Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Posts written by H I G

view post Posted: 11/1/2020, 23:08 Confronto - Il Lascito degli Dèi
Non mi resta che dare forfait.

È una decisione forzata, la mia, perché non è sicuramente quello che vorrei. Forzata dalla volontà di dare, agli ultimi post di Levi, il valore inestimabile (quantomeno per me) che si meritano. Ciò non accadrebbe, temo fortemente, seguendo l'evento del forum e i suoi ritmi. Il timore è che la storia che ho in mente per Levi non "fitti" (storpiamento italianizzato dell'inglese to fit, concedetemelo) con la trama dell'evento e ho quindi paura di replicare i pessimi risultati del primo turno di gioco. E questo non lo reputo utile (né per me né tantomeno per voi) né necessario.

Chiedo scusa agli organizzatori dell'evento e ai partecipanti rimanenti. Colgo l'occasione per salutare di cuore tutti voi asgradelliani e per ricordarvi che siete belli belli belli. Vi ringrazio inoltre per i piacevoli giudizi che mi avete dato per il contest. Grazie davvero!

Continuerò a seguire l'evento, chiaramente, ma farò il tifo per i demoni perché secondo me sono creaturine adorabili, dai, sotto sotto.
Se e quando riuscirò spero di poter concludere e postare qua su Asgradel gli ultimi quattro-cinque post della storia di Levi che nella mia testa sono già bell'e pronti ma che necessitano ancora di un po' di tempo per maturare.

Un ultimo saluto.

view post Posted: 21/12/2019, 12:37 Confronto - Il Lascito degli Dèi
Scusate se mi intrometto e svio la questione su una cosa futile ma, dato che sono nabbo e, ahimé, della Vergine, non è che qualche anima pia potrebbe aggiustarmi il titolo del mio ultimo post perché leggerlo così mi fa proprio tanto male al cuoricino.

Vi voglio bene :v:
view post Posted: 20/12/2019, 22:47 Il lascito degli Dèi - C'era una volta il Baathos - GdR
Istruzioni per la lettura: le parti di testo più strette rappresentano delle vicende passate, mentre le parti di testo più larghe rappresentano vicende presenti.

Buona lettura.

1

Il Buono





Eravamo tutti raccolti a tavola. Persino lo scontroso e solitario Seb era tra noi. E rideva (Dio come rideva!), a dispetto del suo freddo carattere, a dispetto della nostra vita, a dispetto di tutto. Rideva come un pazzo. E vedere quel suo volto di pietra rilassarsi e sciogliersi come miele su una fetta di pane abbrustolita mi aveva scosso, in un certo senso. Era la prima volta che lo vedevo felice e il mio cuore, in assoluta autonomia, aveva pertanto deciso di esplodere in brividi eccitati. Quella risata splendente gliela aveva donata mamma e in essa ardeva tutto il suo amore materno.
Le portate non erano state granché, a dire il vero, niente di diverso da quelle di un comune, altro, giorno. Era stato infatti il dolce l'unico elemento chiave per la risoluzione del rebus familiare: il mio settimo compleanno. Era così carico di cioccolato da straripare oltre i bordi del piatto. Sulla faccia superiore Ronald aveva abbozzato, in uno schizzo d'arte improvvisato, una sua personale raffigurazione della mia piccola faccia butterata. Utilizzando tutta la confettura di albicocche rimasta in dispensa, aveva donato ai miei lineamenti contorni grotteschi e distorti che avevano gonfiato il fiume asciutto dell'ironia, inondando le placide rive della consuetudine per un labile istante che era però rimasto conservato dentro i nostri cassetti, curati e ordinati, del mobile dei ricordi indelebili, per l'intera eternità. Tra un singhiozzo e l'altro, annaspando dentro un'umida risata di felicità, avevo giurato a me stesso di proteggere quella famiglia, costi quel che costi, e di lottare per un futuro radioso nel quale poter festeggiare ogni giorno come se fosse quello del mio settimo compleanno. Mi ero morso il labbro inferiore, cercando di arginare le mie più intime emozioni, in un'espressione che aveva però rivelato questo mio desiderio a tutti, incoronando quel pranzo come il momento di maggior unione della nostra famiglia.

«Sammy» E un sorriso caldo.

La voce gutturale di Grace Colt aveva scosso tutto questo, violentando il rito dello spegnimento della candela, in un modo che, in un contesto diverso, avrebbe sicuramente regalato un tocco magico in più a quella splendida giornata, ma che invece aveva finito per assassinare, brutalmente, il nirvana. Un rivolo di bava le era colato dall'angolo della bocca quando una specie di sorriso, più simile ad un ghigno, le era sbocciato sul volto. Poi, in uno spasmo soffocante, la testa le si era reclinata violentemente all'indietro, perdendosi in tremori inquietanti che avevano scosso il pesante sedile di legno dov'era adagiata, minacciando di rovesciarla sul pavimento da un momento all'altro. Versi confusi, nel silenzio assordante della sala. Papà era saltato su di lei, per calmare la crisi convulsiva di sua moglie, dichiarando, senza possibilità di appello, che la festa era purtroppo terminata. Tutti avevamo abbassato lo sguardo, disarmati. Ci eravamo limitati a pregare mentalmente, stringendo con forza i nostri occhi, incapaci di muovere qualsiasi altro muscolo se non quello cardiaco, che annaspava come un disperato alla ricerca di una stabilità emotiva. Ad ogni nuovo mugolio raccapricciante, la foga con la quale serravamo gli occhi si impennava, nella vana speranza che quanto più vigore imprimevamo al nostro sforzo mentale, tanto più velocemente la delicata situazione si sarebbe risolta. E invece il tempo sembrava prendersi gioco di noi: più intensamente pregavamo, più i gemiti di mamma sembravano aumentare.

Le convulsioni erano comparse dopo due mesi dall'incidente. La malattia contro la quale Grace stava combattendo era diventata un tabù e nessuno di noi bambini sapeva più cosa doversi aspettare, nel prossimo domani. Papà non ce ne parlava mai direttamente e sviava le nostre continue domande con abili cambi di discorso. Una volta lo avevo beccato in un angolo freddo della casa, tutto solo, a singhiozzare sottovoce dentro un fazzoletto di stoffa. Una scena che non aveva lasciato spazio ad ulteriori dubbi: "La salute di mamma sta peggiorando a vista d'occhio". Come se non bastasse, da qualche giorno si era aggiunto un nuovo pezzo a quel macabro puzzle che il corpo di Grace aveva deciso di incasellare: la confusione mentale. Mamma aveva iniziato, sempre più spesso, a scambiarmi per suo fratello Samuel, morto quando loro due erano ancora bambini.

Papà prese sua moglie sulle spalle e si chiuse in camera assieme a lei, serrando l'ingresso.
Ogni famiglia ha i propri crucci, che nasconde dietro la porta di una stanza buia.




Il sole era calato oltre il profilo della montagna. Un brivido scosse il mio corpo, liberandosi in una gonfia nuvola di denso calore fuori dalla mia bocca. Come il fumo di un sigaro amaro. Accovacciato contro la nuda roccia della cella, la fronte appoggiata alle ginocchia, mi chiedevo dove cazzo avessi sbagliato.



Dalla cima del promontorio la desolazione si estendeva a perdita d'occhio, fin oltre l'orizzonte. Nessuna montagna, nessun fiume, nessuna accogliente vegetazione. Solo qualche scheletrico arbusto si ergeva qua e là, verso l'alto, come per rispondere timidamente ad un appello fantasma. Arroccati contro le pareti rocciose di dislocate miniere d'oro, i piccoli villaggi facevano capolino tra la polvere, mostrandosi agli occhi di un osservatore attento come pulci fastidiose sul dorso di un malandato cane randagio.
A me piaceva, di tanto in tanto, arrampicarmi su quel promontorio, sedere sui bordi rocciosi della sua sommità e dondolare i piedi avanti e indietro, distrattamente, catapultandomi lontano dal peso opprimente del mondo che voleva divorare il mio essere. Come un prete eremita di un culto incompreso. In quei piacevoli momenti di pausa il mio sguardo si perdeva nel vuoto, annullando i pensieri che, come uno sciame di mosche affamate, punzecchiavano di continuo le pieghe sinuose del mio cervello. Meditazione improvvisata nonché una densa boccata d'aria. Ogni tanto era necessaria, per me come per qualsiasi altro prigioniero di una vita non sua, nel mondo.

Un rumore di passi alle mie spalle mi colse impreparato.
«Grace Colt è morta» Dritto, deciso, senza fronzoli. La sua voce, lenta, era però rotta dall'emozione «Mi dispiace, Levi» I suoi occhi tremolarono, come per voler dar enfasi alla sua affermazione «Dico sul serio».
Tutt'oggi mi chiedo perché non gli sparai, in quel preciso momento. Avrei potuto provarci, quantomeno, e ricordo che ci pensai, per un attimo, di farlo davvero. Ma al successivo ticchettio dell'orologio, rinunciai all'idea. Forse perché consideravo ancora quell'uomo una specie di guida e mi sentivo attratto, nonché appartenente, al suo stesso sogno - anche se non lo condividevo del tutto - ma solo perché io non ero forte abbastanza da lottare per i miei, di sogni. Forse perché lo vedevo come una sorta di timoniere, che seppur inaffidabile, ci avrebbe portato con sé da qualche parte, almeno, e senza il quale ci saremmo persi alla deriva, in mezzo ad un oceano tumultuoso, di notte. E forse perché ancora (speravo) credevo che il gran progetto di quell'uomo avrebbe avuto un minimo di senso, un giorno, e che ci sarebbe stato un qualcosa, alla fine. Per me, per noi. Qualcosa come un nuovo mondo dove tutti gli uomini avrebbero trovato finalmente pace. Questa era l'idea. Credevo che avrebbe potuto salvare tutti noi (capite?), non solo i maledetti schiavi del Far West ma tutti noi piccoli ai quali la società contemporanea aveva tappato la bocca, mentre continuava tranquillamente a brindare, ignorandoci, con i soli pochi fortunati che ce l'avevano fatta. Sì, ero ingenuo e lo sapevo, eppure insistevo a sperare, in fin dei conti, che il sogno di quell'uomo riuscisse davvero ad esaudire tutti i miei desideri, o anche solo credevo che lui mi avrebbe elargito una qualche ricompensa, ora che mamma era morta, o quantomeno che sarebbe sceso di nuovo a patti, elemosinando pietà alla mia coscienza bisognosa.

Lo schiavista si sedette accanto a me. Il suo braccio destro cinse le mie spalle, mentre l'altro piegò la mia testa contro la sua, come a dirmi: "Ci sono qua io adesso, piangi pure". Mi baciò sulla nuca, quel figlio di puttana. E io piansi, certo che lo feci. Restai aggrappato alla sua giacca per un tempo infinito, sputando fuori lacrime aride, che gridavano "Aiuto", da ogni buco fottuto del mio corpo. Perché, cazzo? Ero convinto che il mio sacrificio sarebbe stato inarrestabile, che avrebbe avuto davvero il potere assoluto di salvare mia madre. Perché allora avevo fallito? Nessun errore era stato commesso nello svolgimento di quel mio compito complicato. Tutt'al più qualche rimpianto, è naturale. Almeno quella cazzo di cosa poteva essere andata per il verso giusto, no?! Una volta tanto, non ti chiedo niente di che, Destino, soltanto una cosa. Avrei accettato qualsiasi vita di merda a patto che Grace fosse guarita e con lei la mia famiglia avesse vissuto, felice, tutti i suoi anni rimanenti. Qualsiasi merda di vita! E invece no, il mio sacrificio non era bastato. Vaffanculo! Quel giorno capii, sulla mia pelle, che a quanto pare ci sono battaglie che nessuna persona può vincere.

L'uomo con la tessere rossa era fresco come il Grecale. E dentro quell'angolo di Baathos dove quel bastardo costringeva i suoi (schiavi) sudditi a raccogliere oro in cambio della promessa di una società migliore, quella freschezza era come una benedizione divina. Ossigeno per le mie arterie, che come lebbrosi ai lati della strada chiedevano carità.
«Sono in debito -» (grazie al cazzo) I suoi occhi caddero sui miei, e parvero sinceri «-con te» Ebbe il coraggio di aggiungere.
«Con tutti noi, vorrai dire!» Replicai, spingendolo via. Allargai le braccia verso il panorama, per puntualizzare la mia rabbia e per sottolineare cosa volessi intendere con tutti noi. Lo schiavista abbassò gli occhi, appoggiando la fronte contro i propri palmi. Vidi le sue dita contrarsi, come a mostrare un conflitto interiore irrisolto. Come a dire "Nemmeno io so più cosa cazzo sto facendo".
«Nessuno di loro è come te» Borbottò a malapena, in difesa delle sue dichiarazioni. «Nessuno di loro si è sacrificato per qualcuno che amava» Puntualizzò. La sua voce usciva a fatica in mezzo alle pieghe delle sue mani «Per sua madre» In un colpo di tosse, il giudice proclamò la sua colpevolezza.
Mi alzai in piedi e sentii lacrime amare affiorare ancora. Non volevo mostrarmi debole, non di nuovo, quindi mi morsi il labbro, frenandole. «Rose è nata qua» Trovai nella ragazza, che amavo, un motivo di orgoglio che riuscì a farmi fronteggiare l'uomo con la tessere rossa. «Anche lei è diversa dagli altri, allora» La mia voce stava gonfiando, senza che me ne accorgessi. «Non ha mai stretto alcun patto con te!» Lo schiaffeggiai sonoramente.
In quel duro colpo lo schiavista ritrovò la sua lucidità e la sua risolutezza. Ruotò la punta graffiata del suo naso verso di me, deciso a fronteggiare l'offensiva. Il suo sguardo balenava lampi di quella che mi era parsa rabbia, lì per lì, ma che, col senno del poi avrei invece definito un'incolmabile invidia. Quegli occhi sembravano urlarmi, a pieni polmoni, "Non provarci nemmeno!". E invece lo feci. «Sei in debito anche con lei!» Sputai sul tavolo tutte le carte della mia mano, in un all-in in cui o si vede o si muore.
Lo schiavista si alzò in piedi, superando di mezza stazza la mia giovane altezza. Gonfiò il petto e puntò il dito contro la mia fronte. «Se è così che la metti» La voce dell'uomo era tornata ad essere la sua voce: biascicata, senza alcuna traccia di accoglienza «Cento vite per la libertà delle vostre due» Un patto del cazzo che sarebbe servito a nient'altro che a ripulire la sua coscienza. Non ci fu possibilità di appello a quell'ordine, se non con la morte mia e della mia amata. Che avrei, indubbiamente, evitato di pagare.

