| Alb†raum |
| | Racconto che ho scritto per Lokee qualche mese fa. È fortemente ispirato alla canzone Circus Monster di Circus-P, ma la storia è mia invenzione. Enjoy it. Le luci sfarfallano, poi si spengono. Il nostro vociare si affievolisce, poi scompare del tutto e nel tendone piomba un silenzio di mormorii e sussurri. Nell’aria rimane solo il caldo umido dei nostri fiati e l’odore del popcorn mescolato a quello degli escrementi degli animali. Un sorriso teso si disegna sulle nostre labbra. Alcuni di noi non sanno cosa stia per accadere. Quelli si tengono una mano nell’altra, divertiti, oppure sbocconcellano i rimasugli dei loro sacchetti di semi di girasole fritti, ungendosi le dita di olio e sale. Si chiedono cos’altro potrebbe sorprenderli dopo aver visto donne e uomini librarsi in aria come uccelli, tigri miagolare come gattini e scimmie giocare a carte. Un certo numero aspetta soltanto che il direttore si faccia avanti per dichiarare la fine dello spettacolo mentre i loro mocciosi si agitano per l’oscurità improvvisa.
Quelli che sanno cosa sta per accadere hanno sopportato pazientemente tutte quelle sciocchezze per arrivare a questo momento. Quante volte l’abbiamo vissuto? Cento, mille volte? Sentiamo la stessa eccitazione della prima volta, gli stessi movimenti viscerali. Accavalliamo le gambe, irrequieti. Alcuni si lanciano occhiate d’intesa, ma la maggior parte di noi non si muove: non riusciamo neppure a distogliere lo sguardo.
Una serie di piccoli fari si accende di una luce violacea e soffusa. Il fumo a ghiaccio secco sibila nell’aria riempiendo la pista di una sottile nebbia. C’è una figura al centro, una sagoma appena distinguibile. Una luce in alto si accende con un “clack” improvviso, carico di quell’inutile drammaticità che piace tanto al direttore. In mezzo agli spettri di vapore si disegna un cerchio bianco.
Ed eccola lì. Il mostro.
Tiene la testa abbassata, vergognosa del vociare che inizia a percorrere gli spalti. Sono mormorii indignati, spaventati e divertiti. Qualcuno fischia. Un ragazzo si solleva e fa cenno alla sua morosa di seguirlo.
«Che porcata» mormora facendo scivolare le braccia nelle maniche della giacca. Briciole scivolano giù dal tessuto impermeabile. «Miserabili, stronzi. Fanno spettacolo di… quella cosa lì». La ragazza lo segue, pallida, spingendo da parte i sacchetti di carta dei loro panini. Nessuno dei due riesce a evitare di lanciare una nuova occhiata alla creatura al centro della pista, per poi distoglierla stringendo le labbra con vergogna. Noi li osserviamo andarsene continuando a sorridere. Non hanno capito, non hanno capito assolutamente nulla. Ogni sera c’è qualcuno che si crede tanto intelligente e sensibile da non poter sopportare lo spettacolo. Non arrivano mai alla porta di uscita.
Il mostro non solleva gli occhi. Le tre dita che ha per ogni mano sono intrecciate strettamente fra di loro, come fa ogni volta che inizia uno spettacolo. Le ciocche di capelli rossi che le crescono rade in testa le cadono sul viso. Nascondono appena i lineamenti sgraziati, le orbite troppo piccole, la bocca dai denti sporgenti e deformi, zanne di cinghiale. Alcune bozze simili a piccoli corni le fuoriescono dalla fronte. Il vestito rosa che indossa la rende simile a una bambola versata male nello stampo piuttosto che a una persona.
«Spogliati!» grida uno di noi. Una lattina cade sul tappeto della pista e rimbalza un paio di volte prima di fermarsi contro una parete. Un’altra colpisce poco lontano dal piede della creatura, che sobbalza appena.
