Asgradel - Gioco di Ruolo Forum GDR Fantasy

Posts written by §_Gemini_§

view post Posted: 19/1/2020, 23:42 Confronto - Il Lascito degli Dèi
CITAZIONE (»Rose @ 18/1/2020, 15:19) 
Uhm... noi abbiamo un esercito molto classico, di fanti, cavalieri, arcieri, classico esercito medievale. Nei nostri post abbiamo radunato le famiglie nobili e borghesi del Dortan per formare un'unica armata, nulla di particolare xD.

Nulla di particolare :wowno:
Tranne i due in testa all'esercito, loro sì che sono strani :v:
view post Posted: 19/1/2020, 23:39 Il lascito degli Dèi ~ inno all'oscurità - GdR

Quel viaggio era stata la cosa più bella che gli era capitata da anni.
Avevano guidato l'esercito, cavalcando in testa ai soldati come generali indiscussi, l'uno a fianco all'altra, trascorrendo giornate tra sorrisi e sguardi lieti, dimenticando i propri timori e allontanando le proprie incertezze. Giorni pacifici, una tiepida vacanza dalle difficoltà con la quale la vita li aveva spesso vessati e derisi.
E Zephyr avrebbe voluto che quel loro viaggio verso la fine del mondo potesse non aver mai termine. Fosse stato per lui sarebbe andato avanti in eterno, attraversando montagne e praterie, boschi e città, facendo il giro del mondo per poi, una volta tornati al punto di partenza, ricominciare da capo.
Forse alcuni nobili lo digrignavano astiosamente i denti per la posizione di potere che adesso ricopriva, forse alcuni soldati lo guardavano gelsoamente in tralice per quella donna cui solo lui adesso poteva dire accompagnarsi ma, per la prima volta in tanti anni, Zephyr riusciva a ignorarli completamente, troppo preso dai suoi caldi abbracci e da quei baci che riusciva a rubarle nascondendosi con lei dopo il tramonto, quando gli uomini erano troppo impegnati a distribuirsi le razioni di cibo per curarsi della loro presenza.
Più importante della loro guerra sacra, della destinazione e dei loro nemici. Solo lei aveva importanza.
Ma se aveva imparato qualcosa nella sua vita, era che niente era destinato a perdurare in eterno. E le cose liete, ancor meno di altre.
La realtà non dimenticò di rammentargli quella semplice e ovvia lezione che lui, preso dalla tranquilità degli ultimi giorni, aveva dimenticato, troppo indaffarato a rivolgere sorrisi e alla donna affianco e lui per accorgersi di quello cui stavano andando incontro.
E la violenza di quella mesta realizzazione lo colpì con quanta più forza possibile, sgranandogli gli occhi e costringendolo a ripararsi sotto un pesante mantello di pelliccia.
Il paesaggio che circondavano quell'enorme serpente di uomini che marciavano in file dietro di loro, era cambiato improvvisamente, e quella che dapprima avevano creduto essere una fredda giornata uggiosa si era presto rivelata essere l'arido e grigio clima che ammantava come una cappa plumbea quelle regioni che un tempo venivano descritte come un paradiso in terra. Le verdi pianure e boschi fioriti erano scomparsi, lasciando solo roccia e terra inaridita.
Il sole era nascosto da una coltre di cenere che ricopriva il cielo nella sua interezza, togliendogli l'unico punto di riferimento sul quale potevano fare affidamente in quelle terre straniere. Il territorio attorno a lui sembrava opaco, in maniera non dissimile a ciò che accadeva quando lui stesso lasciava che il suo potere tracimasse oltre il suo corpo per inondare la realtà, sminuendo la vividezza dei colori della natura per offuscarli. E si chiese quale intemperante potere fosse in grado di applicare quella abilità da un orizzonte all'altro.
Cercò di non pensarci, per non far sì che il suo turbamento incontrasse lo sguardo dei loro seguaci e ne destabilizzarsse le convinzioni. Sarebbero andati avanti, come avevano sempre fatto. Come lui aveva sempre fatto.
E poi d'improvviso, quella quiete si estinse in fretta come un temporale estivo.
La neve, il ghiaccio, il f r e d d o.
Avanzando nel morente deserto grigio, erano entrati in una regione di ghiacci perenni, tanto candidi e spettacolari quanto ostili alla vita.
Erano passati diversi giorni da quando il morente deserto grigio aveva lasciato spazio a un panorama tanto candido e silenzioso quanto ostile alla vita. Gli uomini erano ormai allo stremo, con la fatica e il freddo che gli attangliava tanto il fisico quanto lo spirito, i tiepidi braceri del loro ardimento che a stento venivano ravvivati dalle avvolgenti parole della Rosa.
Zephyr non faceva eccezione. Aveva cercato di nasconderlo, chiamando a raccolta quanta più dignità avesse in corpo per combattare contro i brividi che sentiva scavargli nelle ossa, intorpidendogli le estremità e lasciandogli il volto arrossato e le mani tremanti. Anche lui, come tutti gli altri, sembrava aver perso la voglia di parlare, limitandosi unicamente a girarsi di tanto in tanto verso Dalys per assicurarsi che il suo natuerale calore non le facesse patire troppo il freddo.
Del paradiso dell'Edhel non era rimasto niente che potesse essere ricondotto al florido passato: speroni di ghiaccio sbuacavano innaturali dal terreno, e profonde voragini erano pronte a inghiottire chiunque osasse avvicinarvisi troppo. Come se un'apocalisse avesse divelto la perfezione del Samarbethe e il ghiaccio avesse voluto cristalizzarne la disfatta, ergendolo a simulacro di ciò che l'oscurità potesse fare al più rigoglioso dei luoghi. Memento di un inferno che loro avrebbero dovuto evitare al resto di Theras.
Il passo degli uomini e dei cavalli sulla neve si era fatto incerto, scricchiolante. Avevano perso la giovialità che aveva contraddistinto la merce nei loro giorni, spegnendo le loro voci con fredde folate di vento, lasciandoli tremanti e capaci solo di sbattere i denti, dei timidi sbuffi di vapore che si disperdevano oltre le labbra screpolate.
Ma non gli interessava degli altri, non più ormai. Da tanto tempo.
Forse fu solo la stanchezza, forse l'indignazione nel non aver colto prima quella sfumatura che invece avrebbe dovuto essere palese sin da subito per lui. Obnubilato, dai sentimenti che provava per lei e dai quali si era lasciato trasportare.
Più difficile la missione, più grande la ricompensa.
Maggiore la sofferenza.
Gli mosse un insulto in silenzio, allungando lo sguardo verso le loro pietose figure ormani più simili a statue di ghiaccio che a soldati del Leviatano. Troppo deboli e inesperti per fregiarsi di un tale titolo.
Cerco di distrarsi dalla rabbia, volgendosi premurosamente per l'ennesima volta verso la Rosa e accarezzarne la guancia in un gesto che avrebbe confortato tanto la sua anima quanti i suoi polpastrelli intirizziti. Le avrebbe voluto assicurare che lui era abbastanza forte per farsi carico della sofferenza di entrambi, che l'avrebbe protetta perchè potessero continuare il loro viaggio all'infinito. Ma non appena alzò la mano, in un istante lungo un'eternità la vide esitare debolmente.
Poi il mondo scomparve.