Ogni sogno di rivoluzione ha i propri spigoli oscuri, celati dietro una maschera sgretolata.




Dalla tasca tirai fuori la pallottola. Il sangue rappreso macchiava ancora il piombo, esattamente come l'ultima volta che l'avevo stretta nella mano. Battei il pugno contro il cuore. Non solo per le tre volte che lo avevo visto fare a Lee, prima di morire, ma per un numero indefinito. Piangevo. Un uomo anziano che piangeva e che si vergognava di se stesso.



Alle mie spalle, violenti colpi di tosse canina mi richiamarono sull'attenti. Tolsi la mano dalla lapide in un guizzo d'istinto, rapido come una faina. L'ultima cosa che desideravo era far capire la mia vera identità al vecchio signore. Richard era dietro di me, chissà da quanto tempo, distante solo qualche metro, piegato su se stesso a sputare sangue dentro un fazzoletto di stoffa scura. Sperai, con tutto il mio cuore, di non essermi fatto scoprire. Col senno del poi, commettere l'errore, sicuramente irrinunciabile - questo è vero - ma pur sempre un errore, di fare un salto al cimitero quel pomeriggio era stato decisamente un piano da perfetto idiota. Avrei avuto tempo, più avanti, per visitarlo con tutta la calma del mondo. Ma non avevo resistito.
I fiocchi di neve cadevano inesorabili, in una loro, silenziosa, condanna alla quale nessuno poteva porre rimedio né tantomeno sottrarvisi. Ecco come il vecchio era riuscito a prendermi alla sprovvista: muovendosi di soppiatto sulla neve. Gli occhi stanchi di Richard fissarono per un istante la tomba di sua moglie, ai miei piedi. Quella era solo un'anonima sepoltura in mezzo a decine di tante altre, là in mezzo, ma che spiccava nettamente, nel gregge di pecore smarrite, per un suo fattore estetico oggettivo: la mancanza di affetto dei suoi cari. Era impossibile non notarlo. Ricoperta quasi per intero dal cumulo di neve, non c'era alcun fiore a decorare gli angoli smussi e freddi della lapide di pietra. Come una sorta di rimprovero, quella visione ferì gli occhi appannati del vecchio, il cui sguardo colpevole cercò riparo nel mio, rifugiandovisi per una pausa più lunga del previsto e soccombendo sotto tutta la pressante vergogna di una vita oramai agli sgoccioli. I lineamenti del suo viso si contrassero e l'anziano signore sembrò implorare per un mio perdono.
Nuovi colpi di tosse lo distrassero e io ripresi fiato, dopo quel lungo attimo di tensione che si era creato. Non più abituato a quella rigida temperatura - non che l'avessi mai sopportata, in realtà - il calore del mio corpo era condensato in un fitto lembo di sudore umido, celato da due strati di abiti di lana e da una pesante pelliccia. Spostai il baricentro del mio corpo in avanti, costringendo le gambe congelate a muovere passi incrostati verso l'uomo anziano inceppato nella sua tosse stizzosa. Cercai di aiutarlo, per quanto mi fosse possibile, massaggiandogli il dorso e accompagnandolo verso casa, stringendomelo forte al petto.

Sorseggiava acqua calda con una spruzzata di fiori di camomilla, sulla sua seggiola a dondolo, stringendo la tazza con ambedue le mani. I suoi occhi erano fissi alla parete, confinati entro la cornice di un dipinto sbiadito, oggetto di ridondanti racconti quotidiani. Mi sedetti accanto a lui, di fronte al camino acceso, aspettando la dose giornaliera di storie sulla sua vita. Lo vidi sorseggiare ancora la brodaglia e gettare il boccone insipido in fondo alla gola senza alcun amore.
«Schifo» Imprecò sotto voce.
Mi scappò un sorriso e il vecchio mi seguì di rimando, mostrando al mondo la sua risata sdentata. Quello sarebbe stato un ottimo preludio dal quale iniziare una buona storia. Tanto discreto da pensare che il racconto non sarebbe tardato ad arrivare, giusto questioni di attimi. E invece Richard prese più tempo di quello che avevo previsto, prima di aprir bocca, così tanto da strozzare quell'incipit maestoso fino a farlo diventare un'atmosfera tesa e tagliente, esattamente come quella di poc'anzi al cimitero. I suoi lineamenti si indurirono di nuovo e il suo sguardo scivolò a terra.
«Se ne sono andati tutti -» Tossì «-dopo che lei è morta» Altro sorso di brodaglia, ennesima smorfia di disgusto. Nessun sorriso però, questa volta, né da parte sua né da parte mia. «Mi hanno fatto sentire in colpa»
Il racconto di oggi, strano ma vero, mi stava emozionando. I battiti del mio cuore stavano accelerando e, a dispetto del freddo della stanza, stavo iniziando a sudare. Non ero però del tutto sicuro di volerla sentire, in realtà, quella storia.
«È stato come avermi rinfacciato che la mamma sia morta a causa mia» Una raffica di tosse lo interruppe bruscamente e io mi ritrovai a sperare, con tutto il cuore, che fosse arrivato il termine, almeno per il momento, di quel racconto del cazzo. «Schifo» Brontolò ad una nuova sorsata.
Il vecchio appoggiò la testa contro lo schienale della sedia e si lasciò cullare dal rilassante dondolio cigolante per un tempo tanto lungo da aver temuto che si sarebbe addormentato. Quando sentii il suo respiro farsi più profondo e la sedia rallentare il suo andirivieni, immaginando che da lì a breve si sarebbe perso veramente nei suoi sogni, e con lui il suo racconto, mi lanciai verso Richard, accorgendomi, in quel gesto, che in realtà la mia curiosità bramava quella storia più di quanto io stesso ero disposto a giurare e più di quanto il mio cervello sarebbe probabilmente riuscito a sopportare.
«Dove sono i tuoi figli adesso?» Chiesi sottovoce, guardandolo di traverso.
Richard si scosse in un brivido che lo richiamò nel mondo dei veglianti, assieme alla sua maledetta tosse canina. Quando si riprese, e dopo essersi asciugato la bocca col fazzoletto di stoffa, posò in fretta la tazza sulla tavola, bestemmiando sommessamente. «E chi ha più avuto notizie di loro?!»
Trasse un profondo sospiro «E chi ha più voluto aver notizie di loro?!» Si corresse, giustamente, chiedendo scusa in un umile, anche se troppo affrettato, gesto delle mani.

«Ho commesso un atto vergognoso, come padre, nella mia vita»
L'ombra dei suoi occhi si incupì.
«Un atto che mi vergogno persino a raccontare»


«Io credo una cosa» Proferì dopo una lunga pausa di riflessione «Credo che non esista uomo che non si vergogni almeno un po' di se stesso» Richard Morrison chinò il capo verso il basso, a seguire le sue dita giocherellare distrattamente con i bottoni della giacca «Ma è una regola intrinseca del buon rapporto tra le persone comuni, fingere che non sia così. Nessuno dovrebbe avere la presunzione di rinfacciare gli errori ad un uomo, perché -» Il signore anziano, il cui nome svettava sulla cima della lista nera che lo Schiavista mi aveva gentilmente relegato, mi scavò negli occhi e, ve lo potrei giurare di fronte a Dio, il suo sguardo fu cristallino nel comunicarmi ciò che premevo di non sentirmi mai dire da lui: "Levi, figlio mio. Perdonami, almeno tu, se puoi. Perché -".

«-ognuno di noi ha un branco di demoni rinchiusi nelle profondità più oscure del proprio cuore»
E io penso di averlo fatto, di aver redento, dopotutto, i suoi peccati.



Mio padre perì di morte naturale qualche settimana dopo, se proprio vi interessa. Io gli rimasi al fianco fino alla fine, accudendolo quel tanto che bastò per prendere sufficiente al compito di "figliologia". Non ci fu mai altra occasione di parlare della nostra famiglia né di capire se veramente avesse compreso chi fossi in realtà. Né tantomeno ci fu mai occasione di parlare del sacrificio al quale quell'uomo mi aveva condannato, al posto suo, quando non avevo ancora compiuto nove anni. Ma nemmeno ritenevo che ce ne sarebbe stato bisogno. Come ho sempre ripetuto a me stesso, era stato un sacrificio che io avevo accettato. Ed era la verità. Mi andava bene così.
Prima di lasciare, per la seconda e ultima volta, quella casa, feci un ultimo salto a salutare mamma. Là, sopra il cumulo di neve che si era ammucchiato in quei lunghi giorni invernali che avevo trascorso, in incognita, con papà, piantai una rosa, tanto rossa da abbagliare gli occhi, in un netto contrasto col pallore del campo santo, a farle compagnia.



«Quest'aria triste ti si addice»
Un uomo alto con capelli corvini e abiti scuri mi stava fissando, appoggiato alle inferriate della cella. Mi asciugai il naso con un gesto rapido del braccio. Non mi scomposi più di tanto perché non era la prima volta che qualcuno mi coglieva in flagrante, a piangere disperato. In un'altra occasione, in un passato lontano, una piccola creaturina mi aveva teso un agguato in una situazione analoga, strattonandomi lo spolverino e richiamandomi alla realtà in uno dei momenti più bui della mia vita.



«Sei un pistolero, signore?»

La bambina non poteva avere più di cinque anni. I capelli paglierini le ricadevano su una spalla, raccolti in un fiocco di seta dorata. Soffici lentiggini le coronavano gli zigomi, come macchie di caffè saporito, incorniciando un paio d'occhi di cristallo. L'unico difetto a rendere credibile la visione altrimenti onirica della bambina era lo spazio tra i suoi incisivi, più ampio del normale, che faceva del suo sorriso un qualcosa di fiabesco.
Mi arrampicai sulle braccia, facendo perno sulla parete di nuda roccia contro la quale mi ero addormentato, chissà quante ore prima. Ma una fitta lancinante di dolore rese vano lo sforzo. Scivolai di nuovo a terra, sbattendo violentemente la nuca contro l'acciottolato, mordendomi la lingua. Soffocai una pesante imprecazione, attanagliandola tra i denti. Una nuova ondata di lacrime affiorò nella già limitata apertura dei miei occhi gonfi, rendendo ancor più deprimente il mio volto tumefatto. La mia testa martellava come le campane di una chiesa in una domenica di festa. Quando tossii, ogni punto del mio corpo, preso di mira dagli abitanti di Nass durante le botte dei giorni addietro, echeggiò in una protesta pungente.

«Vattene»

Non avevo alcun risentimento nei suoi confronti - né in nessun'altro, in realtà - e un po' mi dispiacque tutta l'acidità che avevo impresso nelle mie parole. In ogni caso, la bambina non sembrò turbarsene minimamente. Dopo un flebile attimo di titubanza si inginocchiò accanto a me, ravvivandosi i capelli che le erano caduti negli occhi. Indossava vesti sgrendinate, la cui fattura non lasciava dubbi in merito a dove fossero state ricamate. Dove, se non nella desolazione delle terre di Nass?! Eppure, acconciate in quel modo impeccabile le donavano un aspetto carino, ordinato ed elegante. Sembrava proprio una principessa delle favole. Nelle sue mani, la dolce creaturina stringeva un cesto di vimini che agitava con impazienza. Lo avvicinò al mio fianco e, dal suo interno, ne tirò fuori un pezzo di pane raffermo. Me lo porse.

«Hai fame, signore?»