«Fai schifo!» strilla un altro. Il mostro non alza lo sguardo. Non piange. Incrocia le braccia e si ingobbisce ancora, mostrando la curva storta della schiena. Alcuni di noi schioccano la lingua con disprezzo. Cosa sta aspettando? Crede che abbiamo tutta la sera per vederla contorcersi? Crede di essere una modella, di doversi mettere in mostra? Siamo venuti per una sola ragione. Apri la fottuta bocca, mostro.
La apre.
Canta. Se l’oscurità di poco prima ci aveva zittito, la voce ci spegne. Quelli di noi che si erano sollevati ora crollano seduti e quelli che si erano apprestati all’uscita per andarsene si voltano per capire da dove provenga il suono. Tutti gli sguardi che prima erano riluttanti a guardarla ora sono puntati su di lei, il mostro, che solleva la testa e mette in mostra il proprio viso ripugnante mentre con quelle sue fauci da cinghiale spalancate continua a emettere quel suono che pare non appartenerle.
In quest’epoca di radio e televisioni è facile sentire qualcuno cantare. È una cosa comune. Dischi, pubblicità, film, tutti contengono canzoni. Non sono motivo di stupore o meraviglia, al massimo di emozione, qualcosa che si muove nel cuore e lo scalda, ma niente di più.
La voce del mostro invece muove l’anima. Non è come le altre, non è un semplice strumento che segue delle note. È una madre che ci culla con amore fra le sue braccia. Ognuno di noi, nel profondo, si sente di nuovo bambino. Uno di noi, un uomo con accanto due mocciosi, si porta le mani al viso e piange.
«Non… non è giusto» mormora fra i singhiozzi. Si piega come poco prima aveva fatto il mostro, con vergogna, ma nessuno lo sta notando. I bambini tengono gli occhioni spalancati e non emettono un suono.
Il mostro spalanca le braccia, il suo canto aumenta di tono. Non c’è più odore nel tendone, non c’è neppure più un tendone, o luce, o oscurità, o le sue membra malformate. Dentro di noi sentiamo pulsare ogni nostra vena, arteria, capillare al ritmo della musica. Il nostro corpo è leggero e pare sospeso in aria, a librarsi nella nebbia violacea, non più composta da fantasmi bensì di nuvole al tramonto. Vorremmo che non finisse mai.
Il mostro serra le labbra. Il risveglio è brusco, doloroso. Uno di noi cade a terra. Un altro rigurgita sugli spalti il suo pasto in una melma giallastra. Il frignare dei bambini percorre gli spalti e una donna abbraccia il proprio figlio e si unisce a lui affondando il viso sulla sua spalla. Nessuno applaude. Nessuno di noi è pronto o ha desiderio per farlo. Le nostre mani tremano ancora e quel tremito ci piace.
Il mostro afferra i lembi del vestito e abbozza un inchino. Si volta e a passi svelti percorre il corridoio per uscire di scena. La luce bianca si spegne, le luci colorate la seguono.
Noi andiamo dietro al mostro.
Lei sa che siamo con lei. Noi siamo sempre assieme a lei. Si potrebbe dire che siamo un’ombra, ma sarebbe sbagliato. Lei non può vederci. Lei sa che esistiamo, sa che non ci separiamo mai. Anche ora che attraversa lo spiazzo in cui sono stati disposti i carri degli artisti fa attenzione a non inciampare nei tacchi delle scarpette che è costretta a indossare. Non vuole che le ridiamo alle spalle. Ci detesta.
Il camper del direttore è quello più lontano dalle gabbie degli animali, e quindi il più distante possibile dal tendone. Il mostro arranca in quella direzione un passo alla volta, tenendosi sollevato il vestito in cerca di equilibrio. La luce dei lampioni la illumina in una pallida parodia del faro del palcoscenico. Il suo grugno è contorto in una smorfia frustrata. Sogghignamo appena. È patetica, stupida. Non lo sa che potrebbe togliersele quelle scarpette, ora che non c’è nessuno che la guarda? Le sono scomode, strette. I suoi piedi non sono fatti per indossare scarpe, il suo corpo non è fatto per indossare alcunché. Dovrebbe piantarla di fare finta che sia così.
