uniche gocce di inchiostro.
Basteranno.

“Ti amo.”
 
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view post Posted on 6/7/2015, 21:14
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koneko no baka
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Le dita nodose allentarono la presa sull'impugnatura della racchetta da passeggio non appena la parola "discesa" giunse alle sue orecchie.

La meta non era dunque lontana. Ringraziò cordialmente la giovane donna di fronte a lui, caricata in grembo di tre fioriere vuote, ingegnosamente incastrate l'una nell'altra, e si rimise a marciare. Saggiò con fastidio la sensazione umida e perpetua dello zaino sulla schiena sudata, ma si consolò rimembrando che il sentiero da lì in poi sarebbe stato clemente e privo d'insidie. Si passò una mano sulla fronte rugosa. La giornata di cammino l'aveva annientato, ricordandogli le sue prime escursioni avventurose sulle cime di quella bella regione frastagliata di montagne. Si sentì quasi il pivello ch'era stato in principio, quando arrancava al seguito del fratello maggiore. Sospirò mesto in suo ricordo e poi perse l'attenzione nel circondario, il paesello silente e sperduto che mai si sarebbe aspettato di trovare. Credeva di conoscer ormai bene quella zona, nei suoi ricordi e appunti quella parte di mondo mai aveva avuto lo spazio per ospitare la manciata di case che invece ivi giacevano come a deriderlo. Il sole baciava i loro muri rustici e grezzi, i fiori l'osservavano pensosi dai balconi e i davanzali. Scosse la testa, guardando attentamente la grandiosa cima dietro a lui come a collocarla in qualcuno dei ritagli della sua memoria. Ma pur cercando di trovar l'orientamento, per via della spessa cortina di nebbia che copriva la valle più in basso egli non seppe capire che luogo fosse mai quello che l'aveva sorpreso in quel soleggiato meriggio di luglio.
Si voltò dunque nella direzione in cui la donna s'era avviata, deciso a chiedere informazioni.

Quella però era sparita e con lei le fioriere di ferro battuto. La strada ora era deserta e non un suono lasciava trapelare la possibilità che qualcuno fosse anche solamente dietro le vetrate di qualche finestra. Persino i galli nei pollai in fondo agli orti avevano cessato di fare chiasso, lasciando grilli e cicale i soli a farsi beffe dell'avventuriero. Scosse la testa e venne colto da un brivido, ma diede la colpa al refolo montano che verso il tramonto da sempre aveva l'abitudine gelarlo all'improvviso. Riprese a camminare, forse un po' più lentamente, non avrebbe saputo dirlo. Volgeva gli occhi ora a destra ora dalla parte opposta, sempre più curioso e - chissà come mai - sempre più cauto. Di fronte a lui si profilava una curva decisiva che portava alla parte anteriore del paesello, dal quale avrebbe potuto sfuggire al più presto. Passò di fronte ai numerosi balconi carichi di fiori e panni stesi senza guardare in alto, come preoccupato e in qualche modo intimorito. E pur senza guardare, inaspettatamente poté sentire una presenza oltre alla sua.
Sollevò dunque lo sguardo.

Due paia di occhi incontrarono i suoi, facendolo quasi trasalire per la sorpresa. E lo stupore più grande fu forse trovarli in una posizione che non era quella dove si sarebbe aspettato di trovarli; le quattro iridi di verde dipinte lo scrutavano infatti dal basso della ringhiera di legno, lasciando intravedere poco i due rispettivi volti attraverso le colonnine verticali e i lunghi tappeti e copriletto stesi. Un gatto e una giovane lo studiavano immobili, seduti come sfingi forti della loro vantaggiosa posizione. Lei reggeva un libro aperto sulle gambe incrociate, in quell'istante sfacciatamente ignorato. Teneva un'espressione neutra, le sopracciglia e le labbra rilassate in una smorfia tranquilla e lievemente incuriosita, a rispecchiare lo sguardo del felino.
Avrebbero potuto assomigliarsi, in un certo senso.
Il vecchio e la ragazza si guardarono, mentre il vento - ora più animato - gonfiava il lenzuolo steso colmo di ricami e lo faceva svolazzare come farebbe una madre che scarmiglia i capelli della prole. I volti muti si lasciaron guardare un poco di più, per poi farsi coprire di nuovo dal tessuto decorato. E l'uomo si sforzò di serrare la bocca, che si era sorpreso ad aver involontariamente aperto.
Riprese la marcia, forse leggermente tentennando, non avrebbe potuto esserne certo.