In effetti la risposta sarebbe stata sì, in circostanze diverse. Non allora, però. Avevo perso il conto dei giorni che erano susseguiti da quando ero tornato, clandestinamente, nel Far West, disobbedendo agli ordini dello Schiavista. E l'ultima volta che avevo avuto il piacere di mettere qualcosa sotto i denti era stata la mattina precedente al mio arrivo al villaggio. Prima che il mio cuore avesse smesso di battere, esplodendo come dinamite e schizzando via gli ultimi rimasugli di speranza dal mio spirito ribelle. Gli abitanti del villaggio avevano poi pensato al resto, accanendosi contro di me e punendomi per un delitto che credevano avessi commesso ma che in realtà non solo mi trovava innocente ma del quale avrei fatto volentieri a meno persino nei miei incubi peggiori. Perciò non mi sembrava il caso di accettare quel pezzo di pane raffermo, dopotutto, e rifiutarlo, seppur scortese che fosse, mi pareva un mio sacrosanto diritto. A quel diniego, però, com'era da aspettarselo, la bambina piegò le labbra all'ingiù in un'inequivocabile smorfia di disapprovazione. La sua pelle si colorì e tutta la sua faccia si plasmò in un presagio di lacrime imminenti. E (dannazione!) non avevo certo tempo per star dietro al frigno di una bambina. Così cedetti, prendendo finalmente quel cazzo di pane e masticandone un piccolo pezzo. Sentii il mio cervello rigettare il boccone e il mio stomaco chiederne ancora. Decisi di accontentare il secondo, finendo il vitto in un lampo.

«Dove sono i tuoi genitori?» Le chiesi. Ma la bambina aveva altro a cui pensare. Rovistò nella sua bella cesta di vimini e mi allungò un'altra fetta di pane raffermo. Sembrava toccare il cielo con un dito, adesso. Così questa volta lo accettai senza troppi complimenti.
«Mio nonno abita in fondo alla strada» Indicò i profili di una capanna persi nel buio della notte che non riuscii ad intravedere «Laggiù»
«Sai, lui mi crede. Dice che non sei stato tu a uccidere la mamma» Lo disse con la naturalità tipica dei bambini, senza dosare minimamente il peso delle conseguenze di un'arma pericolosa come le parole.
«Co-Cosa?» Il mondo iniziò a vorticare e il mio cuore perse fin troppi battiti per quello che avevo sentito riguardo a infarti o cose del genere. E io, assieme ad esso, smarrii completamente la gravità dei miei pensieri. Il pane vorticò nel mio stomaco, pronto a lanciarsi in un viaggio extracorporeo. Tutto, il concetto stesso della realtà, parve assumere all'improvviso una sua consistente consapevolezza, in una specie di trip profetico da pesanti acidi che aveva stuzzicato, attraverso l'uso fastidioso di un sottile filo di grano, il lobo dormiente dell'irrazionalità nel mio fottuto cervello. E di colpo BUM! trovai un senso all'esistenza in quella baita del non-senso nella quale aveva attraccato la mia nave mentale. Ed era così semplice, cazzo, quella verità, che mi sfuggì dalle mani dopo un labile attimo, riportandomi alla deriva, in mezzo alla razionalità di tutti i giorni.
«Sì, sì. La mamma mi aveva nascosto nell'armadio. Ma io l'ho visto lo stesso, l'uomo cattivo. E non ti somiglia per niente» No, no, no, la bambina stava andando troppo veloce. Come un fiume in piena, mi avrebbe affogato, rendendomi pazzo. Spinsi in avanti le mie spalle scoperte appena in tempo per evitare di vomitarle in faccia. Il vorticare del mondo si fece più sbronzo. Tutto roteava così veloce che riuscii a sentire il leggero sibilo dell'universo che viaggiava su se stesso, come una trottola antiquata che aveva bisogno di essere oliata. Quel fischio maledetto lo sentivo rimbombare dentro di me, nel profondo della mia anima nuda. Perforandola, attimo dopo attimo.
«Mamma diceva sempre che mio papà è un pistolero» Mi guardò speranzosa, quella creaturina indifesa e ingenua, nata in un angolo melmoso di mondo dove non aveva probabilmente imparato cosa fosse davvero un papà. Mi chiesi se anch'io ne avessi una qualche, vaga, idea. Allungai una mano tremolante verso il volto di quella che, a quanto pareva, doveva essere mia figlia (non sapevo niente di questa cazzo di storia, sono innocente, giuro!), e le carezzai la guancia. Le sorrisi, ritrovando la calma dentro quegli occhi che aveva ereditato da Rosaline, le cui nude spoglie penzolavano ancora nella piazza di Nass, come monito per tutti gli schiavi, come punizione per la mia insolente disobbedienza. Nel suo sguardo una macchia controversa di buono in quell'angolo buio, covo di mostri e atrocità, che alcuni osavano chiamare mondo, altri addirittura casa, che era Theras.

«Come ti chiami?»
«Diana» E il sorriso caldo di mia madre «E tu?»
Trassi un profondo sospiro, trattenendo a stento le lacrime.

«Samuel. Samuel Colt»




«A nessuno importa qualcosa della tua storia, qua» L'uomo con i capelli corvini stava annuendo, dando un valore inequivocabile alla propria affermazione. E aveva ragione, senza dubbio. «Io voglio che ti liberi da ogni tuo limite, adesso. Da ogni tua paura. E che porti a compimento qualsiasi dannata vendetta che agita le tue notti» Allungò una mano in mezzo alle sbarre, porgendomi un cinturone carico di pallottole «Buttati in questa guerra, affronta i demoni e io ti ricompenserò. Avrai tempo, poi, di piangerti addosso dentro una cella. In futuro, se mai ne avrai uno»

Appoggiai la fronte contro le inferriate, ringraziandole per il freddo del loro metallo, che riordinò i miei pensieri caotici. Non era una questione personale, nient'affatto. Quell'uomo si sbagliava, non mi piangevo addosso perché nessuno ascoltava la mia storia, no, mi piangevo addosso perché nessuno pareva capire il nocciolo di tutta la questione. Quella alla quale tutti stavano prendendo parte, affannosamente, non era quella guerra tra buoni e cattivi, tra cervello e cuore, tra esseri e demoni, che tutti sbandieravano al vento. Non lo era mai stata. Tutti si stavano sbagliando, limitandosi a guardare la situazione dal comodo sgabello della loro prospettiva viziata. Ve li devo aprire io gli occhi? Quella guerra non era che la solita copia, trita e ritrita, di una delle tante altre nelle quali un gruppo di mostri combatte una squadra di orrori. Ed era giunto il tempo, e che cazzo!, di voltare pagina, di andare avanti, di evolversi. Era arrivato il momento di sconfiggere non solo i demoni del Baathos ma, e soprattutto, sterminare quelli che dimoravano i nostri cuori. La battaglia più importante di sempre, quella che avrebbe davvero liberato tutti noi dai tentacoli invisibili di una società corrotta, soverchiandone i connotati. Una guerra individuale, nella quale ciascun individuo vivente prende consapevolezza di un nuovo futuro, di un'esigenza comune, di una volontà istintiva. Non una battaglia fittizia, come quella del progetto traballante dell'uomo con la tessera rossa, né una rivoluzione atta a soggiogare le più alte cariche del mondo per passarle al volere di un unico sovrano supremo. Bensì una guerra sanguinosa diretta contro le atrocità di tutti i giorni che facevamo finta di non vedere, voltando lo sguardo dall'altra parte, una guerra contro l'oscurità delle nostre scelte egoistiche, una guerra contro tutte le altre facce della medaglia del cazzo dei nostri patti e dei nostri compromessi. Per una nuova era senza padroni né servi, senza ladri né gendarmi, senza santi né eroi, senza pistoleri né armi. Combattere in nome di un mondo vero, che non c'è. Perché i demoni non sono che un capro espiatorio, bell'e buono, nient'altro che un catalizzatore della corruzione, e non di certo la corruzione stessa. Perché quella, ragazzi miei, fa parte del nostro io più profondo. Il Baathos è opera nostra, è colpa nostra. Ed è proprio questo il senso del mio lungo sproloquio: dobbiamo assassinare il nostro io. Altrimenti, vincere o non vincere, sul campo, cambierebbe ben poco.

Era arrivato il tempo di abbandonare il nostro Baathos per sempre.

Sorrisi, osservando quell'uomo dileguarsi come un'ombra al sorgere del sole, confermando i miei sospetti sulla sua natura disumana. Strinsi il cinturone al mio fianco e solo allora notai che l'uomo corvino si era dimenticato di lasciarmi una pistola. Troppo tardi per avvertirlo. Ma, dopo un attimo di ragionamento, arrivai alla conclusione che, sotto sotto, c'era un motivo più profondo del perché non mi era stato lasciato il revolver. C'era, in effetti, qualcuno ancora che dovevo incontrare prima di arrivare allo Schiavista.

Mi incamminai verso il Sürgün-zemat.





Ok. Ammetto che è stato un post faticosissimo. Per questo motivo presumo che siano presenti errori, qua e là, che mi sono sicuramente sfuggiti. Ahimè, mi dispiace!

Niente, spero di essere riuscito nell'intento di dare corpo alla mia insistente volontà di raccontare il Baathos sotto una prospettiva diversa. Descrivendone l'essenza attraverso sprazzi del passato di Levi, spezzandone una lancia a favore e, perché no, donandole anche un che di epicità alla Sergio Leone.

Il post segue le vicende da qui. Levi, dopo aver sputato a Jahrir, è stato chiuso in cella.



Edited by H I G - 21/12/2019, 09:46
view post Posted: 3/12/2019, 22:15 Il lascito degli dei - Il mio diavolo - GdR

4




Cambiai la batteria al giradischi. Ne avevo trovata una scorta in fondo alla dispensa, tra le mille altre cianfrusaglie gettate là alla rinfusa. Posai il vinile sul piatto roteante e mi fermai per un attimo a guardarlo girare in cerchio, con un sorriso beffardo stampato sulla faccia e una Lucky Strike ficcata in bocca. Proprio come l'uomo che tentava invano di cambiare il futuro, anche quel disco era intrappolato in un circolo infinito che lo riportava sempre e comunque nello stesso identico punto, nonostante tutti gli sforzi che facesse per sfuggire ad una (sorte) traccia già scritta. Perché se c'era una cosa che avevo imparato, a mie spese, era che il tempo è immutabile. Non importa quante volte provi a modificare il corso degli eventi, quello tornerà comunque a ripetersi, inesorabilmente, ancora e ancora, riproducendo la stessa, medesima, traccia incisa sul proprio disco di platino chiamato Destino. Perché anche se qualcuno tentasse di forzare la puntina di quel giradischi eterno fuori dal proprio solco, il tempo emetterebbe tutt'al più una qualche nota stridula, per poi riprendere la propria traiettoria, esattamente dal punto in cui era rimasto. E quelle sbavature che dovrebbero intaccare l'essenza stessa dell'intera traccia non fanno che renderla ancora più fedele nella sua unicità. No, no, no, il futuro non si può cambiare. Eppure...

Appoggiai la puntina sul vinile e la musica partì.



Mi gettai sul divano e, sotto il mio peso,
questo si inclinò all’indietro in una protesta metallica,
concedendomi il lusso di un confort dei miei vecchi tempi.


Gli stivali impolverati giacevano sulla soglia della porta d’ingresso, caduti a terra come soldatini di piombo dopo una folata di vento. Lo spolverino era appoggiato all’appendiabiti, arido di polvere. Invece il borsalino riposava sul tavolo, in mezzo ai resti della cena, gettato là a casaccio. C’era stato un periodo della mia vita in cui avevo adorato quel copricapo e l’avevo trattato con tutta la cura che si meritava. Ma mi ero stufato. A dire il vero mi ero stufato di un sacco di altre cose oltre al borsalino. Non biasimatemi per questo aspetto del mio comportamento che pare un consumistico vizio da figlio di papà. Io ero malato, in un certo senso. Immaginatevi di avere un tempo infinito da spendere nella vostra vita, riuscireste davvero a non annoiarvi di qualcosa? Avanti, allora: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Mi ritrovai a girarmi tra le dita la tessera rossa, come mi succedeva sempre più spesso in quei giorni. Perché, nel profondo del mio cuore, avevo sperato di aver compreso il meccanismo e di poter cambiare davvero le sorti di una società disastrata come quella umana del mio tempo, ma a quanto pareva non c'avevo ancora capito un cazzo. E la cosa peggiore era che, in realtà, non me ne fregava nemmeno più di tanto, del mio fallimento, quasi come se stessi iniziando ad annoiarmi perfino di tutto quello che avevo costruito in questa epoca. Eppure la vicenda della tessera era stata la cosa più eccitante che mi fosse capitata negli ultimi anni. Devo ammetterlo: vederla cambiare colore aveva rimesso in moto il mio spirito ingrippato. Tanto da avermi spronato a vivere ancora e a combattere per tutti i miei sogni e per tutti i debiti verso l'umanità che avevo ereditato nel momento che avevo acquisito il potere unico che possedevo.

Fino a qualche decina di anni prima, infatti, quella tessera era sempre stata nera.


Gli ospedali di ultima generazione hanno superato il concetto di finta empatia clinica, modificando quell'attimo intimo, ma imbarazzante, di quando il medico comunica l'esito di una terapia o di un intervento chirurgico. Sentite che mirabolante trovata: digitando uno specifico codice su un monitor, questo ti sputa un tesserino il cui colore ha un determinato significato. Nero, ad esempio, sta per "le casse di rovere da Andy sono in saldo questo mese, amico". Rosso invece sta per "mi dispiace ma il suo caro riposerà per sempre in un profondo stato di coma vegetativo".