Sale la scaletta che precede l’entrata e bussa alla porta di plastica una, due volte. Dietro le tende si accende una luce. C’è un rumore di passi. Il camper è grande, molto più grande della miserabile casetta in cui era vissuta prima. Si sporge per scrutare lo spiraglio di soggiorno che si intravede dalla finestra, ma subito la porta si apre ed è costretta a voltare la testa di scatto.
«Ah. Sei tu» mormora il ragazzo sulla soglia con uno sbadiglio. Il mostro non risponde. Si limita a guardarlo, forse a chiedersi cosa vuol dire poter sbadigliare senza sentire tutte le ossa del viso scricchiolare e i denti strisciare uno contro l’altro. Il ragazzo mette una mano nella tasca ed estrae un mazzo di chiavi tintinnante.
«Hai già finito?» domanda con sguardo perplesso, reso ancora più fesso da quei suoi capelli tinti di verde. Domanda idiota. Perché pensa che fosse lì? Per chiedergli di uscire o voler scappare? Il mostro annuisce, mansueto. Il ragazzo scansa i suoi occhi e i denti storti e le guarda il petto appena accennato, forse in preda a qualche frustrazione non soddisfatta, ma poi distoglie lo sguardo con una smorfia.
«Vieni» grugnisce facendole cenno col braccio. La supera e scende le scale con passi pesanti. Non ha addosso scarpe, solo un paio di calzini neri spessi che sporgono al di sotto dei larghi jeans. Il mostro lo segue, di nuovo cercando equilibrio sopra quegli stupidi tacchi.
«Papà è contento. Ha detto che dopo lo spettacolo vuole parlarti» dice il giovane uomo portandosi meccanicamente una mano verso il naso mentre l’odore delle stalle si fa sempre più intenso. «Ormai le persone ci seguono per venire a sentirti cantare, lo sai?». Sorride, ma non vi è nulla di caldo in quel sorriso. Il mostro non risponde. Si limita ad annuire ancora. Almeno possiede abbastanza dignità di tacere.
Il ragazzo solleva le sopracciglia, poi sospira tornando a guardare la strada in silenzio, finalmente comprendendo che con lei sprecava solo fiato. Arrivano di fronte a un piccolo carro dipinto di rosa, il più vicino alle gabbie degli animali. Qui la puzza è insopportabile. Il ragazzo si tiene tappato il naso mentre apre la serratura della porta. Forse si chiede come faccia la creatura a sopportare quell’aria tutti i giorni, forse no, perché dopotutto lei non è che un animale come quelli che vivono rinchiusi nelle sbarre. L’unica vera differenza è che la sua gabbia è più piccola. Al mostro tuttavia non dispiace e dentro di sé riesce a chiamarla “casa”.
«Ecco. Se ci sono problemi, usa il campanello» mormora spalancandole la porta. Quando il mostro entra il ragazzo le chiude a chiave la porta. Non c’è una serratura o una maniglia all’interno. Non sarebbe una gabbia.
Il mostro porta una mano all’interruttore e lo schiaccia. Una lampadina si accende sul soffitto. L’ambiente è angusto. Al centro della stanza c’è un tavolino con accostata una sedia. Sopra al tavolino, una manciata di mozziconi di pastelli e un disegno non completato. Dietro, un letto disfatto dalle coperte rosa, quel colore che lei ama tanto e che la fa sentire la donna che non è, con accanto un lavello sporco. Più sporco del resto, almeno: tutto è coperto da polvere e briciole e le coperte odorano di sudore. Adrian, lo stalliere, non era passato a pulire, come sempre. Ormai lei è qualcosa di inferiore a una bestia. Se ne rende almeno conto?
Il mostro si volta. Scruta nel vuoto, tenta di trovarci, magari nascosti dietro il termosifone oppure dietro la porta del bagno. Forse ha sentito qualcosa, una presenza alle spalle, un suono, forse ha capito che pensavamo a lei come un animale. Abbiamo sempre pensato questo di lei, da quando eravamo sugli spalti la prima volta, a sentirla cantare. Lei ci può vedere solo lì. Tutta la nostra esistenza è attendere che lei canti di nuovo, perché lei non vale nulla, assolutamente nulla.