Era solo, completamente.
Immerso in un assordante silenzio, e solo il rumore del suo cuore agitato a ricordargli di essere ancora vivo.
Chissa per quanto.
Nessun cavallo, nessuno soldato, nessun esercito o tormenta di neve. Nessuna Rosa.
Il freddo gli riempiva le ossa e allungando una mano di lato sentì la roccia umida toccargli i polpastrelli. Capì di trovarsi in una grotta, scura come una notte senza stelle e altrettanto fredda come i ghiacci del Samarbethe. Non riusciva a scorgere niente oltre la punta del proprio naso e schioccando le dita si accorse di non essere in grado di liberare nemmeno il più banale degli incanti, incapace e inerme in un luogo che non ricordava di aver raggiunto.

Dov'era l'esercito e l'inferno di ghiaccio? Erano sprofondati in un anfratto e non ne aveva memoria? Dove era D a l y s?
Doveva tornare subito da lei, proteggerla, abbracciarla e assicurarsi che fosse in salvo; e quando l'angoscia gli annebbiò la mente uno spasmo lo costrinse a chinarsi su se stesso mentre nella sua mente uno stridio aveva preso a infettargli il cervello martellandone le tempie e lasciandolo dolorante, chino su se stesso come uno schiavo violentemente bastonato sulla schiena dal proprio padrone.
Nel buio assoluto una smorfia di dolore gli tirò il volto. Boccheggiava come se quella aria umida non fosse in grado di riempirgli i polmoni e nauseato da quel posto, sentiva una sensazione insinuarsi in lui, serpeggiando lungo tutto il suo corpo fino al cervello e ancor più in profondità, scavandogli nel petto fino al cuore e ancora più avanti.
Qualcosa gli stava divorando l'a n i m a.
Sentiva il sangue ribollire, dilaniato da un dolore che gli strozzava le urla d'aiuto che avrebbe volentire lasciato eccheggiare tra le pareti di roccia che lo imprigionavano chissà quanto lontano dai suoi compagni.