E le sue dita affusolate si strinsero spasmodicamente sull'impugnatura sagomata del suo supporto da passeggio, mentre - barcollante - si allontanava verso la discesa.



Ispirazione random da pomeriggi - insolitamente roventi - occupati con ore di lettura e incontri inaspettati.
 
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Alb†raum
view post Posted on 12/7/2015, 18:37




Racconto che ho scritto per Lokee qualche mese fa. È fortemente ispirato alla canzone Circus Monster di Circus-P, ma la storia è mia invenzione. Enjoy it.

Le luci sfarfallano, poi si spengono. Il nostro vociare si affievolisce, poi scompare del tutto e nel tendone piomba un silenzio di mormorii e sussurri. Nell’aria rimane solo il caldo umido dei nostri fiati e l’odore del popcorn mescolato a quello degli escrementi degli animali. Un sorriso teso si disegna sulle nostre labbra. Alcuni di noi non sanno cosa stia per accadere. Quelli si tengono una mano nell’altra, divertiti, oppure sbocconcellano i rimasugli dei loro sacchetti di semi di girasole fritti, ungendosi le dita di olio e sale. Si chiedono cos’altro potrebbe sorprenderli dopo aver visto donne e uomini librarsi in aria come uccelli, tigri miagolare come gattini e scimmie giocare a carte. Un certo numero aspetta soltanto che il direttore si faccia avanti per dichiarare la fine dello spettacolo mentre i loro mocciosi si agitano per l’oscurità improvvisa.

Quelli che sanno cosa sta per accadere hanno sopportato pazientemente tutte quelle sciocchezze per arrivare a questo momento. Quante volte l’abbiamo vissuto? Cento, mille volte? Sentiamo la stessa eccitazione della prima volta, gli stessi movimenti viscerali. Accavalliamo le gambe, irrequieti. Alcuni si lanciano occhiate d’intesa, ma la maggior parte di noi non si muove: non riusciamo neppure a distogliere lo sguardo.

Una serie di piccoli fari si accende di una luce violacea e soffusa. Il fumo a ghiaccio secco sibila nell’aria riempiendo la pista di una sottile nebbia. C’è una figura al centro, una sagoma appena distinguibile. Una luce in alto si accende con un “clack” improvviso, carico di quell’inutile drammaticità che piace tanto al direttore. In mezzo agli spettri di vapore si disegna un cerchio bianco.

Ed eccola lì. Il mostro.



Tiene la testa abbassata, vergognosa del vociare che inizia a percorrere gli spalti. Sono mormorii indignati, spaventati e divertiti. Qualcuno fischia. Un ragazzo si solleva e fa cenno alla sua morosa di seguirlo.

«Che porcata» mormora facendo scivolare le braccia nelle maniche della giacca. Briciole scivolano giù dal tessuto impermeabile. «Miserabili, stronzi. Fanno spettacolo di… quella cosa lì». La ragazza lo segue, pallida, spingendo da parte i sacchetti di carta dei loro panini. Nessuno dei due riesce a evitare di lanciare una nuova occhiata alla creatura al centro della pista, per poi distoglierla stringendo le labbra con vergogna. Noi li osserviamo andarsene continuando a sorridere. Non hanno capito, non hanno capito assolutamente nulla. Ogni sera c’è qualcuno che si crede tanto intelligente e sensibile da non poter sopportare lo spettacolo. Non arrivano mai alla porta di uscita.



Il mostro non solleva gli occhi. Le tre dita che ha per ogni mano sono intrecciate strettamente fra di loro, come fa ogni volta che inizia uno spettacolo. Le ciocche di capelli rossi che le crescono rade in testa le cadono sul viso. Nascondono appena i lineamenti sgraziati, le orbite troppo piccole, la bocca dai denti sporgenti e deformi, zanne di cinghiale. Alcune bozze simili a piccoli corni le fuoriescono dalla fronte. Il vestito rosa che indossa la rende simile a una bambola versata male nello stampo piuttosto che a una persona.



«Spogliati!» grida uno di noi. Una lattina cade sul tappeto della pista e rimbalza un paio di volte prima di fermarsi contro una parete. Un’altra colpisce poco lontano dal piede della creatura, che sobbalza appena.