Con un sospiro si toglie finalmente le scarpe. Stringe le dita dei piedi per stiracchiarle. Sono grosse, gonfie, con unghie irregolari e seghettate. Li struscia nella polvere del pavimento come se si fosse dimenticata come si cammina con grazia e si siede al tavolo. Fissa il disegno che non era riuscita a finire prima dello spettacolo. Non ha il benché minimo talento, sembra il disegno di un bambino che impugna per la prima volta una matita. Sorride, incomprensibilmente contenta, e le zanne si increspano grottescamente in avanti. Ci sono due persone nel disegno, entrambe scarabocchiate con cerchi rosa per la testa e il corpo e con i volti disegnati con puntini neri. La figura a sinistra è bassa. Capelli rossi sono abbozzati in una criniera confusa attorno alla testa. Sorride mentre stringe la mano al secondo personaggio, più alto, con i capelli a spazzola neri e un paio di cerchi gialli ai lati del viso, forse orecchini. Il mostro lo accarezza con la mano destra, con le tre dita storte che si trovava e con quelle due più piccole e mai cresciute, attaccate immobili al palmo e quasi invisibili. Adrian le aveva detto che i bambini deformi li portano le streghe. Rapiscono quelli sani dalle culle per mangiarli e vi lasciano mostri inguardabili perché rovinino la vita alla famiglia. Dopo averlo raccontato lo stalliere aveva spalancato la bocca in un ghigno. Non era una bella vista: molti dei denti gli sono caduti o marciti e in alcuni punti delle gengive si vede biancheggiare l’osso. Il suo viso è cosparso di rughe e piaghe, i suoi occhi sono piccoli e spenti e per coprirli porta sempre un paio di occhiali scuri. Il direttore le aveva detto che si inietta veleno. Il mostro spera che sia così, che sia per questo che dice tutte quelle cattiverie.
Stringe la mano a pugno, forse nel tentativo di scacciare un pensiero. Dopo un istante afferra con la sinistra Il pastello giallo, chiudendolo fra l’indice e il pollice. Ormai è meno di un mozzicone e la pasta oleosa le scivola fra i polpastrelli. Avrebbe dovuto disegnare meno soli e fiori se avesse voluto che si conservasse. Disegna altri due piccoli cerchi gialli a fianco delle due persone. Li riempie passando attorno ai bordi, ma infine decide di riempire scarabocchiando. Aggiunge due triangoli ai lati e due piccole linee che vanno a terra. Con il pastello nero e disegna due occhi per ognuno dei cerchi e un piccolo tre capovolto all’insù come bocca.
Fissa l’immagine per qualche istante, sfregandosi le dita unte sul vestito. Fuori si sente lo scrosciare vigoroso che sancisce il termine dello spettacolo. Una parte del mostro spera che la stiano applaudendo, ma noi non la applaudiamo mai. Per questo lei non è ammessa al saluto finale. Noi pensiamo solo al suo canto, a quel suo bellissimo, inammissibile canto, contando le ore a partire dal termine di uno perché si arrivi all’inizio di quello successivo.
Guarda il disegno e sente pizzicare gli occhi. Non cadono lacrime, i mostri non piangono. Si strofina le palpebre, poi torna a sporcare il foglio. Fa i cespugli con il rosso perché il verde è finito a forza di colorare alberi. Abbozza dei fiorellini viola sul terreno e un tronco spoglio in lontananza. Vorrebbe colorare anche il cielo, ma in quel momento lo scatto della serratura la fa sobbalzare.
«Ciao, Belle. Come stai?» le sorride il direttore nell’entrare, chiamandola per quell’assurdo nome che usa solo lui dopo aver visto troppi cartoni animati. Ha ancora addosso il costume di scena, quella giacca rossa con il panciotto bianco, completo dei baffi finti. Non ha il frustino, questa volta. I muscoli del mostro si rilassano. Lascia andare i pastelli e si solleva in piedi. Il direttore le porge un pacchetto di pastelli nuovi.
«Un piccolo regalo per il tuo successo di stasera. Lo spettacolo dei pagliacci non lo ha guardato nessuno. Stavano ancora piangendo per la tua canzone».