Lui era un essere di luce, per nascita.
E il suo pensiero tornò al sole del Samarbethe, che non avevano mai visto perchè offuscato da grigia cenere.
Cenere che rassomigliava alla sua, con la quale si era difesa dall'odio e con la quale aveva offuscato la propria luce, adombrandola di grigio.
Ma la sua luce, come il sole del Samarbethe era solo stata nascosta, oltre le nubi continuava a brillare, stolido e luminoso come sempre.
Una lacrima rigò la guancia di Zephyr, e un angolo della bocca gli aprì un sorriso velato di un commisto di tristezza e ironia, le braccia strette attorno al petto per placare gli spasmi del freddo lancinante.
Per anni aveva stupidamente pensato di essersi liberato di quella parte di se stesso, scegliendo da sè il proprio destino e la propria vocazione. E proprio il destino, ora, per dimostrargli quanto si fosse sbagliato in questi anni l'avevano condotto in un'oscura caverna, così che il Baathos stesso potesse divorare le dolci carni di un inconsapevole e stupido angelo che, accecato dalla sua arroganza, aveva pensato di potersi lasciare alle spalle il proprio retaggio.
Allungò una mano nel vuoto, come a volersi aggrappare un'ultima volta alle speranze che sentiva scivolargli via dal corpo, come a voler afferrare quel sogno ormai sempre più lontano che avrebbe tanto voluto realizzare per il suo Sovrano, come a voler compiere quel gesto che prima di sparire non aveva fatto in tempo a fare: carezzare un'ultima volta le guance di Dalys.
Si sentì artigliare un'ultima volta le viscere, un ultimo sussulto.
Poi un ansito, e un commiato liberatorio.

« ...mi dispiace. »



Percepì la sua coscienza svanire, precipitare in un baratro trasportata dalla pesantezza di quel suo peccato, l'ignoranza che alla fine gli era costata tutto. Aveva perso la sua personalissima battaglia contro quel mondo ingrato, contro se stesso e contro il destino beffardo.

E' una bugia, Zephyr.
Tu non sei più.



Senti il leggero tocco di una mano familiare poggiarglisi sulla spalla.
Sobbalzò sbigottito da quella voce che non sentiva da tempo e che, ora, nel silenzio più totale si era palesata.
Zephyr galleggiava nell'etere, e prima che potesse cercare di parlare, da quell'oscurità indistinta prese a delinearsi un volto dai contorni sfocati, illuminato di una luce d'argento scuro e rilucente di un sorriso compassionevole.
Troppo preso dalla sua missione e della Rosa, si era scordato di lui, dell'Angelo. L'altra faccia di una medaglia opacizzata dalle avversità del mondo mortale, bruciata di un fuoco spento. Ma non capiva, non riusciva a comprendere cosa gli stesse dicendo. Avrebbe voluto chiedergli scusa per tutte quelle volte che erano stati in conflitto, per averlo coinvolto in quel pasticcio che aveva causato la loro morte. E per aver estinto la luce di entrambi, senza che lui fosse d'accrdo.
Voleva chiedergli scusa, ma quelle parole non vennero mai pronunciate.
Poi, la maschera di cenere parve sorridere, comprensiva.

Noi non siamo più.
Abbiamo scelto di non esserlo
Ti sei sottratto alla grazia, l'hai rifuggita.
Rinnegandola, angelo traditore.
E da quel momento io non sono più.
E tu, con me, non sei più.
Ti sei votato all'uggiosa cenere, ricordi?
Grigia come il braciere di un fuoco spento. Che tu hai estinto.
Una luce che ha smesso di bruciare, consumata dalla tua disperazione.
Ricorda, Oracolo di Cenere, tu non sei più.
Ricorda chi sei e chi non potrai più essere.


Nel tempo di un battito di ciglia i contorni del volto sfumarono fino a tornare nell'anonimato delle tenebre dal quale erano comparse.
Zephyr percepì il proprio corpo riverso a terra, infreddolito e con l'umidità che gli lambiva le guance. Non era morto, non ancora.
Si mise a sedere, poggiando poi le mani alle ginocchia e tentendo di rialzarsi goffamente, ancora incerto sulle proprie gambe mentre mille pensieri gli vorticavano in testa, arrovellandosi gli uni sugli altri segno che la sua coscienza stava tornando al momento presente, lontanto dall'oblio dal quale aveva rischiato di sprofondare.
Non sapeva se tutto quello stava accadendo realmente, se si trattava di una prova, di un illusione o solo di uno scherzo imbastito da qualcuno che presto l'avrebbe pagata cara. Però, ora più di prima, era sicuro di una cosa:
Sapeva che cosa era. E anche chi era stato molto tempo fa, cosa non era più.
E l'oscurità non poteva inghiottire un angelo caduto.