Insomma, quella tessera che era sempre stata nera e che, chissà quante vita prima ormai, avevo giurato a me stesso di farla diventare verde ad ogni costo, un giorno di qualche anno fa, quando ormai non ci speravo nemmeno più, era, di botto (puf!), diventata rossa. Ma la cosa spaventosa e al contempo sbalorditiva era che io, in quel preciso istante, non stavo forzando alcuna puntina di nessun album musicale di quel maledetto stronzo di nome Tempo. Non stavo facendo niente. Avete capito cosa significa? Che quel bastardo non è proprio così tanto immutabile come si crede di essere. Esisteva un modo per cambiare il futuro, perché era successo davvero. La mia (Juliette) tessera non è più (morta) nera, adesso è (in uno stato di coma irreversibile) rossa.

E dopo anni e anni di ragionamenti avevo capito come potesse essere successo. O almeno, credevo di aver capito come potesse essere successo, e fino a qualche ora prima non avevo avuto dubbi in merito. Fino a quando Samuel de La Rosa non era stato divorato dalla irrefrenabile forza di inerzia del supremo moto perpetuo altrimenti definito Destino - nonché da, letteralmente, la rabbia di un diavolo.
Avevo ipotizzato che fosse possibile ingannare il tempo creando una sorta di déjà-vu temporale, mimando un evento che il passato avesse già vissuto ma inserendovi alcune piccole e artificiose modifiche al fine di incanalarlo verso un nuovo futuro, che sarebbe partito da quello stesso evento, potendo riscrivere tutto quello che sarebbe successo da lì all'eternità. Il tempo non si sarebbe accorto di tali modifiche perché convinto di aver già vissuto quell'evento le avrebbe accettate senza opporre resistenza. Sarebbe stato fregato e io l'avrei battuto, finalmente. Anche se, con molta probabilità, la cosa avrebbe potuto sconvolgere l'intero piano dell'esistenza, mischiando tempo e spazio in un casino temporalesco. Esattamente com'era successo al Far West dopo che la mia tessera si era fatta rossa. Il tempo era diventato una macchia confusa come quella di un cervello spappolato.

E Levi c'entrava qualcosa, me lo sentivo.


Spensi la cicca sul bracciolo della poltrona.
Avrei avuto altre occasioni per tentare ancora l'impresa di cambiare il futuro. Dopotutto io sono Frank, quello che alcuni di questa epoca chiamano schiavista. Sono l'uomo che ha tutto il tempo del mondo.



Edited by H I G - 3/12/2019, 22:46
view post Posted: 26/11/2019, 21:35 Il lascito degli Dèi ~ l'esercito del Guerriero - GdR

Regni del Leviatano
Anni fa

2


Il fumo del sigaro volò via dagli angoli della bocca senza che io facessi alcuno sforzo. Il sole in lontananza stava aprendosi una strada tra le nubi autunnali, illuminando una valle dormiente e un paio d’occhi stanchi. Le mie iridi rifletterono il panorama: un fitto sottobosco che scendeva verso il fiume lungo la fiancata di una collina verde e oro. Uno spettacolo da lasciar senza fiato. Eppure le meningi non registrarono alcuna immagine meravigliosa sul nastro roteante della mia coscienza. C’era una questione più imminente che teneva occupata tutta la mia mente. Una questione della quale avrei fatto volentieri a meno ma che mi sarei dovuto portare appresso, sotto forma di un peso insostenibile sul cuore, per il resto della mia esistenza, volente o meno.

Era il quarto. Un po’ - a malincuore, devo dire - ci stavo facendo l’abitudine. La prima era stata l’unica volta che non era andata per niente male. L’avevo digerita bene. Una lacrimuccia tutt’al più, anche se devo ammettere che quella volta il contesto era stato decisamente diverso rispetto a quello delle altre tre volte. Il secondo uomo che avevo visto (spararsi) morire era stato infatti un disastro. Ero arrivato a credere, ad un certo punto, che sarei morto anch’io se non avessi smesso di vomitare. Quasi riuscivo a vedere i lembi del mio intestino far capolino dalla bocca. Senza l’aiuto dell’alcool penso che sarei davvero finito a sputar fuori le mie budella, dallo sconvolgimento emotivo che mi aveva percosso. Sì, devo essere sincero, il whiskey era stato essenziale come l’ossigeno, in quella occasione. Nelle successive due invece non era stato poi così tanto necessario. Certo un bicchierino mi avrebbe aiutato molto anche quella mattina, niente da obiettare, ma non ne avevo a disposizione quindi mi ero dovuto accontentare di un semplice sigaro.

Presi finalmente una decisione. Il panorama era troppo incantevole per non lasciare la possibilità al cadavere di diventare parte stessa di quell’angolo paradisiaco. Scattai quindi in piedi, consapevole che se non mi fossi mosso alla svelta avrei cambiato nuovamente idea, appellandomi ad almeno una decina di buone ragioni. Come il fatto che qualche animale selvatico avrebbe potuto banchettare col corpo di quell’innocente, per esempio, così che tutto il romanticismo dietro il gesto che a me pareva, in fondo, almeno la miglior sepoltura che potevo offrirgli, sarebbe andato a farsi fottere.

Mi incamminai, gettando via il mozzicone. Non voltai più lo sguardo, sforzandomi per non cedere a quella magnetica tentazione. Ne avevo già visti due di quei visi che avevano preferito la morte ad una vita eterna in schiavitù, o ad una vita eterna in schiavitù e anche maledetta dal compito inappellabile di spegnere vite di uomini innocenti la cui sola colpa era quella di intralciare la strada di un (figlio di troia bastardo) uomo che non si sapeva bene se stava facendo tutto quello che stava facendo per pura noia o se seguiva effettivamente un proprio ideale condivisibile, se avessero optato per usare la mia pistola al fine di assassinare me invece di loro stessi. Se avessi chiuso gli occhi sarei riuscito ancora a vederli bene, quei due cazzo di volti. E sapevo - Dio se lo sapevo! - che non c’era spazio per nessun altro di quei volti nei lobi del mio cervello, a meno che non volessi impazzire.

Perché tutti voi date per scontato che un uomo uccida. Che un eroe distrugga il cattivo. E che un pistolero maledetto impugni la sua arma del cazzo e cancelli una vita con la stessa facilità con la quale getta via il mozzicone di un sigaro. Ma non è così, cazzo! Perché, aprite gli occhi dannazione!, non esistono uomini né eroi, né tantomeno pistoleri mitologici. Esistono solo colpevoli. “E io non voglio esserlo! Fanculo!” Cercavo di gridare, nel silenzio assordante del mio pianto, a quel coglione ubriaco che stava scrivendo le pagine dannate del mio destino.

VOGLIO ESSERE INNOCENTE!





Non ho mai ucciso un uomo.
Ma tanti sono caduti a causa mia.
E tanti ancora cadranno...

~ • ~





Dorhamat
Presente


Sessantuno.
La cenere stava ancora ammorbando l’aria del bosco quando avevo salutato i miei ragazzi. Ora, invece, il grigiore della nuvola di polvere ricopriva il terreno, rendendo quell’angolo di mondo un affresco malinconico.
Scesi da cavallo e finalmente tutta la rabbia accumulata in quei mesi esplose in un urlo sgraziato verso il cielo, destando un pesante silenzio. Le vene del collo proruppero in un gesto di stizza mentre, noncurante del piede, prendevo a calci un faggio lì accanto, sfogandomi come un pazzo da manicomio. Schegge di corteccia schizzarono via dal tronco, senza protesta, esattamente come i frammenti di pazienza che volarono via dal mio cuore. E ciascuno di questi frammenti portava un messaggio stampato a lettere cubitali

Sessantuno ragazzi morti inutilmente


Tutto era cominciato quando quel nano (di merda) ci aveva ordinato di sistemare la questione dei Bastardi del Blu. “Ma che senso ha?” Avevo replicato allora “Dovremmo riunire l’esercito a Nord, nelle terre del Qatja-Yakin dove abbiamo più possibilità di vittoria, e non dobbiamo dividerci per attaccare un nemico che non c'entra niente". La risposta di Jahrir non mi era piaciuta: un’alzata di spalle rapida, come a sottolineare che il nano aveva già deciso e che, comunque, chiunque minacciava il continente era di fatto un nemico da combattere. Avevo quindi assecondato l’ordine, inghiottendo un bel boccone amaro e spingendo i miei ragazzi agli estremi occidentali, dove le città si affacciavano sull'Oceano di Zar, con l'obiettivo, pensate un po', di sconfiggere un'intera flotta pirata, altrimenti nota come i Bastardi del Blu. Ebbene, quell'ordine era costato la vita di sessantuno giovani ragazzi, fucilieri esperti. E, per dirla proprio tutta, era costato anche l'intera scorta di polvere da sparo. Bye Bye armi all'avanguardia.

I Bastardi del Blu erano pirati e avevano dalla loro una flotta, questo era assodato. Pertanto non potevamo sconfiggerli in mare aperto. Nemmeno a pensarci, la battaglia doveva avvenire a terra, decisamente. E, dato che i pirati superavano il nostro umile gruppetto di soldati di almeno cinque volte il nostro numero, non potevamo nemmeno concederci di affrontarli a terra in uno scontro diretto. L’unica azione valida sembrava essere l’agguato.
Ideammo la trappola in ogni suo piccolo dettaglio e anche se sembrava un piano assurdo, tutti noi eravamo accecati dal nostro spirito ottimistico.

I Lupi Solitari si erano sistemati nel bosco, appena fuori dalla città, mentre io avevo fatto da esca. Da solo, ovviamente. Avevo a disposizione il cavallo più giovane, quello più veloce, e, soprattutto, avevo dalla mia parte la sua protezione. E con quella ero più che certo che non sarei morto, non quel giorno, almeno, e non in quel posto inutile.

A PortWick erano ormeggiate dieci delle navi da guerra dei Bastardi. Distruggerne una era stato relativamente facile. Utilizzare i miei poteri, anche se da anni non l'avevo più fatto, mi venne spontaneo come bere un bicchier d’acqua. Un gigantesco uragano di polvere aveva preso forma davanti ai miei occhi, assecondando la mia volontà, e aveva piegato dritto verso il porto, scagliandosi violentemente contro uno dei vascelli pirata. L'albero maestro si era spezzato protestando con uno schianto assordante, franando sulla tolda e fracassandone il legno. Non lo avevo affondato, ok, ma lo avevo devastato abbastanza da attirarmi addosso lo stupore, prima, e la rabbia, poi, di alcuni Bastardi. E fu addosso a questo primo, piccolo, raggruppamento di pirati che avevo scagliato il secondo uragano di polvere, sbalzando via tutti i nemici in un soffio. Tale mossa aveva attirato su di me ancora più rabbia e ancora più pirati, come avevo sperato. Così, esausto, avevo avuto a malapena la forza di saltare sul cavallo e partire al galoppo alla volta del bosco. I Bastardi del Blu alle calcagna, più furibondi che mai.

I primi pirati che erano caduti nella trappola, entrando nel bosco, non ebbero modo di capirci niente. Un fuciliere, dalla distanza, con impeccabile precisione, aveva sparato ad un barile nascosto tra le fronde, cosìcché la polvere da sparo al suo interno era esplosa, falciando i Bastardi del Blu senza pietà. Altri fucilieri erano allora sbucati dal sottobosco, sparando all’impazzata in direzione dei pirati, trucidando quelli ancora in vita. Ogni colpo sparato andava a segno con un lieve "fztump" che indicava un cuore spento. E ad ogni bang un morto.
L’esplosione e gli spari avevano attirato un secondo gruppo di pirati. I primi fucilieri erano indietreggiati, superando la seconda linea d'agguato, dalla quale altri tiratori erano sbucati fuori dai cespugli fiondando piombo nel cranio dei Bastardi in una raffica senza scampo, mietendo vittime su vittime.
Tutto stava andando come previsto, o almeno così sembrava. Era incredibile come quella trappola improbabile, escogitata durante una cena da ubriachi, sembrava davvero funzionare.
I secondi fucilieri erano indietreggiati oltre la terza linea d'agguato, proprio nel momento esatto in cui un altro gruppo di pirati era entrato nel bosco, gettandovisi a capofitto. Correvano all'impazzata noncuranti di noi, noncuranti di indossare una corazza, noncuranti di impugnare una spada, né di seguire un ordine preciso d'assalto. Come se stessero scappando.

"Un attimo! C'è qualcosa che non" Ma non avevo avuto il tempo di finire di pensare. Altri fucilieri erano spuntati dalle basse fronde del sottobosco, come scoiattoli curiosi, imbracciando i loro fucili e…

BOOM


Un boato assordante aveva spezzato l'aria e aveva fatto vibrare la terra, spingendomi giù da cavallo. Avevo sbattuto tanto forte la testa da perdere completamente i sensi.

(...)