«Fai schifo!» strilla un altro. Il mostro non alza lo sguardo. Non piange. Incrocia le braccia e si ingobbisce ancora, mostrando la curva storta della schiena. Alcuni di noi schioccano la lingua con disprezzo. Cosa sta aspettando? Crede che abbiamo tutta la sera per vederla contorcersi? Crede di essere una modella, di doversi mettere in mostra? Siamo venuti per una sola ragione. Apri la fottuta bocca, mostro.

La apre.



Canta. Se l’oscurità di poco prima ci aveva zittito, la voce ci spegne. Quelli di noi che si erano sollevati ora crollano seduti e quelli che si erano apprestati all’uscita per andarsene si voltano per capire da dove provenga il suono. Tutti gli sguardi che prima erano riluttanti a guardarla ora sono puntati su di lei, il mostro, che solleva la testa e mette in mostra il proprio viso ripugnante mentre con quelle sue fauci da cinghiale spalancate continua a emettere quel suono che pare non appartenerle.

In quest’epoca di radio e televisioni è facile sentire qualcuno cantare. È una cosa comune. Dischi, pubblicità, film, tutti contengono canzoni. Non sono motivo di stupore o meraviglia, al massimo di emozione, qualcosa che si muove nel cuore e lo scalda, ma niente di più.

La voce del mostro invece muove l’anima. Non è come le altre, non è un semplice strumento che segue delle note. È una madre che ci culla con amore fra le sue braccia. Ognuno di noi, nel profondo, si sente di nuovo bambino. Uno di noi, un uomo con accanto due mocciosi, si porta le mani al viso e piange.

«Non… non è giusto» mormora fra i singhiozzi. Si piega come poco prima aveva fatto il mostro, con vergogna, ma nessuno lo sta notando. I bambini tengono gli occhioni spalancati e non emettono un suono.

Il mostro spalanca le braccia, il suo canto aumenta di tono. Non c’è più odore nel tendone, non c’è neppure più un tendone, o luce, o oscurità, o le sue membra malformate. Dentro di noi sentiamo pulsare ogni nostra vena, arteria, capillare al ritmo della musica. Il nostro corpo è leggero e pare sospeso in aria, a librarsi nella nebbia violacea, non più composta da fantasmi bensì di nuvole al tramonto. Vorremmo che non finisse mai.



Il mostro serra le labbra. Il risveglio è brusco, doloroso. Uno di noi cade a terra. Un altro rigurgita sugli spalti il suo pasto in una melma giallastra. Il frignare dei bambini percorre gli spalti e una donna abbraccia il proprio figlio e si unisce a lui affondando il viso sulla sua spalla. Nessuno applaude. Nessuno di noi è pronto o ha desiderio per farlo. Le nostre mani tremano ancora e quel tremito ci piace.

Il mostro afferra i lembi del vestito e abbozza un inchino. Si volta e a passi svelti percorre il corridoio per uscire di scena. La luce bianca si spegne, le luci colorate la seguono.



Noi andiamo dietro al mostro.

Lei sa che siamo con lei. Noi siamo sempre assieme a lei. Si potrebbe dire che siamo un’ombra, ma sarebbe sbagliato. Lei non può vederci. Lei sa che esistiamo, sa che non ci separiamo mai. Anche ora che attraversa lo spiazzo in cui sono stati disposti i carri degli artisti fa attenzione a non inciampare nei tacchi delle scarpette che è costretta a indossare. Non vuole che le ridiamo alle spalle. Ci detesta.

Il camper del direttore è quello più lontano dalle gabbie degli animali, e quindi il più distante possibile dal tendone. Il mostro arranca in quella direzione un passo alla volta, tenendosi sollevato il vestito in cerca di equilibrio. La luce dei lampioni la illumina in una pallida parodia del faro del palcoscenico. Il suo grugno è contorto in una smorfia frustrata. Sogghignamo appena. È patetica, stupida. Non lo sa che potrebbe togliersele quelle scarpette, ora che non c’è nessuno che la guarda? Le sono scomode, strette. I suoi piedi non sono fatti per indossare scarpe, il suo corpo non è fatto per indossare alcunché. Dovrebbe piantarla di fare finta che sia così.