« L'angelo di cenere... »
disse infastidito, mentre di puliva i vestiti dalla polvere che sentiva addosso.
Aveva già immaginato il suo epitaffio
« pateticamente morto all'inferno senza nemmeno combattere. »

Doveva tornare da lei.
Con un gesto risolutivo della mano, l'oscuro anfratto, quella prigione mentale venne dissipata alla velocità della sua volontà. Le pareti di roccia divennero presto visibile, rilucenti di un'uggiosa luce grigia -ancora, quasi come il cielo del Samarbethe, il paradiso perduto. Fu sufficiente solo che Zephyr indurì il suo sguardo perchè la trama della realtà intorno a lui prendesse a vorticare in un turbinio di fiocchi di cenere che spezzarono l'illusione e ricongiungessero la sua coscienza al suo corpo, lasciando in balia del freddo e in procinto di avvicinarsi a lei. L'unico motivo per il quale aveva deciso di combattere quella guerra disperata.
Il vento lo sferzò per l'ennesima volta, e malgrado il freddo Zephyr ebbe la prova di essere nuovamente vivo. Ancora in testa all'esercito, ancora accanto a lei.
La vide piangere, ma prima che potesse chiedergliene il motivo, con la coda dell'occhio vide gli sguardi sbigottiti dei soldati al loro seguito e seguendone la direzione capì che il loro viaggio era giunto al termine.
Forse per sempre. O forse, come sperava, sarebbe continuato ancora, per l'eternità.

« Temevo di averti persa prima della fine del viaggio. »


E per concludere ciò che aveva iniziato prima di sprofondare nell'oblio della sua mente le accarezzò la guancia, risalendone la morbida curva e asciugando le sue lacrime.
Nessuno sapeva cosa sarebbe successo di lì in avanti ma, ma non gli importava.
Avrebbero combattutto insieme, contro il destino e contro gli Dèì.
E se poi la morte fosse giunta a reclamarli entrambi, le sarebbero andati incontro assieme come
fuoco e c e n e r e.




Allora, per fare chiarezza.
La prova affrontata da Zephyr è l'oscurità. Durante la sua vita a causa di diverse situazioni di Bg etc... la sua essenza di luce è cambiata, simbolicamente diventando cenere. Una parte del suo inconscio non era però ancora del tutto convinta che la sua luce si fosse effettivamente estinta e la "prova" ha fatto sì che questo pensiero riaffiorasse facendogli percepire come l'oscurità del Samarbethe lo stesse divorando essendo l'oscurità nemico naturale della luce. Poi l'angelo -la sua seconda coscienza che esce quando utilizza la trasfomrazione di avatar- gli fa capire tutto e quindi riesce a superare la prova.
Posso capire che risulti abbastanza complesso. Se servirà fornirò spiegazioni più dettagliate.

Ps: ovviamente scusate il ritardo :v
view post Posted: 13/1/2020, 21:44 Confronto - Il Lascito degli Dèi
Conto vivamente di postare entro domani sera :v
Speravo di farcela ma le feste e la malattia mi hanno impossibilitato.
view post Posted: 23/12/2019, 01:32 Confronto - Il Lascito degli Dèi
CITAZIONE (Räv @ 21/12/2019, 14:08) 
Estendiamo il termine al 23 Dicembre alle 12:00.

Grazie e scusate ancora per il ritardo.
Spero di fare prima -e meglio- al prossimo giro :wow:
view post Posted: 23/12/2019, 01:29 Il Lascito degli Dèi ~ Whispers Arise (again?) - GdR
Aveva cercato una risposta tra le vie della città, camminando per tutto il giorno in cerca di sciogliere quei dubbi nati appena la sera prima. Si era unito alla folla che sciamava da una parte all'altra della città, mischiandosi a loro come un viandante chiunque solo per bearsi di quello spettacolo che rassomigliava in maniera così vivida, la vita all'interno del Bianco Maniero. Le strade pullulavano di persone, le guerra e gli eserciti radunati avevano portato lavoro e speranza in un popolo affranto. Mercanti erano giunti da ogni dove, pronti a vendere qualsiasi cosa, i fabbri picchiavano incessantemente i propri martelli sul metallo caldo, pronti a sfornare quante più spade gli avessero richiesto, le zanne del Leviatano rinato. E, per quanto sapesse bene, che quello non era il vecchio e fulgido Toryu, e che da nessun angolazione in quella città avrebbe scorto il Maniero Bianco, Zephyr parve bearsi di quel vago sentore nostalgico che la città palpitante poteva donargli.
Se il regno di Rainier era stato un enorme incendio divampato in nome di un Sovrano come più non se ne sarebbero visti, loro avevano creato solo una semplice scintilla
Questo era l'abisso che separava lui, da loro
E ora, aveva la netta sensazione che quella flebile scintilla, ora, rischiava di spegnersi al più piccolo alito vento.
Il suo infinito peregrinare l'aveva condotto alla fine del giorno alla piazza grande, ai piedi della chiesa dove lei voleva celebrare la sua incoronazione. La loro incoronazione.
E matrimonio.