Il mostro afferra il pacchetto accennando a un “grazie” con il capo e lo posa sul tavolo, accanto a quelli già finiti. È raro che parli. Nessuno ne soffre, per questo. Il direttore si guarda attorno e non riesce a trattenere una smorfia schifata. Si sfila i baffi e si passa il polso sopra le labbra. Il suo volto è secco, magro, con le fosse nelle guance nascoste appena dal cerone e dal trucco. Senza i baffi e il cappello assomiglia a un manichino vestito a carnevale. Con lui, però, nessuno aveva sbagliato lo stampo.
«Adrian ha deciso di fare di nuovo il simpatico. Mi dispiace. Gli dovrò parlare. A una vera e propria star non si addice una casa in queste condizioni» ridacchia sottolineando la parola “star”. Si appoggia al muro con un braccio. Il mostro gli lancia un’occhiata distante. È lenta a capire, a quanto pare. C’è una piccola televisione nella stanza che tiene nascosta per evitare che Adrian la rubi di nuovo e la guarda spesso, quando non disegna. Quella parola la conosce, è solo la sua stupida testa che si rifiuta di registrarla.
«Sai, ho invitato allo spettacolo alcune persone interessate a te. Gli sei piaciuta. Vorrebbero fare dei dischi». Il mostro continua a fissarlo. Le budella le si muovono dentro maniera strana, improvvisa. È confusa.
«Hai talento. Se ne vendiamo abbastanza potremo pagare dei chirurghi per farti diventare bella. Non che tu non lo sia già» un sogghigno si disegna sulle sue labbra mentre vomita quella bugia. Non è difficile capire quello che immagina: una di quelle ragazze in vestiti attillati che il mostro, di tanto in tanto, incontra alla televisione. Spesso cambia canale. A volte rimane a fissarle per una decina di minuti. Nel profondo, quelle donnine la disgustano profondamente. Ipocrita.
«Cosa ne pensi?»
Il mostro si guarda attorno con espressione vacua. Non ci sono specchi nel suo carro, non sopporterebbe di vedersi in viso; però noi siamo costretti a vederla in continuazione, spettacolo dopo spettacolo, ed è un po’ come se si vedesse anche lei da fuori. Sa com’è la sua pelle, i suoi denti, i capelli. Sa che è una creatura strana, inquietante. Un bambino portato dalle streghe.
Non risponde subito. Si accosta prima al tavolo e prende il disegno che ha appena fatto. Indica lo scarabocchio a destra, quello con gli orecchini. Indica le due palle gialle con i tre capovolti al posto della bocca. La fronte del direttore si corruga. Quando comprende si appiana, e così il suo sorriso.
«Ancora lui? Andiamo. Non fare la bambina» borbotta scuotendo la testa. «Il tuo spettacolo rimane il più bello anche senza di lui. Dovresti essere felice». Sì, sarebbe dovuto esserlo. Lui era sempre stato un peso, una coreografia inutile, eccessiva. I suoi movimenti non facevano altro che distrarci dalla canzone. Anche quando la prendeva in braccio e la sollevava lanciandola in aria, su, in alto, quasi fino al tendone come un angelo sgraziato lui non era altro che un contorno insipido.
Il mostro scuote la testa. Schiude le labbra.
«Dov’è?» gracchia, qualcosa di completamente diverso dal suo canto. Lo fa apposta, ovviamente.
«Che cosa vuoi che ne sappia? Forse lo sa Gabriela. Che se ne è andata via con lui». Una smorfia si dipinge sul volto del direttore. Il suo buon umore sta svanendo, il mostro sta giocando col fuoco. Non è uno spettacolo divertente. Quando il leone salta nel cerchio infuocato, si sa che non si brucerà la criniera.
Non è altrettanto entusiasmante sapere che invece si scotterà.
Ma la creatura non è contenta. Abbassa lo sguardo. Forse tenta di ricordare gli ultimi istanti assieme, quando lui le ha portato un gelato, un cono avvolto nella carta, e l’aveva mangiato assieme a lei, sedute vicino al recinto degli animali. La puzza non dava fastidio a nessuno dei due. Prima che se ne andasse, lui dormiva nello stesso carro del mostro in una brandina messa a terra.