Sale la scaletta che precede l’entrata e bussa alla porta di plastica una, due volte. Dietro le tende si accende una luce. C’è un rumore di passi. Il camper è grande, molto più grande della miserabile casetta in cui era vissuta prima. Si sporge per scrutare lo spiraglio di soggiorno che si intravede dalla finestra, ma subito la porta si apre ed è costretta a voltare la testa di scatto.

«Ah. Sei tu» mormora il ragazzo sulla soglia con uno sbadiglio. Il mostro non risponde. Si limita a guardarlo, forse a chiedersi cosa vuol dire poter sbadigliare senza sentire tutte le ossa del viso scricchiolare e i denti strisciare uno contro l’altro. Il ragazzo mette una mano nella tasca ed estrae un mazzo di chiavi tintinnante.

«Hai già finito?» domanda con sguardo perplesso, reso ancora più fesso da quei suoi capelli tinti di verde. Domanda idiota. Perché pensa che fosse lì? Per chiedergli di uscire o voler scappare? Il mostro annuisce, mansueto. Il ragazzo scansa i suoi occhi e i denti storti e le guarda il petto appena accennato, forse in preda a qualche frustrazione non soddisfatta, ma poi distoglie lo sguardo con una smorfia.

«Vieni» grugnisce facendole cenno col braccio. La supera e scende le scale con passi pesanti. Non ha addosso scarpe, solo un paio di calzini neri spessi che sporgono al di sotto dei larghi jeans. Il mostro lo segue, di nuovo cercando equilibrio sopra quegli stupidi tacchi.

«Papà è contento. Ha detto che dopo lo spettacolo vuole parlarti» dice il giovane uomo portandosi meccanicamente una mano verso il naso mentre l’odore delle stalle si fa sempre più intenso. «Ormai le persone ci seguono per venire a sentirti cantare, lo sai?». Sorride, ma non vi è nulla di caldo in quel sorriso. Il mostro non risponde. Si limita ad annuire ancora. Almeno possiede abbastanza dignità di tacere.

Il ragazzo solleva le sopracciglia, poi sospira tornando a guardare la strada in silenzio, finalmente comprendendo che con lei sprecava solo fiato. Arrivano di fronte a un piccolo carro dipinto di rosa, il più vicino alle gabbie degli animali. Qui la puzza è insopportabile. Il ragazzo si tiene tappato il naso mentre apre la serratura della porta. Forse si chiede come faccia la creatura a sopportare quell’aria tutti i giorni, forse no, perché dopotutto lei non è che un animale come quelli che vivono rinchiusi nelle sbarre. L’unica vera differenza è che la sua gabbia è più piccola. Al mostro tuttavia non dispiace e dentro di sé riesce a chiamarla “casa”.

«Ecco. Se ci sono problemi, usa il campanello» mormora spalancandole la porta. Quando il mostro entra il ragazzo le chiude a chiave la porta. Non c’è una serratura o una maniglia all’interno. Non sarebbe una gabbia.



Il mostro porta una mano all’interruttore e lo schiaccia. Una lampadina si accende sul soffitto. L’ambiente è angusto. Al centro della stanza c’è un tavolino con accostata una sedia. Sopra al tavolino, una manciata di mozziconi di pastelli e un disegno non completato. Dietro, un letto disfatto dalle coperte rosa, quel colore che lei ama tanto e che la fa sentire la donna che non è, con accanto un lavello sporco. Più sporco del resto, almeno: tutto è coperto da polvere e briciole e le coperte odorano di sudore. Adrian, lo stalliere, non era passato a pulire, come sempre. Ormai lei è qualcosa di inferiore a una bestia. Se ne rende almeno conto?

Il mostro si volta. Scruta nel vuoto, tenta di trovarci, magari nascosti dietro il termosifone oppure dietro la porta del bagno. Forse ha sentito qualcosa, una presenza alle spalle, un suono, forse ha capito che pensavamo a lei come un animale. Abbiamo sempre pensato questo di lei, da quando eravamo sugli spalti la prima volta, a sentirla cantare. Lei ci può vedere solo lì. Tutta la nostra esistenza è attendere che lei canti di nuovo, perché lei non vale nulla, assolutamente nulla.