M I S C R E D E N T E




« Non posso farlo. »

Non appena giunto ai piedi della chiesa era stato intercettato da un ragazzo riccamente vestito, con spille e bottoni dorati, una spada adornata all'elsa di pietre preziose e un mantello con legacci d'argento che svolazzava al ritmo del suo portamento nobiliare: Justus Laetor Heummerer.
Era un principe ancora imberbe, mandato del padre -infermo a causa di una malattia- a guidare uno degli eserciti più grandi del Dortan e a tenere alto l'onore della propria famiglia. L'aveva visto diverse volte ai consigli di guerra della Rosa, giovane e avvenente, era inesperto in battaglia quanto terribilmente arrogante e pieno di sè. La sua poca abilità di scherma era compensata da una mente fine e una sfacciataggine figlia della giovane età. Era una persona difficile da trattaere e estremamente influente, un connubbio che Zephyr non avrebbe mai voluto incontrare, non quando doveva dare ancora troppe risposte a molte domande.
Non desiderava altro che essere lasciato in pace, entrando in quella chiesa per scorgere l'enormità che la Rosa vi aveva nascosto dentro, come se quel simularco di opulenza commista a religiosità potesse dissipare i suoi pensieri come normalmente -pensava- sarebbe avvenuto con i credenti che frequentevano le liturgie assiduamente. Lui, che non aveva mai creduto, sperava forse che una rivelazione divina gli indicasse la strada? O forse voleva solo vedere il luogo nel quale si sarebbero sposati?

« non sarei mai in grado di tradirla. »

Rispose malinconico, più a se stesso che al proprio interlocutore.
Anche volendo, non avrebbe avuto la forza. Il principe Justus restò impassibile, sorridendo sempre più sicuro di sè e ravviandosi una morbida ciocca castana dietro l'orecchio. E con uno sbuffo di vento che scivolava sul sagrato della chiesa a sancire il loro silenzio, il giovane riprese.

« Io posso farlo con te o senza di te, Zephyr. Ti sto offrendo l'unica possibilità che hai di ottenere ciò che un tempo hai perso. Voi e questa vostra stupida religione che avete riportato in auge non siete nulla, senza il potere degli eserciti ai quali siete temporanemente a capo. » Fosse stato per lui avrebbero potuto portargli via tutto, finita la guerra. Sarebbe bastata solo lei, e lei soltanto. Nessun regno, nessun esercito.
Erano forti abbastanza da cavarsela da soli.
« Posso pagare i sacerdoti quanto e più di voi, posso convicerli a proclamarmi erede spirituale di Rainier cosicchè tutti mi seguano e mi adorino, e fidati che il popolo di Dortan dopo la guerra si affretterà a acclamarmi come salvatore. » gli girava intorno con aria di superiorità, come a voler tracciare idealmente un circolo dove lo aveva imprigionato con la sua logica arrembante e priva di falle.
« questi Dèi sono morti da tempo -se mai sono esistiti- e non si hanno notizie dei loro prodigi da tempi persi nelle leggende e voi... » rise divertito « beh, guardatevi. Voi siete solo un mostro dagli occhi rossi e una meretrice. Niente più che fantasmi di un'epoca morta e sepolta, derelitti che ancora camminano su questo mondo sognando i fasti di un tempo dimenticato. »
La voce del principe divenne più dura.
« Demolirò questi stupidi idoli e queste stupide credenze. Sono i nostri eserciti fatti di uominie che scendono in battaglia a combattere guerre, è loro il sangue versato nelle battaglie. Per questo dirò loro che non c'è nessun dio, nessun essere superiore da servire. Loro dovranno adorare solo i regnanti che concedono loro di vivere nelle proprie terre. Loro sono gli Dèi che la piccola gente comune deve venerare. »