Al mio risveglio la battaglia era finita e negli occhi dei pochi superstiti, la sola quarta linea d'agguato, poco più di trentina d'uomini, avevo letto la conferma di ogni mio dubbio. Mi avevano tratto in salvo mentre erano fuggiti, il più velocemente possibile, dal cuore della battaglia, dove gli altri, i sessantuno, erano rimasti a lottare. Lottare per (noi)lorostessi e per l'intera umanità. Sessantuno, contro un intero esercito. E anche là, a distanza di sicurezza da PortWick, l'odore della loro carne era ancora forte.
Avevo salutato ciascuno dei superstiti e mi ero scusato con loro. Ma nessuno aveva replicato, com'era ovvio che fosse, d'altronde. Non c'era tempo per le chiacchiere e non ci sarebbe mai stato. Ordinai loro di fuggire a Nord e di mettere in salvo le loro vite e quelle di tutte le persone che avrebbero incontrato nel loro viaggio. E, se quel cazzo di destino ubriaco intento a scarabocchiare la mia fottuta vita lo avesse voluto, li avrei incontrati di nuovo un giorno, forse. Li avrei incontrati nello stesso mondo che avevamo cavalcato insieme in quei mesi, magari. Così che avremmo potuto piangere assieme quei sessantuno compagni caduti inutilmente, sacrificandosi per noi. Ma era più probabile di no. Era molto più probabile che saremmo morti tutti. Lo sapevo io come lo sapevano loro.

Galoppai, sparando il cuore del mio cavallo all'esplosione. Avrei raggiunto quel nano di merda il prima possibile e poi, in quelle sue orecchie pelose gli avrei sussurrato

«Il tuo cazzo di piano ha gettato novantasette coglioni - e anche i tuoi amici Bastardi - dritti in un'imboscata dei Demoni. Di questi, sessantuno non ha più nemmeno un corpo da sotterrare»


E se avesse fatto spallucce di nuovo, gli avrei piantato un proiettile dritto nel cervello. E fanculo il voler essere innocente.


In breve: I lupi solitari hanno assecondato gli ordini di Jahrir ma sono stati sconfitti da un'imboscata di Demoni in agguato nelle terre di Dorhamat. Il piccolo esercito è stato devastato e i superstiti sono stati mandati lontano, per salvarsi. La cosa positiva è che anche i Bastardi del Blu sembrano essere stati devastati dall'attacco dei Demoni. Samuel si sta dirigendo da Jahrir ed è arrabbiato come una faina.
view post Posted: 14/11/2019, 11:20 Il lascito degli dei - Il mio diavolo - GdR

3



Dolore inibisce dolore.
È uno dei dogmi che governa la neurofisiologia dell’essere umano. Al cervello arriva una raffica improvvisa di richieste d’aiuto da una specifica parte del corpo (la mia mano spappolata, ad esempio), così che tutta l’attenzione dei centri di comando si sposti esattamente in quel punto, dimenticandosi, almeno per un po’, le restanti aree sofferenti (la mia pelle abbrustolita, nondimeno) che avevano sparato messaggi di pericolo al cervello fino a quel momento.




Caddi di lato, mentre tutto il mio mondo, che altro non era che dolore, scomparve di botto. Dall’estremità del mio braccio, all’altezza del polso, ciondolavano, adesso, inerti frammenti di ossa e sottili filamenti di carne, in un pittoresco schizzo vermiglio che aveva imbrattato tutto il mio fianco sinistro. Un’opera degna di essere esposta in una galleria d’arte, senza dubbio, in un’epoca dove il grottesco andasse di moda, si capisce. Trassi un sospiro di piacere, ritrovando, dopo chissà quanto tempo, lucidità, in quel nuovo dolore. Un dolore molto più sordo di quello che poteva sembrare osservando lo stato del mio braccio sinistro. Quasi come il sottofondo musicale che accompagna una recita teatrale.

Qualcosa non va, là fuori! Mi sussurrò il cervello con una vocina fastidiosa. Chi se ne frega! Gli risposi di rimando.


Stavo così bene, adesso, che avrei potuto farmi perfino un pisolino. E, anzi, lo avrei decisamente fatto, di lì a breve. Forse avrei dormito per un tempo abbastanza lungo da poter essere definito un ‘per sempre’. E la cosa meravigliosa è che non avevo paura. Quello che desideravo era solo che tutto finisse alla svelta. Mi sentivo tanto assopito che lasciarmi andare mi pareva la scelta migliore che avessi.

Ma appena un attimo prima che i miei occhi si chiudessero, un’ombra indistinta, nel velo opaco del mio sguardo febbricitante, si levò da terra, richiamando in vita la mia longeva curiosità. Per un attimo che parve durare un battere d’ali di colibrì, la figura sembrò

(Notaio! Devo ancora firmare il mio testamento. Un’anima maledetta e una testa di cazzo. Lascio tutto a te, ombra indistinta)


squadrarmi. E poi, dopo aver probabilmente preso la decisione di venire a darmi un bacetto sul culo, l’ombra mosse un passo avanti, poi un altro, un altro ancora, e così via. Si avvicinò frettolosamente, come se avesse altre mille faccende urgenti da sbrigare dopo quella di ammirare il buco che un proiettile di piombo mi aveva ritagliato nella mano. Quanto più si avvicinava, più riuscivo a distinguere i suoi contorni e più capivo che non poteva decisamente essere un uomo. Non era il giustiziere che mi aveva sparato poco prima né quel figlio di puttana che gli aveva ordinato di farlo - altrimenti noto come schiavista -, questo era ovvio. A meno che, per magia, non fossero cresciuti improvvisamente di tre metri e non fossero loro sbucate fuori un paio di braccia in più del normale. Ma potevo anche sbagliarmi - sapete com’è - può succedere, specie quando il tuo cervello è scosso da una febbre eccitata per il tuo ultimo viaggio mentale, di scambiare una cosa per un’altra. Lo chiamano delirio pre-morte.

L’ombra indistinta si chinò su di me, ora tanto vicina da sentire il suo alito rovente, e per un istante credetti di trovarmi ancora rinchiuso nella fornace e che tutto quello non fosse altro che un sogno divertente. Ma questa consapevolezza non mi svegliò. Con una voce profonda, roca, adatta per comunicare in una lingua dura e tagliente, l’ombra indistinta pronunciò una parola dolce e strascicata. E così, con quella pronuncia tanto stonata, mi fu finalmente chiaro chi avessi di fronte. E capii che non stavo affatto sognando.
Non so perché, ma nel mio ultimo istante di presenza, trovai buffa quella scena. Forse la più buffa che avessi mai visto. Rantolai un ultimo colpo di tosse che, se non mi avesse trovato in quella condizione precaria, sarebbe stato certamente una grassa risata.

« L e v i »

...


Shut down.



Mi sono concesso una trashata, ma mi sembrava che ci stesse bene
view post Posted: 10/11/2019, 00:54 Il lascito degli dei - Il mio diavolo - GdR

2



Il peso, fu la prima cosa che notai. Era innaturalmente esagerato a cospetto di quello che la dimensione dell’arma dava a vedere. Potevo impugnarla in una mano soltanto e farla funzionare con il solo ausilio di due dita. Pistola, l’aveva chiamata l’Uomo con la tessera rossa (Schiavista, per gli amici più stretti). Ora la tenevo ben salda nel palmo, quell’arma, premendola contro il petto come fosse un cucciolo di cane, per paura che mi scivolasse. Il sudore della mano rendeva l’impresa più ardua. Nelle profondità del metallo avrei giurato di percepire un primordiale battito concitato, al quale ne era seguito un altro, poi un altro e un altro ancora. Attraverso la presa sul calcio della pistola, di un sandalo lavorato a mano in maniera impeccabile, l’onda di risonanza di quei battiti mi pervase l’anima, come un grosso tamburo di guerra permea lo spirito di un guerriero. Non riuscii mai a capire se quei tonfi sordi fossero stati davvero il sound di un cuore pulsante della pistola o se in realtà fossero stati l’eco delle mie arterie compresse che davano voce al mio cuore concitato.

Fino a diciannove ore prima mi ero guadagnato il mio angolo di pace, nel mondo. Angolo di pace per modo di dire, ad essere sinceri. Vivevo la mia tranquilla esistenza da schiavo: miniera, taverna, letto e di nuovo il solito tram-tram. Ma mi ero talmente abituato a quella merda di vita che ero diventato essenza stessa di quella vita. Essenza stessa del Far West. Così ora, catapultato all’improvviso in quel teatrino da brividi, ogni angolo del mio cervello stava protestando affannosamente. Alla faccia della confort-zone, fratello. Me ne stavo lì in piedi in mezzo al nulla, nel centro esatto di uno sconfinato mare di brulla desolazione. Mi sentivo scoperto, osservato e minuscolo, mi sentivo costretto da una morsa invisibile, dove da un lato la volontà del prigioniero si abbatteva dall’altra parte contro l’imperatività dello schiavista. E io, l’elemento intruso di quell’elementare algoritmo, nel mezzo di due fuochi, pronto ad essere schiacciato.

Il prigioniero era un uomo, anche se sulla sua gruccia era rimasto appeso ben poco che poteva definirsi umano. Se osservare il colore della sua pelle mi aveva dato la nausea, l’odore della sua cute mi mandava direttamente in coma, senza viaggio di ritorno. Non era semplicemente carbonizzato, era un vero e proprio tizzone ardente con le fattezze di un uomo tirato fuori dalla brace. Sapeva di tacchino abbrustolito. E la cosa peggiore era che lo trovavo invitate. L’idea malsana che erompeva dal mio cervello era quella di voler assaggiare un boccone di quella carne cotta a puntino. Così il mio stomaco, contrariato da quella scialba trovata, decise infine di mostrare al mondo la sua aperta disapprovazione esibendosi in una sinuosa tripla capovolta carpiata. Che invece di atterrare in piedi finì con una sciatta rovesciata di vomito sui miei stivali. Per fortuna l’odore di whiskey che ne divampò riassestò, almeno un poco, il rollio della mia nave mentale.

Sentii lo schiavista bofonchiare alla mia sinistra, probabilmente stufo di dover aspettare tutti i miei cazzo di comodi. “Cristo” mi parve di sentirlo imprecare. (Chi è Cristo?).
Non potevo farlo, ne ero certo, nemmeno se avessi aspettato cent’anni. Quello che mi aveva ordinato di compiere, lo schiavista, era un fottuto omicidio. Omicidio! E anche se il prigioniero di fronte a me era stato un assassino, non ci sarei riuscito. Perché io, poi? Mettetevi nei miei panni. Arriva un uomo, ti strappa dalla tua vita di sempre, ti riempie di alcool, ti ficca un’arma con un cazzo di cuore che batte nel suo freddo metallo di merda, e ti ordina di uccidere un assassino. E tu che ti eri immaginato di ritrovarti di fronte ad un mostro, perché è così che pensiamo gli assassini, che ne so, tipo: alto tre metri, con la testa deforme, tre occhi giganteschi e una pelliccia fitta come un lupo. Sì, tu che ti aspettavi di trovarti davanti il lupo mannaro di Cappuccetto Rosso e che invece avevi di fronte un cazzo di uomo, più simile a te di quanto potevi credere. E aggrapparti al fatto che fosse stato un assassino come scusa per spegnerlo definitivamente era un po’ come arrampicarsi sugli specchi. Credetemi, la sensazione era esattamente quella.
Il metallo argentato della pistola rifletté il mio deragliare psicologico in una sorta di ghigno oblungo, rendendo ancora più difficile digerire il tutto.

Ma una tiepida mano cinse la mia spalla, tirandomi a galla dai miei pensieri abissali. Quando mi voltai, annegai molto volentieri nelle iridi dorate dello schiavista, così calde da potervi trovar rifugio perfino nelle più gelide giornate d’inverno. Il mio cuore rallentò e i miei muscoli si ritrassero. Mi sentivo di nuovo a casa, sparato all’improvviso in un mondo felice. Ma tutta la piacevole accoglienza di quello sguardo venne inghiottita di colpo, assieme alla mia tranquillità ritrovata, dentro un buco nero che mi parve farsi largo, pian piano, dai suoi occhi fino ad inglobare tutto l’universo. E dal centro di quell’oscurità qualcuno sembrò gridarmi a pieni polmoni qualcosa (Ricordati che se non lo fai ucciderò Wendy, Samuel) che mi fracassò a metà il cervello come un’innocua noce di cocco.

Se dovevo scegliere tra Wendy e un assassino non avrei avuto dubbi, certo. Ma se quell’uomo in realtà fosse stato innocente? L’unica prova della sua colpevolezza erano le parole dello schiavista, cioè dell’uomo che mi stava costringendo a commettere un omicidio. Cercai di scacciare il pensiero scrollando con forza la testa. Gocce di sudore grosse come chicchi di grandine volarono via dalla mia fronte, ma non quei cazzo di ripensamenti. Quelli si facevano sempre più largo nella mia mente, penetrandola inesorabilmente come un cancro bastardo.

Di una cosa ero certo: ero fottuto. E anche la vita di Wendy lo sarebbe stata. Da quel giorno in poi avrebbe dovuto convivere con la consapevolezza che un uomo vergognoso (il qui presente Sam) aveva decretato che la sua esistenza era valsa più di quella di un uomo sconosciuto. Avrebbe avuto anche lei la sua parte di “fottutezza” per essere stata una colpevole involontaria in quanto pedina alternativa di un gioco di morte. Provate voi a vivere con un cruccio del genere. Riuscireste?
Certo, non avrei dato torto a chi, come me, credeva che un’esistenza maledetta era pur sempre un’esistenza. Anche se, forse, a pensarci proprio bene, l’unico che ne sarebbe uscito alla grande sarebbe stato il prigioniero. Arrivederci a tutti. Shut down: il biglietto di sola andata verso il paese ‘niente colpe né ripensamenti’ costa solo ‘una pallottola nel cervello’, Sir.