«Gabriela ha detto che sta per avere un bambino. Se sarà una femmina vogliamo chiamarla come te» aveva detto morsicando il proprio. Il mostro aveva sorriso, ma era stato un sorriso triste. Il suo nome non poteva portare fortuna a nessuno. Non era un nome che noi avremmo usato mai.
«Lucia. A me piace» continuò lui. «Nascerà a novembre. Per allora il circo sarà più a nord, forse in Germania. Farà freddo, ma ti piacerà». Tese la mano verso la gabbia. Due cuccioli di leone non più grandi di cani dormicchiavano dietro le sbarre. Avevano appena finito l’addestramento della mattina. Uno di loro aveva una macchia scura vicino all’occhio. Il mostro l’aveva ignorata, così come aveva ignorato quanto tristi fossero gli occhi del ragazzo quel giorno. Lui sfiorò il naso il naso alla bestiola e quella si limitò a sollevare una zampa in un vago segno di fastidio. Lei aveva ridacchiato.
«Non tormentarli» gli aveva detto. Con lui non gracchiava. Forse era quello il motivo per cui lui aveva deciso di non andarsene tanto tempo prima. «Ti mordono».
Lui non aveva ritratto la mano. «Mi trovano simpatico. E poi sono piccoli». Come se lo avesse chiamato il leoncino spalancò un occhio e fece guizzare la lingua, forse più per stanchezza che per affetto. Il mostro rise ancora. Amava così tanto ridere a quel tempo che ci chiediamo dove fosse finito il suo umorismo. Ma dopotutto non ci importa.
Si era chinata anche lei sulla gabbia e il leone le aveva leccato la mano. «Come li chiamiamo?» aveva chiesto il ragazzo. Lei ci aveva riflettuto per un istante.
«Mimi e Momo» aveva detto. «Mimi la femmina. Momo il maschio». Il ragazzo le aveva passato una mano sul fianco e se l’era portata vicino.
«Qui è meglio che a Sarajevo». Il mostro aveva fatto una smorfia e lo aveva colpito con il gomito sul fianco, piano ma abbastanza forte da farlo sobbalzare.
«Perché devi dire cose tristi?» brontolò. Lui aveva scosso la testa.
«Scusami» aveva borbottato, poi le aveva fatto il solletico finché non erano stati entrambi stanchi e senza fiato, sdraiati sul prato. Almeno, così lei voleva ricordare.
Quello era stato l’ultimo giorno in cui l’aveva visto.
Il mostro aveva smesso di parlare quasi completamente e aveva iniziato a cantare e basta. Una fortuna per noi. Non c’era più niente che la distraesse.
«Allora, ci stai, vero? Non farai la bambina cattiva?» la voce del direttore non è più amichevole. È diventata la sua solita, aspra, strascicata, alimentata sigari e le urla con cui chiama a gran voce le esibizioni. Il mostro si ritrae come una bestia impaurita. Adesso che lo ha fatto arrabbiare si mette sulla difensiva come una codarda per farlo arrabbiare ancora. Non vuole nemmeno starlo ad ascoltare. Vuole rimanere nei suoi sogni, dove lui non l’ha mai lasciata, oppure la sta aspettando, magari pensando a lei ogni giorno. “Il bambino nasce a novembre”. Spera forse che la porti al letto di ospedale di Gabriela, la bellissima Gabriela dai capelli d’oro e le labbra simili a lamponi, le faccia a vedere il suo sgorbio e gli dica «questo orrore è tua zia»?
Ma nonostante la paura lei non accetterà. No, non per vanità o capriccio, non perché ha paura del successo. Semplicemente perché, in questo tempo di dischi, di film e televisioni, lei ha bisogno di noi. Lei canta per noi, solo per noi, ogni sera che ci vede seduti sugli spalti, noi a deriderla credendoci normali, lei piegandosi dalla vergogna sapendo di essere un mostro. Lei ci odia, lei ci vorrebbe morti, ma la sua voce è solo nostra.
È il suo incubo.