Con un sospiro si toglie finalmente le scarpe. Stringe le dita dei piedi per stiracchiarle. Sono grosse, gonfie, con unghie irregolari e seghettate. Li struscia nella polvere del pavimento come se si fosse dimenticata come si cammina con grazia e si siede al tavolo. Fissa il disegno che non era riuscita a finire prima dello spettacolo. Non ha il benché minimo talento, sembra il disegno di un bambino che impugna per la prima volta una matita. Sorride, incomprensibilmente contenta, e le zanne si increspano grottescamente in avanti. Ci sono due persone nel disegno, entrambe scarabocchiate con cerchi rosa per la testa e il corpo e con i volti disegnati con puntini neri. La figura a sinistra è bassa. Capelli rossi sono abbozzati in una criniera confusa attorno alla testa. Sorride mentre stringe la mano al secondo personaggio, più alto, con i capelli a spazzola neri e un paio di cerchi gialli ai lati del viso, forse orecchini. Il mostro lo accarezza con la mano destra, con le tre dita storte che si trovava e con quelle due più piccole e mai cresciute, attaccate immobili al palmo e quasi invisibili. Adrian le aveva detto che i bambini deformi li portano le streghe. Rapiscono quelli sani dalle culle per mangiarli e vi lasciano mostri inguardabili perché rovinino la vita alla famiglia. Dopo averlo raccontato lo stalliere aveva spalancato la bocca in un ghigno. Non era una bella vista: molti dei denti gli sono caduti o marciti e in alcuni punti delle gengive si vede biancheggiare l’osso. Il suo viso è cosparso di rughe e piaghe, i suoi occhi sono piccoli e spenti e per coprirli porta sempre un paio di occhiali scuri. Il direttore le aveva detto che si inietta veleno. Il mostro spera che sia così, che sia per questo che dice tutte quelle cattiverie.



Stringe la mano a pugno, forse nel tentativo di scacciare un pensiero. Dopo un istante afferra con la sinistra Il pastello giallo, chiudendolo fra l’indice e il pollice. Ormai è meno di un mozzicone e la pasta oleosa le scivola fra i polpastrelli. Avrebbe dovuto disegnare meno soli e fiori se avesse voluto che si conservasse. Disegna altri due piccoli cerchi gialli a fianco delle due persone. Li riempie passando attorno ai bordi, ma infine decide di riempire scarabocchiando. Aggiunge due triangoli ai lati e due piccole linee che vanno a terra. Con il pastello nero e disegna due occhi per ognuno dei cerchi e un piccolo tre capovolto all’insù come bocca.

Fissa l’immagine per qualche istante, sfregandosi le dita unte sul vestito. Fuori si sente lo scrosciare vigoroso che sancisce il termine dello spettacolo. Una parte del mostro spera che la stiano applaudendo, ma noi non la applaudiamo mai. Per questo lei non è ammessa al saluto finale. Noi pensiamo solo al suo canto, a quel suo bellissimo, inammissibile canto, contando le ore a partire dal termine di uno perché si arrivi all’inizio di quello successivo.



Guarda il disegno e sente pizzicare gli occhi. Non cadono lacrime, i mostri non piangono. Si strofina le palpebre, poi torna a sporcare il foglio. Fa i cespugli con il rosso perché il verde è finito a forza di colorare alberi. Abbozza dei fiorellini viola sul terreno e un tronco spoglio in lontananza. Vorrebbe colorare anche il cielo, ma in quel momento lo scatto della serratura la fa sobbalzare.

«Ciao, Belle. Come stai?» le sorride il direttore nell’entrare, chiamandola per quell’assurdo nome che usa solo lui dopo aver visto troppi cartoni animati. Ha ancora addosso il costume di scena, quella giacca rossa con il panciotto bianco, completo dei baffi finti. Non ha il frustino, questa volta. I muscoli del mostro si rilassano. Lascia andare i pastelli e si solleva in piedi. Il direttore le porge un pacchetto di pastelli nuovi.

«Un piccolo regalo per il tuo successo di stasera. Lo spettacolo dei pagliacci non lo ha guardato nessuno. Stavano ancora piangendo per la tua canzone».