Nell'ascoltarlo, Zephyr si sforzò di mantere la calma, limitandosi a un'occhiataccia aspra.
Aveva accettato l'infrangersi del suo sogno e poteva anche accettare che un ragazzino dalla mente sveglia stesse studiando un modo di far credere a tutto il Dortan di essere il nuovo sovrano invincibile.
Compreso sì, accettato no.
Perchè malgrado ciò che credeva il ragazzo, gli uomini adoravano l'intangibile, il miracoloso e la perfezione. Tre pregi che in un certo senso si potevano affiancare a Rainier. E non a un comune e fallace mortale.
Aveva lavorato molto e incessantemente per avere ancora la flebile e tremolante immagine di una città che anche solo vagamente rassomigliasse a quella del Bianco Maniero che avrebbe ucciso chiunque avesse mai minacciato così apertamente di portargliela via.
La religione era il collante del popolo. La fede l'avrebbe tenuto unito, gli avrebbe dato speranza, e i preti che loro avevano pagato li avrebbero convinti di come lui e lei, non fossero un mostro e una meretrice, bensì due prescelti per portare avanti la guerra.
Erano bugie, ma con uno scopo.

« Non osare minacciarmi, principe. Nemmeno tu puoi permettertelo. »

I due si trovavano in cime alla scalinata che conduceva alla chiesa, a pochi passi dall'enorme portone che dava sulla navata centrale. Ma nemmeno la vicinanza al luogo di culto e preghier riuscì a distogliergli dai loro intenti, parlavano di tradimento e blasfemia.
Di peccati che gli uomini avrebbe condannato senza appello.
Zephyr gli si avvicinò a ampie falcate, fissandolo con fredda rabbia alla quale Justus rispondeva con sorriso beffardo, forte della propria autorità al consiglio di guerra, che le dimensioni del suo esercito gli conferivano.

« Lo sai che non puoi farmi niente, Zeph... »


Venne strattonato prima di poter finire la frase, la mano dell'angelo che gli aveva afferrato la gola e lo aveva alzato di peso, lasciandolo a scalciare il vuoto mentre rantolava agonizzante tentando di liberarsi da quella morse che gli impediva di respirare.
Zephyr schioccò le dita della mano libera aprendo il portone poco distante per iniziare a muoversi lentamente verso di esso, gustandosi attimo dopo attimo l'espressione terrorizzata e violacea di quel volto che prima gli aveva chiesto di tradire la Rosa per rubargli il regno, poi aveva minacciato quella flebile estemporaneità che aveva per un attimo trasformato una comune cittadina in qualcosa che per lui, un tempo come allora, aveva rappresentato tutto.
Senti il dibattersi del suo prigioniero divenire via via sempre più fiacco ma, riuscì a raggiungere il centro della navata prima che questi perdesse i sensi, liberando la presa sulla gola e lasciandolo cadere a terra boccheggiante e esausto. per invitarlo a non alzarsi gli piantò un calcio sul petto e fendendo l'aria in un gesto secco fece sorgere dal pavimento delle catene di cenere che, in un palpito, gli allargarono gambe e braccia inchiodandolo al terreno. L'ultima di esse, come il morso di un cavallo, gli scorse in bocca, impedendogli di parlare e infastidire così ancor più l'angelo spazientito.
Scorgendo gli occhi indiscreti dei manovali, li soppeso con lo sguardo uno a uno, con loro che ricambianvano con deferenti cenni del capo. Attratti dal trambusto e incuriositi avevano dimenticato per un istante il motivo per cui si trovavano lì per impicciarsi di qualcosa che lui non voleva loro vedessero. Per non soddisfare la loro curiosità si limitò a alzare il mento verso una porta sul lato della navata. Questi risposero con un cenno del capo e, in silenzio presero i loro attrezzi e si dileguarono in pochi istanti, scomparendo all'ombra delle enorme colonne che puntellavano il cammino verso l'altare.
Erano uomini della Rosa, e conoscevano bene cosa si diceva dell'angelo di cenere.
Per questo non avrebbero mai detto a anima viva di come lui aveva preso per la gola un principe del Dortan per tortuarla nella dimora degli Dei.
Delle urla soffocate e un continuop dimenarsi sotto di lui, riportarono il suo sguardo sul volto del principe ora paonazzo e furente per l'affronto subito. Un affronto che stupidamente non si era mai aspettato di ricevere. Si chinò su di lui, per instillargli un'altra piccola dose di rabbia e paura che gli avrebbe insegnato la differenza che intercorreva tra un principe presuntuoso e viziato, e un gerarca del Re cui lui ambiva sostituirsi.