È il nostro, di incubo. Perché non desideriamo altro.
Il direttore solleva la mano stringendola a pugno, poi la riabbassa. Il mostro si ritrae ancora.
«Belle, ti prego. È tutta la vita che aspetto qualcosa di simile. È da quando quei due leoni sono morti che non è andato tutto a puttane solo grazie a te. Lo sai quanto cazzo costa portare qui quegli animali?». Alza di nuovo la voce, poi prende un respiro profondo. «Non ti voglio costringere. Però le cose non stanno andando bene. Potrebbero esserci problemi, se non accetti. Potrebbe sparire la televisione, l’acqua. Potrebbero non esserci più pastelli». Il mostro stringe le labbra. Perdere i colori, l’acqua per lavarsi, il suo unico affaccio sul mondo. Sa bene che i due spiccioli risparmiati su quelle cose di certo non serviranno a qualcosa. È sciocca, ma non così tanto. Eppure sa che il direttore sarebbe capace di toglierle tutto. Lo ha già fatto e lei non si è mai ribellata. Non ha alzato un dito, né la voce, né ha provato a scappare quando suo figlio si era dimenticato di serrare la porta. Lei non è una bestia in gabbia. Gli animali scappano quando trovano le sbarre aperte. È qualcosa di meno.
Cosa prova per quella gente, quei buffoni? Affetto, amore? Sì, forse per Alessander e Mara ne prova in mezzo all’ammirazione per i loro corpi in grado di piroettare in aria meglio di quanto facesse suo fratello; anche Pirot le è simpatico, e il suo costume da pagliaccio colorato lo trova molto bello. Non sono affetti ricambiati, tuttavia. Nessuno la vede mai se non negli spettacoli, da quando se n’era andato il fratello. Anche per loro lei è il mostro. Per tutto il mondo, lo è. Solo per sé stessa non è tale.
E per noi, quando abbiamo finito le lattine da lanciarle addosso e lei finalmente trova il coraggio di cantare.
«Fai come vuoi. Trova il tempo per pensarci. E goditi i tuoi pastelli» grugnisce il direttore. Apre la porta senza lanciarsi un’occhiata alle spalle e se la sbatte dietro. Il mostro sobbalza. Di nuovo pizzicore agli occhi. Posa il disegno sul tavolino, poi si siede con le ginocchia che le tremano e si prende la testa fra le mani. Guarda in silenzio il disegno in cui ha ritratto in uno scarabocchio il fratello, passando la mano su di lui e sui due leoni. Alla fine erano morti, a quanto pare. Il direttore è così bravo a far apparire e sparire animali che non se ne era mai accorta. Si prende un labbro fra i denti. I mostri non piangono, quante volte dobbiamo ripeterlo?
La sua testa comincia a ciondolare appena, poi si reclina lentamente sul foglio. Apre la bocca in uno sbadiglio, i denti strusciano fra di loro e le pizzicano la bocca, ma ormai ci è abituata. Una bambina delle streghe, mandata per rovinare le vite. Prima quella dei suoi genitori, costretti a vedere il suo corpo crescere sempre più deforme e storto ogni giorno che passava, poi quella del fratello, che ha attraversato i boschi mentre alle spalle risuonavano i motori degli aerei e le bombe. Infine quella del direttore. Forse vorrebbe uccidersi, ma noi non glielo permetteremmo.
Non possiamo andarcene, dobbiamo seguirla e lei insegue noi. Saremo con lei a ogni spettacolo, a ogni esibizione, a ogni canto, a guardare prima la nebbia viola e poi il faro giallo accecarci. Qualcuno di noi si solleverà e le griderà: “alzati, schifosa bestia da circo”. E lei inizierà a cantare.
Lei vivrà e morirà così e noi con lei. Non esiste un pubblico senza il suo mostro da pizzicare coi bastoni.
Qualcosa arriva di questi pensieri alla creatura, ma non ne pare turbata. Serra gli occhi, li stringe, li rilassa. Dopo qualche secondo già dorme, e noi con lei, ciascuno nelle nostre case in parti diverse della sua mente.
L’incubo più grande è essere una parte di lei. |
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