Il mostro afferra il pacchetto accennando a un “grazie” con il capo e lo posa sul tavolo, accanto a quelli già finiti. È raro che parli. Nessuno ne soffre, per questo. Il direttore si guarda attorno e non riesce a trattenere una smorfia schifata. Si sfila i baffi e si passa il polso sopra le labbra. Il suo volto è secco, magro, con le fosse nelle guance nascoste appena dal cerone e dal trucco. Senza i baffi e il cappello assomiglia a un manichino vestito a carnevale. Con lui, però, nessuno aveva sbagliato lo stampo.

«Adrian ha deciso di fare di nuovo il simpatico. Mi dispiace. Gli dovrò parlare. A una vera e propria star non si addice una casa in queste condizioni» ridacchia sottolineando la parola “star”. Si appoggia al muro con un braccio. Il mostro gli lancia un’occhiata distante. È lenta a capire, a quanto pare. C’è una piccola televisione nella stanza che tiene nascosta per evitare che Adrian la rubi di nuovo e la guarda spesso, quando non disegna. Quella parola la conosce, è solo la sua stupida testa che si rifiuta di registrarla.



«Sai, ho invitato allo spettacolo alcune persone interessate a te. Gli sei piaciuta. Vorrebbero fare dei dischi». Il mostro continua a fissarlo. Le budella le si muovono dentro maniera strana, improvvisa. È confusa.

«Hai talento. Se ne vendiamo abbastanza potremo pagare dei chirurghi per farti diventare bella. Non che tu non lo sia già» un sogghigno si disegna sulle sue labbra mentre vomita quella bugia. Non è difficile capire quello che immagina: una di quelle ragazze in vestiti attillati che il mostro, di tanto in tanto, incontra alla televisione. Spesso cambia canale. A volte rimane a fissarle per una decina di minuti. Nel profondo, quelle donnine la disgustano profondamente. Ipocrita.

«Cosa ne pensi?»

Il mostro si guarda attorno con espressione vacua. Non ci sono specchi nel suo carro, non sopporterebbe di vedersi in viso; però noi siamo costretti a vederla in continuazione, spettacolo dopo spettacolo, ed è un po’ come se si vedesse anche lei da fuori. Sa com’è la sua pelle, i suoi denti, i capelli. Sa che è una creatura strana, inquietante. Un bambino portato dalle streghe.

Non risponde subito. Si accosta prima al tavolo e prende il disegno che ha appena fatto. Indica lo scarabocchio a destra, quello con gli orecchini. Indica le due palle gialle con i tre capovolti al posto della bocca. La fronte del direttore si corruga. Quando comprende si appiana, e così il suo sorriso.



«Ancora lui? Andiamo. Non fare la bambina» borbotta scuotendo la testa. «Il tuo spettacolo rimane il più bello anche senza di lui. Dovresti essere felice». Sì, sarebbe dovuto esserlo. Lui era sempre stato un peso, una coreografia inutile, eccessiva. I suoi movimenti non facevano altro che distrarci dalla canzone. Anche quando la prendeva in braccio e la sollevava lanciandola in aria, su, in alto, quasi fino al tendone come un angelo sgraziato lui non era altro che un contorno insipido.

Il mostro scuote la testa. Schiude le labbra.

«Dov’è?» gracchia, qualcosa di completamente diverso dal suo canto. Lo fa apposta, ovviamente.

«Che cosa vuoi che ne sappia? Forse lo sa Gabriela. Che se ne è andata via con lui». Una smorfia si dipinge sul volto del direttore. Il suo buon umore sta svanendo, il mostro sta giocando col fuoco. Non è uno spettacolo divertente. Quando il leone salta nel cerchio infuocato, si sa che non si brucerà la criniera.

Non è altrettanto entusiasmante sapere che invece si scotterà.

Ma la creatura non è contenta. Abbassa lo sguardo. Forse tenta di ricordare gli ultimi istanti assieme, quando lui le ha portato un gelato, un cono avvolto nella carta, e l’aveva mangiato assieme a lei, sedute vicino al recinto degli animali. La puzza non dava fastidio a nessuno dei due. Prima che se ne andasse, lui dormiva nello stesso carro del mostro in una brandina messa a terra.

«Gabriela ha detto che sta per avere un bambino. Se sarà una femmina vogliamo chiamarla come te» aveva detto morsicando il proprio. Il mostro aveva sorriso, ma era stato un sorriso triste. Il suo nome non poteva portare fortuna a nessuno. Non era un nome che noi avremmo usato mai.