Gli menò un violento ceffone sul volto.
« Sei debole. »
ancora uno, sulla guancia opposta.
« Debole e patetico. »
un altro ancora
« Non sarai mai come lui. »


Con l'ultima sberla Zephyr si rialzò, accompagnato dal soddisfacente singhiozzare di quel principe dalle guance arrossate e gli occhi colmi di lacrime che, forse per l'ultimo sussulto di orgoglio, ancora stentavano a sgorgare.
Un principe morto avrebbe rischiato di sfaldare i ranghi del Leviatano ancor prima della guerra, e lasciare libero un principe che era stato preso a schiaffi da colui che doveva sposarsi con il comandante di tutti gli eserciti avrebbe sortito lo stesso effetto.
Zephyr sospirò, e soddisfatto per aver sfogato un commisto di frustrazione e rabbia, si sedette a fianco al principe ancora supino e dolorante, le gambe distere sul marmo e la schiena poggiata a una panca, lo sguardo alzato che guardava il soffitto e chissa cos'altro.

« Non ho mai voluto il Dortan o Theras. Non per me, almeno. » sorrise debolmente « ma questa mattina, camminando per le strade della città, ho visto uno scorcio di quello che un tempo era il vero Leviatano. Ricordo ancora molto bene come la gente si sentisse sicura all'ombra del suo stendardo e di come soverchianti fossero le sue parole e assoluto il suo potere. » Zephyr spostò lo sguardo all'enorme statua d'oro massiccio dello stolido Zoikar in fondo dalla sala. « In un certo senso, era come una religione: adoravamo il Sovrano e vivevamo la sua unificante utopia, combattendo per lui per asservire quanta più gente possibile al suo credo. »

Non seppe nemmeno lui perchè iniziò a parlare con qualcuno che aveva schiaffeggiato fino a pochi minuti prima. E Justus ricambiaca questa sensazione guardandolo incuriosito, distratto per un attimo dalle costrizioni che legavamo i lembi del suo corpo al freddo marmo.
Forse aveva solo trovato la propria risposta, e voleva condividerla con qualcuno. Chiunque esso fosse.

« adesso, senza di lui e orfani di un suo sostituto, abbiamo bisogno che gli ignari abitanti di Theras credano nei loro Deì, affidando loro il proprio spirito e asservendosi a coloro che più li rappresentano. »


Era solo una facciata, l'ennesimo teatrino imbastito per tenere saldo il regno.
Ma ero necessario, era questo che non aveva voluto capire sin dall'inizio rifugiandosi in quel piccolo dubbio che era naturalmente nato in lui al pronunciare della parola incoronazione. Come un tarlo aveva scavato nei suoi pensieri, erodendone le certezze e aprendo spiragli di insicurezze e pensieri -ora lo sapeva- infondati.
Che fosse per conveniente o meno, non aveva importanza. Avrebbe fatto di tutto per mantenere viva quella piccola scintilla e farla diventare almeno la metà dell'incendio con il quale Rainer aveva avvampato il mondo conosciuto.

« Così la sagezza di Haym guiderà le nostre decisioni e la forza di Zoikar ci sosterrà in battaglia. »


Nessuna divinità della procreazione o dedita a proteggere le opere degli artigiani. Il popolo aveva bisogno di forza e saggezza, questo avevano concordato. La volontà ferrea del guerriero guidata dalla sapienza dell'uomo saggio.
Non avrebbe saputo dire chi tra lui e la Rosa avrebbe potuto rispecchiare le qualità dell'uno o dell'altro, e forse proprio per queste loro mancanze avevano scelto questi due Daimon.
Una volta terminato Zephyr si alzò nuovamente in piedi e, estratta la spada per alzarla davanti ai suoi occhi, assaporò un'ultima volta l'aria stantia della chiesa. Immerso nel silenzio rotto solo dai rantoli di Justus che aveva ripreso a dimenarsi, iniziò a concentrarsi per tentare l'unica soluzione cui gli era riuscito di pensare per levarsi dall'incresciosa situazione nel quale si trovava: aver torturato un principe tra i più potenti del Dortan.
L'omicidio era rischisoso, e liberarlo fuori discussione.
Quindi l'avrebbe convinto.
Mormorò delle incomprensibili parole di una lingua dimenticata, e la spada brillò per un attimo, illuminando la chiesa di un lampo rosso.
Il principe ancora disteso ai suoi piedi perse all'istante i sensi, addormentandosi all'istante in un sonno profondo e lasciando che l'incessante tintinniò del suo dimenuarsi sfumasse in una quiete decisamente più confacente al luogo di preghiera e raccoglimento dove si erano attardati.