La mano che impugnava la pistola si stava sollevando in direzione della sagoma del prigioniero. Solo che l’arto non sembrava appartenere più alla mia volontà e, anzi, a me pareva adesso di essere lontano mille miglia, di osservare quella nuova scena dal cucuzzolo di una montagna. Sentii l’appena udibile schiocco delle guance dell’uomo alla mia sinistra e me lo immaginai sorridere tronfio. Vaffanculo bastardo.

Piansi come una bambina mentre il mio pollice tremante armava il cane. Trassi un profondo sospiro prima di sparare. Avrei tenuto gli occhi serrati per tutto il tempo. Ero pronto, finalmente. Premetti il grilletto in un gesto deciso, convinto che il tutto si sarebbe concluso in un attimo. Ma non fu così. Tentai ancora e ancora di spingere quel grilletto a battuta ma questo sembrava essersi bloccato. Mi voltai verso lo schiavista in cerca di risposte ma anche nei suoi occhi lessi stupore, meraviglia, incomprensione. Qualcosa non stava andando nel verso giusto. Afferrai allora la pistola con tutte e due le mani, in un improvviso impeto, più risoluto che mai a finire quel cazzo di gioco per tornare alla mia vita. Iniziai a premere il grilletto con entrambi gli indici. Lo sentii cedere e questo mi spinse a sforzarmi ancora di più. Io e la pistola ingaggiammo una mortale sfida a braccio di ferro. Mi piegai in ginocchio, per richiamare più energie verso le mie mani, le mie braccia e il mio collo, ora imperlate da trame di vene e nervi, contratti allo spasmo. Mi resi conto che prima, per tutto il tempo in cui avevo titubato, non avevo che fatto finta, nel tentativo di convincere un qualsiasi spettatore, che Samuel De La Rosa era in effetti un uomo buono. Ma non lo era in realtà, nessuno di noi lo è, in quel momento. Piegato in quello sforzo mostruoso mi accorsi che non avevo mai avuto dubbi, che anche se il prigioniero fosse stato un uomo innocente lo avrei comunque sacrificato per la mia cazzo di sopravvivenza. Gli avrei fatto un buco in testa e ci avrei pisciato dentro, se fosse stato necessario. Sì, anche solo per la mia unica sopravvivenza. Chi se ne importava di Wendy! Ero io quello che stava lottando contro tutto (TUTTO, capite?), anche contro una fottuta arma con un cuore. Ma sì, cazzo, io volevo vivere, vivere, vivere, vivere, vivere ancora la mia merda di vita da schiavo. Esplosi in una fragorosa risata distorta, proprio nel momento esatto in cui il grilletto cedette definitivamente.

La brulla terra desolata riecheggiò in un unico fragore.
In uno sganasciato, stridente, innaturale
SBRANG.


view post Posted: 9/11/2019, 00:44 Il lascito degli Dèi ~ l'esercito del Guerriero - GdR

Qatja-Yakin

1


TOC. TOC. TOC. TOC.
«È ora di andare»


Mi ridestai, in un sussulto. La camera da letto era esattamente come l’avevo lasciata: elegante, calda e accogliente. Ero naufragato così tanto nei miei pensieri che mi ero quasi assopito. Avevo dormito di rado in quell’ultimo periodo e la notte appena trascorsa non era stata di certo un’eccezione. Mi capitava sempre più spesso quindi di inciampare in improvvisi colpi di sonno diurni. Tante cose si erano susseguite negli ultimi giorni e mi ero ritrovato impegnato, mente ma soprattutto corpo, come un tempo, quando ero stato giovane. E a malincuore dovetti ammettere a me stesso di non avere più la forza per sostenere un tale fardello.
Mi alzai in piedi, non più con la stessa facilità con la quale mi ero alzato da quel letto l’ultima volta – prima di allora - che avevo dormito in quella camera. Diedi una rapida sbirciata allo specchio, nell’angolo dell’armadio, per agghindarmi a regola d’arte. Vizio di giovinezza che a quanto pare non avevo perso, il narcisismo. Lo specchio mi restituì l’immagine di un uomo esile e slanciato come una freccia, seppur piegato dagli anni come la cima di una montagna erosa dalle intemperie. Riconobbi gli ormai familiari lineamenti ruvidi, ora solcati da molti più rami rispetto a quelli che avevo contato da giovane. Così come gli occhi, velati e non più della stessa profondità che avevano posseduto. Sorrisi nel carezzarmi la barba cespugliosa che curavo con affetto nell’inutile tentativo di nascondere l’età che avanzava. I capelli che in passato erano stati mio grande vanto, lasciavano ora il posto ad un’ampia prateria disboscata. Il giorno in cui avevo capito che ne avrei persi parecchi mi ero limitato ad un’alzata di spalle affrettata. Lo stesso identico gesto lo ripetei in quel momento, involontariamente.

«Il mio cavallo è pronto?» Non rivolsi nessun tipo di saluto né alcuna parola dolce all’uomo che era venuto a prendermi. Chiunque, nel palazzo, sapeva quanto io non fossi propenso alle chiacchere di circostanza e quanto puntassi subito al nocciolo della questione. Non avevo mai riservato ad alcun soldato nessun tipo di affetto durante i miei anni di servizio. Men che meno a Iago, men che meno quel giorno.
«Non ancora» Tagliò corto Iago. C’erano parecchie cose che il ragazzo avrebbe potuto aggiungere alla sua sterile risposta ma nemmeno lui aveva mai riservato alcun tipo di affetto all’uomo che era venuto a prendere, quello che, prima di lui, aveva rivestito la carica di Comandante della guardia del Duca Jagur Skrogel.

Il corridoio cadde in un silenzio tombale nel quale io - ma ero sicuro anche Iago - mi trovavo comodamente a mio agio. Non avevo mai amato le conversazioni, come vi stavo dicendo, ma quel giorno avrei fatto molto più volentieri a meno di parole vuote e insensate rispetto al solito. Quelle parole che si usa sparare col solo scopo di obbedire ad una convenzione sociale di educazione (Fanculo le buone maniere).
Dalle alte finestre filtrava una luce soffocata, quasi morente. In lontananza, appena al di là delle basse vette delle montagne, entro gli ultimi limiti del confine del ducato, una delicata bambina di diciannove mesi stava dormendo in braccio a sua madre. Il sorriso di mia nipote fu l’ultimo bel pensiero di quella maledetta giornata. Ma per quanto bello, non riuscì a risollevarmi il morale. Anzi, mi corrucciai ancor di più.
Fui io a rompere il silenzio. Quando Iago raggiunse la pesante porta di legno alla fine del corridoio, mi lanciai in un rapido guizzo – memoria di un tempo ormai al tramonto – superando il Comandante della guarnigione. Sbattei la porta con la mano destra, l’unica rimasta, impedendogli di aprirla.

«Promettimi che farai di tutto per proteggermi» Sillabai ciascuna parola con un tono di voce appena udibile. Temevo che qualche orecchio indiscreto potesse intercettare la mia preghiera e mettermi in pericolo. Nel pronunciarmi mi persi completamente negli occhi di Iago, implorando il suo aiuto. Lo sguardo del mio accompagnatore non lasciò però trapelare alcuna emozione. Ero stato io, diverso tempo addietro, a rimarcargli la validità di quella sua capacità innata, e lui, negli ultimi anni, quelli in cui io avevo lasciato il palazzo, l’aveva affinata egregiamente, a quanto pareva. Sarebbe stato impossibile capire cosa passasse per la testa del Comandante in quel momento.
Iago vide per la prima volta l’uomo che, in un passato ancora più remoto di quello in cui l’attuale Comandante della guarnigione era vissuto, aveva abitato il mio cuore. Provò compassione, ma fu solo un attimo. «Te lo prometto, Samuel»

˜


L’udienza si concluse in pochi istanti. La sala dei ricevimenti non era stata addobbata per quell’occasione, ma nonostante questo quasi tutti i soldati della guarnigione erano ammassati contro le pareti della sala (bene). Riconobbi molti volti. Con molta probabilità la maggior parte di loro erano stati miei allievi d’armi, in una vita passata. Forse ognuno riservava all’uomo con i capelli bianchi, ombra ormai sbiadita di un antico soldato leale, ancora un briciolo di ammirazione. Forse ciascuno di loro era lì per un ultimo saluto (Grazie e arrivaffanculo!). Chissà in quanti avrebbero risposto al mio appello. Guardai Iago, che adesso sostava impettito alla mia destra, facendo la guardia ad un (prigioniero) ospite (pericoloso) importante. Come se fosse stato necessario. Ero vecchio, goffo e lento, non sarei potuto fuggire nemmeno se mi avessero concesso tre giorni di vantaggio. Lo guardai e non vidi una persona razionale, dotata di buon senso. Se mi fossi sforzato abbastanza sarei forse riuscito anche ad intravedere i fili invisibili che lo tenevano legato a Jagur Skrogel, il burattinaio. Sperai che non tutti i soldati nella sala fossero tanto sottomessi e sordi come Iago.

Ero arrivato a Palazzo al galoppo sei giorni prima. Ero stato immediatamente ricevuto dal Duca in segno di affetto per i miei fedeli anni di servizio ed in segno della nostra grande amicizia. Il vecchio soldato (cioè io) aveva riferito al vecchio governante tutte le sue preoccupazioni, ma gli occhi del Duca avevano trapelato emozioni diverse rispetto a quelle che avevano rivelato i miei. Nei primi intrigo, nei secondi timore.
«Lui è vicino» Avevo ripetuto, e avrei scommesso di aver visto l’ombra di un sorriso imperlare la bocca del Duca, solo per un labile lasso di tempo prima che il vecchio governatore mi avesse liquidato. «Informerò i miei consiglieri» Aveva tagliato corto Jagur, sollevandosi dallo scranno, segno che la conversazione era terminata. «Lasciami qualche giorno per pensare»
I giorni si erano susseguiti molto lentamente. Ero rimasto per gran parte del tempo chiuso nelle mie stanze ad armeggiare con i miei vecchi strumenti, uscendo solo per il pranzo e la cena. Avevo un piano.
Ogni notte quel presentimento, una sorta di pizzicorino nelle pieghe convulse delle meningi, che mi aveva spinto di corsa fino a palazzo, si faceva sempre più vivo, più reale, più intenso. Ed ogni mattina i dubbi si facevano sempre meno nebbiosi: Lui stava arrivando. La certezza era quasi assoluta.

«Non guiderò i miei soldati in una guerra, Samuel» Decretò Jagur, rendendo anche questa una certezza assoluta. Era ovvio che la decisione sarebbe stata quella. Non c’era dubbio che quel mio presentimento del cazzo fosse condiviso da tutti i presenti in quella sala dei ricevimenti, Duca compreso. Ma i sogni di espansione di quell’uomo erano stati corrotti dalla bramosia del potere. Nella frase ad effetto che aveva proclamato il Duca, avevo letto tra le righe (cucù, beccato!): ‘sfrutteremo questa occasione per restare a guardare i nostri vicini indebolirsi’. L’esercito di Jagur non sarebbe stato minimamente sufficiente a difendere i territori del ducato dall’invasione dei demoni del Baathos, anche se provvisto di armi innovative, forse le migliori dell’intero continente. Io questo lo sapevo fin troppo bene, ovviamente; Jagur no, non aveva mai avuto a che fare con un demone e per lui le mie erano solo preoccupazioni esagerate di un vecchio nonno arrivato alla fine del proprio sentiero che nient’altro aveva da offrire al mondo che muco ed escrementi.
«La ringrazio per ogni cosa, mio Lord» Mi inginocchiai con fluidità, meravigliandomi dell’impresa «Ma temo che non possa esserci futuro per la vita in questa valle, se non uniamo le nostre forze in un unico, enorme, esercito alleandoci con il resto del continente». Nel rialzarmi dovetti mordermi il labbro per soffocare un dolore al fianco «E non ho intenzione di restare qua con le mani in mano aspettando che un demone divori tutta la mia famiglia davanti ai miei occhi» Volevo dimostrare a tutta la sala di essere ancora un valido guerriero, un punto di riferimento, un esempio per chi fosse sufficientemente romantico da avere le palle di morire per ciò che amava. Se fossi stato fortunato forse il mio discorso avrebbe fatto leva su qualche cuore giovane e temerario «Partirò prima di pranzo, fermandomi al Lupo Solitario per un rapido boccone. Poi punterò verso il cuore del Sultanato. Addio Lord Jagur e buona fortuna per tutto» Mi voltai e mi incamminai verso le stalle, senza aggiungere alcunché. Non aveva senso protestare o discutere gli ordini del Duca, né cercare di far ragionare Jagur: la decisione era stata presa e aveva solide radici. Radici abbarbicate in un terreno di folle incoscienza, certo, ma ero sicuro che il Duca non avrebbe mai cambiato idea. Il mio intento, quella mattina, era unicamente quello di spronare più soldati possibili ad allargare i ranghi di un esercito, se mai ce ne sarebbe stato uno, per combattere la guerra ormai all’orizzonte.