«Lucia. A me piace» continuò lui. «Nascerà a novembre. Per allora il circo sarà più a nord, forse in Germania. Farà freddo, ma ti piacerà». Tese la mano verso la gabbia. Due cuccioli di leone non più grandi di cani dormicchiavano dietro le sbarre. Avevano appena finito l’addestramento della mattina. Uno di loro aveva una macchia scura vicino all’occhio. Il mostro l’aveva ignorata, così come aveva ignorato quanto tristi fossero gli occhi del ragazzo quel giorno. Lui sfiorò il naso il naso alla bestiola e quella si limitò a sollevare una zampa in un vago segno di fastidio. Lei aveva ridacchiato.

«Non tormentarli» gli aveva detto. Con lui non gracchiava. Forse era quello il motivo per cui lui aveva deciso di non andarsene tanto tempo prima. «Ti mordono».

Lui non aveva ritratto la mano. «Mi trovano simpatico. E poi sono piccoli». Come se lo avesse chiamato il leoncino spalancò un occhio e fece guizzare la lingua, forse più per stanchezza che per affetto. Il mostro rise ancora. Amava così tanto ridere a quel tempo che ci chiediamo dove fosse finito il suo umorismo. Ma dopotutto non ci importa.

Si era chinata anche lei sulla gabbia e il leone le aveva leccato la mano. «Come li chiamiamo?» aveva chiesto il ragazzo. Lei ci aveva riflettuto per un istante.

«Mimi e Momo» aveva detto. «Mimi la femmina. Momo il maschio». Il ragazzo le aveva passato una mano sul fianco e se l’era portata vicino.

«Qui è meglio che a Sarajevo». Il mostro aveva fatto una smorfia e lo aveva colpito con il gomito sul fianco, piano ma abbastanza forte da farlo sobbalzare.

«Perché devi dire cose tristi?» brontolò. Lui aveva scosso la testa.

«Scusami» aveva borbottato, poi le aveva fatto il solletico finché non erano stati entrambi stanchi e senza fiato, sdraiati sul prato. Almeno, così lei voleva ricordare.



Quello era stato l’ultimo giorno in cui l’aveva visto.

Il mostro aveva smesso di parlare quasi completamente e aveva iniziato a cantare e basta. Una fortuna per noi. Non c’era più niente che la distraesse.



«Allora, ci stai, vero? Non farai la bambina cattiva?» la voce del direttore non è più amichevole. È diventata la sua solita, aspra, strascicata, alimentata sigari e le urla con cui chiama a gran voce le esibizioni. Il mostro si ritrae come una bestia impaurita. Adesso che lo ha fatto arrabbiare si mette sulla difensiva come una codarda per farlo arrabbiare ancora. Non vuole nemmeno starlo ad ascoltare. Vuole rimanere nei suoi sogni, dove lui non l’ha mai lasciata, oppure la sta aspettando, magari pensando a lei ogni giorno. “Il bambino nasce a novembre”. Spera forse che la porti al letto di ospedale di Gabriela, la bellissima Gabriela dai capelli d’oro e le labbra simili a lamponi, le faccia a vedere il suo sgorbio e gli dica «questo orrore è tua zia»?



Ma nonostante la paura lei non accetterà. No, non per vanità o capriccio, non perché ha paura del successo. Semplicemente perché, in questo tempo di dischi, di film e televisioni, lei ha bisogno di noi. Lei canta per noi, solo per noi, ogni sera che ci vede seduti sugli spalti, noi a deriderla credendoci normali, lei piegandosi dalla vergogna sapendo di essere un mostro. Lei ci odia, lei ci vorrebbe morti, ma la sua voce è solo nostra.

È il suo incubo.

È il nostro, di incubo. Perché non desideriamo altro.



Il direttore solleva la mano stringendola a pugno, poi la riabbassa. Il mostro si ritrae ancora.

«Belle, ti prego. È tutta la vita che aspetto qualcosa di simile. È da quando quei due leoni sono morti che non è andato tutto a puttane solo grazie a te. Lo sai quanto cazzo costa portare qui quegli animali?». Alza di nuovo la voce, poi prende un respiro profondo. «Non ti voglio costringere. Però le cose non stanno andando bene. Potrebbero esserci problemi, se non accetti. Potrebbe sparire la televisione, l’acqua. Potrebbero non esserci più pastelli». Il mostro stringe le labbra. Perdere i colori, l’acqua per lavarsi, il suo unico affaccio sul mondo. Sa bene che i due spiccioli risparmiati su quelle cose di certo non serviranno a qualcosa. È sciocca, ma non così tanto. Eppure sa che il direttore sarebbe capace di toglierle tutto. Lo ha già fatto e lei non si è mai ribellata. Non ha alzato un dito, né la voce, né ha provato a scappare quando suo figlio si era dimenticato di serrare la porta. Lei non è una bestia in gabbia. Gli animali scappano quando trovano le sbarre aperte. È qualcosa di meno.

Cosa prova per quella gente, quei buffoni? Affetto, amore? Sì, forse per Alessander e Mara ne prova in mezzo all’ammirazione per i loro corpi in grado di piroettare in aria meglio di quanto facesse suo fratello; anche Pirot le è simpatico, e il suo costume da pagliaccio colorato lo trova molto bello. Non sono affetti ricambiati, tuttavia. Nessuno la vede mai se non negli spettacoli, da quando se n’era andato il fratello. Anche per loro lei è il mostro. Per tutto il mondo, lo è. Solo per sé stessa non è tale.

E per noi, quando abbiamo finito le lattine da lanciarle addosso e lei finalmente trova il coraggio di cantare.



«Fai come vuoi. Trova il tempo per pensarci. E goditi i tuoi pastelli» grugnisce il direttore. Apre la porta senza lanciarsi un’occhiata alle spalle e se la sbatte dietro. Il mostro sobbalza. Di nuovo pizzicore agli occhi. Posa il disegno sul tavolino, poi si siede con le ginocchia che le tremano e si prende la testa fra le mani. Guarda in silenzio il disegno in cui ha ritratto in uno scarabocchio il fratello, passando la mano su di lui e sui due leoni. Alla fine erano morti, a quanto pare. Il direttore è così bravo a far apparire e sparire animali che non se ne era mai accorta. Si prende un labbro fra i denti. I mostri non piangono, quante volte dobbiamo ripeterlo?



La sua testa comincia a ciondolare appena, poi si reclina lentamente sul foglio. Apre la bocca in uno sbadiglio, i denti strusciano fra di loro e le pizzicano la bocca, ma ormai ci è abituata. Una bambina delle streghe, mandata per rovinare le vite. Prima quella dei suoi genitori, costretti a vedere il suo corpo crescere sempre più deforme e storto ogni giorno che passava, poi quella del fratello, che ha attraversato i boschi mentre alle spalle risuonavano i motori degli aerei e le bombe. Infine quella del direttore. Forse vorrebbe uccidersi, ma noi non glielo permetteremmo.

Non possiamo andarcene, dobbiamo seguirla e lei insegue noi. Saremo con lei a ogni spettacolo, a ogni esibizione, a ogni canto, a guardare prima la nebbia viola e poi il faro giallo accecarci. Qualcuno di noi si solleverà e le griderà: “alzati, schifosa bestia da circo”. E lei inizierà a cantare.

Lei vivrà e morirà così e noi con lei. Non esiste un pubblico senza il suo mostro da pizzicare coi bastoni.



Qualcosa arriva di questi pensieri alla creatura, ma non ne pare turbata. Serra gli occhi, li stringe, li rilassa. Dopo qualche secondo già dorme, e noi con lei, ciascuno nelle nostre case in parti diverse della sua mente.

L’incubo più grande è essere una parte di lei.
 
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view post Posted on 31/7/2015, 15:20
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"No more let Life divide what Death can join Together".
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CITAZIONE
A due anni dalla loro nascita riscopro queste piccolezze con una certa commozione. L'aver senso non è mai stato il mio forte, ma spero che quanto scritto possa comunque donare dei buoni attimi.

Mattina : la luce entra dalla mia finestra.
Lontano il mare chiaro già mostra le bianche vele delle barche.
Ali d'acqua ha la libertà del marinaio.

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Calmo, lento, dolce : il giorno torna alla sua fine,
l'odore autunnale si sposa con le nubi di cristallo.
Canta il cielo rosa con voce di rondine.

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Paura.
Il buio riflette l'anima, una corona di spine che ferma la luce del giorno.
Profondo l'inganno, profonda la menzogna di chi vive accanto.
Gli occhi si chiudono sul male.
 
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