Avevo mosso appena cinque passi che una mano mi serrò con forza la spalla, costringendomi a fermarmi. Una voce alle mie spalle mi richiamò all’attenzione (merda). Chiusi gli occhi, consapevole che da lì a poco sarebbe stato versato sangue.
«Temo di non poterti lasciar andare, Samuel» Il Duca si alzò dallo scranno e le sue braccia si sollevarono in un gesto che voleva trasmettere innocenza, come per dire: ‘ho le mani legate’. «Spero che tu capisca» Concluse, voltandosi e lasciando la sala in fretta. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Era ovvio che capivo. Non ci fu tempo per le proteste e non c’era nemmeno motivo di protestare: sapevo troppe cose riguardo il ducato di Linvingstone e riguardo alle armi del suo esercito. Le avevo ideate io stesso, quelle armi, a dirla tutta.
Iago mi spinse in avanti con brutalità. Altri cinque soldati ci circondarono, scortandomi verso una porta in fondo alla sala dei ricevimenti. Ma non la porta dalla quale ero entrato poco prima, assieme a Iago. Né quella che portava alle segrete.
Mentre arrancavo per tenere il passo delle guardie, i miei occhi sostarono per un attimo in quelli del soldato Richard Yagher, padre di mia nipote, marito di mia figlia, nascosto dietro una colonna della sala. Parve annuire in risposta al mio sguardo. Pregai che tutto andasse per il verso giusto. Pregai invano.

˜


In cortile pioveva. Una pioggia fine, di quelle che ti penetrano pure l’anima. Mi avevano legato ad un palo di legno, sul lato occidentale, quello deputato alle esecuzioni capitali. Di fronte a me, a sei metri di distanza, sostava Alan Stone, un ragazzo con fin troppa acne giovanile per poter essere stato addestrato da quel vecchio con la barba curata che lo fissava corrucciato. La recluta sarebbe voluta essere da qualsiasi altra parte del mondo piuttosto che in quel cazzo di cortile. Qualunque parte del suo corpo comunicava al mondo il suo disagio. Ma non poteva andarsene, a meno che non desiderasse ritrovarsi legato anche lui a quel maledetto palo di legno, condannato per aver disobbedito agli ordini del suo Comandante. Imbracciò quindi il fucile, con riluttanza. Mi guardò una sola volta, prendendo la mira.

BANG.


Il proiettile si perse alle mie spalle, molto distante dal mio corpo putrescente. Non battei ciglio, sapevo che quel colpo mi avrebbe mancato. Rosso di vergogna, Alan bofonchiò qualcosa tipo «Un colpo di singhiozzo, scusatemi», e rapido cercò di ricaricare il fucile. Invano. Lo strumento di morte sembrava essersi inceppato. Non mi sorprese nemmeno questo, consapevole che sarebbe potuto succedere anche un inconveniente di quel tipo, ma mai mi sarei potuto immaginare quello che da lì a poco sarebbe accaduto.
Iago, stufo della situazione imbarazzante, strappò il fucile dalle mani della giovane recluta, spingendola involontariamente a terra. Trafficò rumorosamente sull’arma, imprecando a denti stretti. Quando anche lui fallì nel risolvere il guasto improvviso e inspiegabile, gettò via il fucile e impugnò il proprio. Caricò con successo l’arma. Spostò lo sguardo su di me, fissandomi per un lungo istante, tanto lungo che ebbi il tempo di urlare «IAGO, NO! ATTENTO!» e Alan ebbe il tempo di alzarsi, contorcendosi in un modo grottesco e disumanamente veloce, prendere la pistola dal fodero, appoggiarla sulla tempia del proprio Comandante e spruzzare tutto il contenuto del suo cranio sull’acciottolato. Le altre quattro guardie non ebbero nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo.

BANG. BANG. BANG. BANG.


Riuscii a distogliere lo sguardo soltanto quando uno spasmo involontario mi piegò in avanti, costringendomi a vomitare acidi gastrici sui vestiti che avevo indossato con ostentazione solo qualche ora prima nella mia elegante, calda e accogliente camera da letto. Vomitare allietò, almeno un poco, il mio sconvolgimento. Quando alzai di nuovo gli occhi, Alan era davanti a me, tanto vicino da riuscire a sentire il suo alito, acido come il vomito, e vedere i suoi occhi: spenti, amorfi, grigi come una tempesta di polvere. Quello non era Alan, quanto meno non più. Era, in un qualche modo a me incomprensibile, Lui.
Con un coltello raccolto chissà dove, Alan mi slegò dal palo di legno. Poi, lentamente, afferrò di nuovo la pistola. La caricò e l’appoggiò contro la mia fronte, in mezzo a tutte quelle cazzo di rughe, piegandosi all’indietro in una risata da iena in calore. Percepii la fievole vibrazione che scuoteva il corpo dello strumento di morte, come la vibrazione che scuote il corpo dell’amante durante l’apice dell’atto sessuale. Sentii il freddo metallo, la fame della pistola, la voglia dell’arma di stampare sul muro alle mie spalle il sorriso di mia nipote. E sentii la mia mente implorare quel piombo nel cervello. Ma, ahimè, sapevo che ciò non sarebbe successo. Strinsi ancora gli occhi, pregando per quel giovane ragazzo. (scusa Alan e scusate tutti voi)

BANG.


˜


Trovai il mio cavallo sellato. Al fianco dell’animale mi aspettava il fucile, un Winchester lucido e affascinante, di un metallo nero come il buco del culo di un demone, dove sul calcio avevo intagliato una rosa. Legato alla sella mi attendeva il cinturone con la mia pistola. Anzi, è più corretto dire ‘il cinturone con una pistola’. Un tempo, ormai tanto remoto da non sembrare essere mai esistito veramente, avevo posseduto la mia pistola. Ma non più. Accanto al fucile, legata ben stretta al corpo del cavallo in modo da non subire troppe vibrazioni durante il viaggio, trovai una bottiglia di whiskey piena e sigillata. Richard Yagher aveva preparato tutto alla perfezione.

Alle mie spalle, inglobato in una valle paradisiaca, mi lasciai per sempre il ducato di Livingstone, che di lì a poco sarebbe caduto sotto l’assedio dei demoni come un budino sotto l’assedio di un grasso bambino aristocratico, armi innovative o meno. Per l’ennesima volta nella mia vita mi lasciai alle spalle qualcuno che amavo. Grace Yagher, la mia piccolina. Grace, come mia madre.

Mentre mi asciugavo le lacrime, spinsi il cavallo alla volta del cuore del Sultanato. Mi sarei fermato alla locanda "Il Lupo Solitario", sperando che qualche soldato di Livingstone, con il proprio fucile e la propria pistola, avesse risposto, romanticamente, al mio appello.


Ok.
Le premesse non sono, ahimé, buone: non ho mai partecipato a grossi eventi nel forum ma, giuro, ho tentato di aggiornarmi il più possibile, in questi giorni, su tutti gli eventi inerenti l'Akeran. Troppi, per poter dire, onestamente, di avere tutte le idee chiare. Temo di aver potuto sbagliare qualcosa, come la parte di Akeran dove ho scelto di ambientare il mio primo post, ad esempio, o la libertà che mi sono preso nell'inventarmi di sana pianta un ducato, necessario per dare spessore al post. E in ultimo spero, con tutto il cuore, di aver fatto quello che era davvero richiesto, senza cannare maldestramente.

In poche parole: Samuel (chi è?!) cerca di convincere quanti più soldati (tiratori scelti, utilizzatori di fucili e pistole) possibili a seguirlo verso il Sultanato per unirsi ad un potenziale esercito. Ci sarà riuscito? Lascio piena libertà al QM nel decidere quanti soldati incontrerà il vecchio guerriero al Lupo Solitario.

Ho inoltre introdotto una parte di plot (quella relativa al cortile delle esecuzioni) che intendo approfondire parallelamente. Vi invito, a tal proposito, a seguire i miei post anche qua, su eventi avvenuti parecchi anni prima ma che sono a questo strettamente correlati.


Edited by H I G - 11/11/2019, 10:38
view post Posted: 5/11/2019, 12:35 Il lascito degli dei - Il mio diavolo - GdR
Credevo che sarebbe stato più difficile. Ah! Che bello scrivere!

Buona lettura

Baathos

1


TUMP. TUMP. TUMP...


Un giorno di qualche anno fa Cliff Jefferson, il guardiano di Tull, mi aveva punito. Lo aveva fatto perché non avevo obbedito ad un suo ordine. Anche se a dire il vero a me quello era sempre sembrato più un volermi mettere alla prova, che un vero e proprio ordine. E, riflettendoci, non ero mai stato granché con le prove: le avevo sempre fallite tutte. Il fallimento della prova più recente, ad esempio, era il motivo per cui mi trovavo lì dentro, rinchiuso in una fornace da - solo Dio lo sapeva - chissà quanto tempo. Ma in un certo qual modo essermi ritrovato prigioniero in una cella ardente mi sembrava - come dire - una giusta punizione per quel recente fallimento. Il dolore mi dava (sollievo) pace. Invece la punizione che mi aveva afflitto Cliff Jefferson quel lontano giorno nel passato mi era sempre sembrata, ed ancora mi sembrava, esagerata.
Quella remota cazzo di mattina Jefferson mi aveva ordinato di sparare a Jake. Di fronte a me, indifeso, il bambino aveva tremato da capo a piedi, pisciandosi nei calzoni tutto il motivo per cui era stato condannato: la razione d’acqua che la notte prima aveva rubato al vecchio parassita Donald. L’intero villaggio di Tull aveva trattenuto il fiato per un istante che era parso passare in rassegna l’intera eternità. Tutti si erano fermati dietro di noi, due bambini sbagliati nel posto sbagliato. Non avrei mai più dimenticato come gli occhi di Jake avessero roteato in quel modo così innaturale attorno alle orbite, come se avessero voluto trovare una via di fuga per mettersi in salvo. Non avrei mai dimenticato le sue urla distorte confuse nel pianto. Non avrei mai dimenticato quell’odore stuccante che aveva pervaso l’aria, di una dolcezza troppo densa, che ricordava quello di una zucca marcita.
Avevo rifiutato di obbedire, naturalmente. O meglio, non avevo proprio fatto niente. Ero rimasto lì impalato sui miei piedi a fissare Jake, con gli occhi sgranati e la bocca ciondolante, e stavo ancora frignando quando dalle mie spalle era esploso un colpo di pistola che aveva, di botto, riacceso il tempo e fracassato i miei timpani. Il cranio spappolato di Jake si era stampato sul muro di pietra dietro di lui. Il suo cervello era sgocciolato verso il terreno, producendo intricati ghirigori pittoreschi (i graffiti del Far West, baby!). A quel punto anch’io avevo urinato tutta la mia razione d’acqua nei calzoni.

...TUMP. TUMP. TUMP...


Ero rimasto senza acqua per una settimana (Una settimana!). Non pensavo affatto che quella punizione mi fosse stata impartita per soddisfare una qualche forma di sadismo del guardiano di Tull, anche se ad un osservatore esterno potrebbe sembrare così, in effetti. Cliff Jefferson non era sadico. Era un uomo giusto, seppur rigido. Forse fin troppo, in certe occasioni. Avevo sempre creduto che quella punizione fosse in realtà un’esortazione o una specie di lezione. Come se Cliff avesse voluto insegnarmi un qualcosa di essenziale: ‘o spari o ti sparano’. Ma per quanto dura fosse stata quella punizione, la lezione non l’avevo ancora capita.
Ogni ora che era passata, il desiderio di un bicchiere d’acqua era aumentato sempre più. Avrei creduto che sarebbe arrivato un limite massimo oltre il quale l’intensità di quel desiderio si sarebbe arrestata. Ma mi ero sbagliato. Nessuno potrebbe comprendere quanto il cervello dipenda dalle cose strettamente necessarie. Possiamo fare a meno di molte ricchezze, ma non possiamo fare a meno di vivere. Non potete comprendere quanta voglia abbia di funzionare e continuare a muovere i propri ingranaggi, il cazzo di cervello. È spasmodico, se ci pensate, il modo con cui il nostro centro di controllo si attanaglia alla vita e cerca nei modi più disperati di spronare il tuo corpo moscio. Tossicodipendenza all’esistenza. Perché, poi? Che importanza ha l’individuo? La sopravvivenza implica competizione. E la competizione implica la sottomissione. (È tutto sbagliato). Il mio cervello aveva spinto il mio corpo a comportamenti folli, durante quei sette giorni senza acqua. La maggior parte dei quali implicava autoinfliggermi dolore.
L’ultimo giorno Cliff Jefferson aveva posato un bicchiere sulla tavola, proprio davanti al mio naso. Non potrei rendere l’idea di quello che avevo provato nemmeno se tentassi di raccontarvelo in tutte le lingue del mondo perché nessuna di queste possiede un aggettivo tanto coerente. Se l’apoteosi del piacere è l’orgasmo allora bere quel bicchiere d’acqua fu molto più espanso di un qualsiasi orgasmo. L’acqua aveva inondato la mia cavità orale e tutti i neuroni sensoriali stipati là dentro avevano sparato messaggi di piacere, azionando il mio cervello. Quel bicchiere d’acqua mi aveva riempito. E aveva colmato quel terreno di sopravvivenza nel quale le radici del mio cervello si erano abbarbicate.

...TUMP. TUMP. TUMP.


Proprio come il bicchiere d’acqua, quel tump-tump di passi in lontananza mi riempì, il giorno in cui mi trovavo rinchiuso dentro una fornace se non anche il giorno in cui mi avrebbero sparato. Riempì le mie cavità auricolari e di nuovo i neuroni sensoriali spararono messaggi di piacere dritti verso i centri di controllo, riempiendo e risvegliando un cervello che per giorni (mesi? anni?) non aveva che riprodotto lo stesso, identico, costante, monotono sound: dolore. Tutto il mio corpo eruppe in un brivido convulso di piacere che mai avevo provato in vita mia, nemmeno con Rosaline.

(Rosaline. Rose. Rosaline è morta, proprio come Jake. È colpa mia. È morta per colpa mia)

Solo che quei passi non sarebbero stati dolci (fangosi) come il bicchiere d’acqua. Perché dentro il forno lo Schiavista non ci rinchiudeva gli ospiti di casa. Ci rinchiudeva i bambini cattivi (buoni).

I passi si arrestarono e per un momento, un ultimo piacevole sospiro, mi godetti il mio attimo di pace prima della tempesta. Poi seguirono rumori distorti: stridore di ferro contro ferro, urla indistinte di esseri disumani, bastoni di acciaio contro la roccia lavica, sferragliare di catene.
Mi sarei pisciato nei calzoni anche allora, se solo la mia vescica non fosse stata secca come il deserto e se solo avessi indossato calzoni.
view post Posted: 28/10/2019, 10:07 Iscrizioni - Il Lascito degli Dèi
Nome utente: H I G
Team: Akeran
Note: Spero di vedervi a Lucca
view post Posted: 17/10/2019, 15:53 Confronto - Il Lascito degli Dèi
Ciao a tutti :arross:

Siete belli belli belli
view post Posted: 23/7/2016, 16:02 Ballet Hell - Confronto
Posted.

Buon finesettimana a tutti.
view post Posted: 23/7/2016, 16:00 Ballet Hell - Oneiron
Solo alle persone buone
sono concessi i bei sogni.


«Un ballo?»
Chiese, aggrottando la fronte stupito.
Tra tutte le cose che avrebbe potuto chiedergli,
gli aveva chiesto proprio di accompagnarla ad un ballo.
«Qualsiasi cosa, hai detto»
La voce della donna era spezzata dal timore,
però allo stesso tempo sembrava avere un tono divertito.
Come darle torto del resto: la perplessità del pistolero era davvero buffa,
quasi fuori luogo, in un certo senso.

Chi vive di morte tende a dimenticare le gioie che può regalare la vita.
Elise dovette insistere non poco per convincerlo.



˜





C'erano una sequela di specchi alle pareti del corridoio ovest. Non erano dei comuni specchi, dovevano essere sicuramente magici, perché quando ti ci riflettevi, la tua immagine appariva grassa, oppure snella, in altri risultava zigzagata o la tua pelle si colorava come l'ambra, lo smeraldo o come la notte. C'erano specchi che trasformavano la tua immagine in quella di un drago, di un orso o di un leone. Era trascorso davvero molto tempo da quando il pistolero non si era divertito così tanto da piangere dal ridere, tanto da sembrare la prima volta in tutta la sua vita.
L'ultimo specchio pareva invece uno specchio normale. Il vetro, trafitto da uno squarcio sprezzante, tagliava il riflesso del volto di Levi in due metà asimmetriche, e rifletteva schiettamente la sagoma impolverata del pistolero. Nient'altro, nessun effetto magico dilettevole. Di colpo, la gioia dell'uomo scemò, rapida come un colpo di fucile, lasciando spazio soltanto al disgusto. Levi abbassò gli occhi.

«Sei pronto?»
Chiese la donna, preoccupata.

«Lei non può passare»
Aggiunse poi, un po' titubante,
dopo una lunga pausa di silenzio.
«Non l'avrei portata in ogni caso»
Rispose prontamente l'uomo,
e con un gesto deciso si sfilò il cinturone di dosso, gettandolo a terra.

Cadendo, la pistola emise un tonfo sordo. Era la prima volta che l'uomo si separava dal revolver. Rabbrividì. Nel momento in cui abbandonò la propria arma, percepì qualcosa di viscido scivolare lontano dal suo cuore, come se un velo bagnato fosse stato sospinto via da una raffica di vento improvvisa. Non fu del tutto piacevole, come si sarebbe aspettato. Certo, il senso di leggerezza che provò fu appagante e liberatorio, e per un breve momento i suoi pensieri, i suoi ricordi e le sue emozioni più negative vennero trascinate via assieme al carico dell'arma da fuoco e al peso di tutte le innocenti anime che quella aveva spento, lasciandolo in un limbo di serena pace temporanea. Eppure, in quel purgatorio di sensi, Levi provò un'emozione vergine, che mai aveva provato prima: l'impotenza. Il pistolero, senza la sua pistola, si sentiva vulnerabile, esposto, inerte. E, cosa assai più spregevole, provava una nauseante sensazione di debolezza. Sentiva la mancanza, gravosa, dell'irrazionale furia omicida che albergava nel cuore stesso del revolver. Sentiva la mancanza della sua parte cattiva, maligna, demoniaca. Gli mancava la sua pistola come ad uno scorpione mancherebbe la sua coda velenosa se una mattina qualcuno gliela tarpasse.
Il mondo cominciò a roteare e il pistolero si sentì svenire. Era nauseato da se stesso.

«Tutto bene?»
Lo incalzò la donna, impaziente di partire.
«Tutto bene»
Rispose l'uomo, con un filo di voce.
Il suo volto era più pallido del solito.
«Tienimi la mano e chiudi gli occhi»
Elise si avvicinò a Levi.
La sua mano era fredda come il marmo.
Quella del pistolero era calda come il fuoco.

Entrambi chiusero gli occhi, fermi davanti all'ultimo specchio del corridoio ovest del castello. La donna pronunciò una parola che l'uomo non comprese, da tanto che era agitato, e, in un baleno di luce dorata, entrambi sparirono oltre i margini del vetro dello specchio. Al di là dei confini dell'orizzonte del mondo.

Quella sera il pistolero comprese che non esistono eroi senza demoni.
Capì che non può essere fatto il bene senza l'aiuto del male.



˜






Sorrise, un sorriso disteso.
La luce che risplendeva nella sala rifletteva i bagliori platinati dei sogni dei bambini, affogando l'atmosfera in un mondo completamente magico. Tutto sembrava perfetto, architettato in una piacevole geometria onirica che appagava lo sguardo, lasciandoti stupito. Dal soffitto dorato pendeva un gigantesco lampadario di cristallo che, roteando fievolmente come una nave alla deriva, sovrastava l'intera pista da ballo, abbagliando, di tanto in tanto, i provetti ballerini nelle loro vesti sgargianti. Le tende, dal colore del tramonto estivo, incorniciavano le immense vetrate, permettendo alla luce argentea di una - o più - timida luna di far capolino nella sala per illuminare gli occhi degli eterni innamorati, cullati in quel dolce e infinito valzer che solo loro sono in grado di danzare.

«Dove siamo?»
Chiese il pistolero.
«Non lo so»
Rispose la donna, con un sorriso malizioso sul volto.
«In un sogno, probabilmente»
La mano di Elise stringeva ancora quella di Levi.
«In una notturna pausa dalle nostre vite.
Non voglio che i tuoi pensieri ti anneghino,
lascia che qualcun altro conceda loro un ballo, per stanotte»
Levi sorrise.
Elise sollevò le loro mani.
«Guarda quanto siamo belli»

Lo specchio, di fronte a loro, rifletteva l'immagine di due giovani. Ad uno sguardo fugace sarebbero potuti sembrare fratello e sorella. Lei aveva dei lunghi, fluenti, capelli dorati, lisci come la seta, incorniciati da una tiara smeraldina che riprendeva il colore dei suoi occhi, la dolcezza del profilo del suo tenero naso e l'innocenza del suo sorriso sincero. Dalle piccole spalle ossute le scendeva un vestito bellissimo, blu come il blu profondo dell'oceano di notte.
Lui vestiva un abito nero, trapuntato con estrema precisione da una costosissima sarta immaginaria mai esistita veramente. La camicia, sotto la giacca, era di seta, così leggera che al pistolero sembrava di non indossare niente, e così limpida da aver quasi paura di indossarla, per timore di sporcarla. Il suo viso era pulito e appariva più giovane e rilassato. I suoi capelli risplendevano di luce come mai prima di allora, e i suoi occhi riflettevano la gioia profonda del suo cuore in pace.

«Sì, lo siamo davvero»
La guardò, e riuscì a non pensare a cosa le sarebbe successo al termine della serata.

«Mi concede un ballo, signore?»
Chiese la donna, timidamente.
Levi abbassò lo sguardo, ridendo.
«Perché ridi?»
«Perché dovrei essere io a chiedertelo»
Rise anche lei.
«Andiamo?»

Emersero dalla calca, l'uno stringendo la mano dell'altra, con quel leggero imbarazzo che inebria le menti degli amanti prima di un ballo, seppure il loro imbarazzo era figlio di una circostanza completamente diversa, quasi opposta. Con notevole eleganza si trascinarono in mezzo alla pista, proprio sotto al gigantesco lampadario. L'uomo strinse a sé la donna e, dopo un breve momento di pausa, i due giovani partirono in un dolce, lento ballo, lasciandosi navigare dalle note sentimentali del pianoforte. Non fecero caso a quante persone li stessero osservando lanciando loro occhiate traverse, quasi che i due giovani fossero avventurieri di un altro pianeta, in procinto di terminare un'impresa leggendaria. Alla fin fine si trattava solo di un ballo romantico, ma si sa, i balli romantici non sono adatti a qualsiasi uomo, solo ai più temerari, con un cuore infinito.
Levi appoggiò la guancia contro quella di Elise. Entrambi chiusero gli occhi e si lasciarono trasportare dai loro desideri irrealizzabili, quei desideri che forse solo nei sogni è consentito concretizzare. Il profumo dei capelli della donna ricordò all'uomo il profumo dei capelli di una rosa, e nel trambusto della sala gli scappò un profondo sospiro, ma nessuno se ne accorse e la musica non si fermò.

«È qui»
Le sussurrò all'orecchio.
«Lo so»
Rispose lei, senza aprire gli occhi.

Mentre la musica andava scemando,
la sala si riempiva di applausi.
«Com'è possibile che sia qui?»
L'uomo stentava a crederci.
«Nei sogni, tutto è possibile»
Rispose lei, con saggezza.
Le sue parole erano gonfie di palpabile emozione.
Stava per piangere. Per la gioia.
Ma non si voltò, non ancora.
«Solo alle persone buone sono concessi i bei sogni»
Glielo ripeteva sempre sua madre da bambino, prima del bacio della buonanotte.
Elise si limitò a sorridere, una lacrima le solcò il volto.
«Va' da lui, non farlo aspettare»
La incalzò Levi.
«Anche tu lo sei, un uomo buono»
Disse Elise, accarezzandogli la guancia e asciugandogli la sua lacrima.
Si voltò, dando le spalle all'uomo che l'aveva accompagnata,
e si mosse verso l'uomo che la stava aspettando.
Verso suo marito, l'uomo che amava,
l'uomo che aveva sacrificato la propria vita per salvare la sua.

Al pistolero non poté che sfuggire un tenero sorriso.



Ho aperto le danze con un post romantico (d'altronde come potevo non farlo). Spero che nella noia io sia riuscito comunque a intrigarvi un pochetto. :zizi:

P.s.: Il pistolero è davvero disarmato


Edited by H I G - 25/7/2016, 21:18
view post Posted: 18/7/2016, 20:45 Ballet Hell - Confronto
CITAZIONE (Lucious @ 17/7/2016, 21:30) 
Come ho scritto, sta ad un angolo a suonare il piano per intrattenere gli ospiti, con il PG di Numar che le ronza intorno.
Magari al Cowboy interessa la bella Pianista :zxc:

Vedo che per adesso sei impegnata con Numar quindi per questo turno mi limiterò a notarti di sfuggita.

CITAZIONE (K i t a * @ 17/7/2016, 21:46) 
:8D: volentieri!

Me lo segno il tuo volentieri :lul:
Per il post introduttivo però io preferirei aspettare di vedere come evolve la situazione e accordarci dal prossimo giro, che ne dici?
view post Posted: 17/7/2016, 20:25 Ballet Hell - Confronto
CITAZIONE (Lucious @ 16/7/2016, 19:50) 
Beh, se Levi non ha paura delle Streghe forse Laica può suscitare il suo interesse :sisi:

Avevi già qualcosa in mente?

CITAZIONE (K i t a * @ 16/7/2016, 23:37) 
Ci sono anche io, aperta a qualsivoglia interazione! :ponpon:

Non voglio perdere di certo l'occasione per un ballo con la madre dei draghi :arross:
202 replies since 20/10/2013