Il deserto, il sole cocente e l'aria di un caldo irrespirabile.
L'aveva lasciato lì, in un posto caldo come l'inferno e arido come il suo spirito.
Lui che non aveva fede, e che aveva minacciato la stessa fede da loro scelta.
Così avrebbe vagato all'infinito per quella distesa di sabbia sconfinata, con il sole sempre alto nel cielo,
costretto a un pellegrinaggio che non poteva interrompere in cerca dell'unica cosa che potesse abbeverarlo.
Il volto scottato, la gola arsa e il palato secco l'avrebbero attanagliato facendogli anelare anche la più piccola goccia d'acqua
che mai però avrebbe trovato. Non da solo, non senza di loro.
Dopo decine, centinaia di giorni, di tormento e disperazione, due voci l'avrebbero guidato. Potenti e antiche come Theras.
Li avrebbe riconosciuti subito, benchè non ne avesse mai sentito le voci.
E loro lo avrebbero guidato a abbeverarsi alla loro fonte, donandogli forza e conoscenza,
così che lui potesse diventare non il più degno, ma sicuramente il più devoto.



Aver azzardato qualcosa che mai aveva tentato prima l'aveva svuotato di qualsiasi energia, facendogli girare la testa con tale veemenza che per poco non cadde, sorretto solo da un panca alla quale aveva fatto in tempo a poggiarsi per non cadere rovinosamente al suolo.

« Che la sapienza del Savio Haym possa guidarti, Justus »

riverso al suolo, il placido sonno cui lo aveva costretto ne aveva disteso i lineamenti, scoprendo i dolci tratti della gioventù dapprima offuscati dalle smorfie di arroganza e di dolore.
Per quanto influente e per quanti uomini comandasse, non era niente più che un ragazzino.
E dal mattino successivo, non sarebbe stato nient'altro che una marionetta nelle loro mani, sottomesso a lui e alla Rosa su richiesta dei Daimon che avrebbe incontrato in quell'incubo che lo stesso angelo aveva infuso nella sua mente.

L'alba del mattino seguente il prete, prima di celebrare le funzioni del mattino, avrebbe trovato un giovane nobile riccamente vestito in mezzo alla navata della propria chiesa e, destatolo dal sonno, il ragazzo dimentico di ciò che gli era accaduto il giorno prima si sarebbe scoperto un fervente servitore degli Dei, ansioso di aiutare la propria fede con ogni mezzo possibile. Riconoscendo al contempo lui e la Rosa, come sovrani benedetti dagli Dèi, perchè proprio loro in una visione glielo avevano detto.

« e che la spada di Zoikar ti indichi la vittoria. »


Una spada che loro stessi avevano affilato, con la quale avevano trafitto migliaia di anime perdute, asservendole alla loro causa.
Nell'aprire il portone della chiesa, uno sbuffo di vento gli scompigliò i capelli d'argento, sospingendo il suo sguardo verso l'interno della chiesa per un'ultima volta.

« Sarai uno stupendo regalo di nozze, principe Justus. »
In risposta all'enorme e volgare statua d'oro massiccio che aveva commissionato la rosa, per bilanciare la spada con la conoscenza, avrebbe voluto regalarle degli scritti sul Saggio Haym: un tomo spesso, e finemente rilegato, un oggetto di sicuro risalto anche in mezzo all'opulenta mobilia di un regina.
E invece ora aveva un giovane e vigoroso, principe. Con un esercito al seguito.
Che avrebbe fatto qualsiasi cosa avessero detto lui di fare.
Ne sarebbe stata contenta, ne era sicuro.




Innanzitutto chiedo scusa a tutti per il ritardo, e a Anna perchè dopo alla sua proposta di matrimonio rispondo con un post peggiore di quanto avrei voluto.
Purtroppo in questo periodo non avrei comunque potuto fare molto di più :v:

In pratica Zephyr non sa se il matrimonio proposto dalla Rosa sia per amore o di facciata, ma alla fine si convince che se, anche fosse di facciata, vederli come i due messi dei Daimon potrebbe riunire la gente sotto un'unica bandiera come era ai tempi di Rainier (e questo gli gusterebbe assai)

Annina :wow:
view post Posted: 21/12/2019, 02:08 Confronto - Il Lascito degli Dèi
Purtroppo non riuscirò a rispettare il termine. Anche se dovessi venir escluso dal contest, posterò comunque entro il fine settimana. Intanto vi chiedo scusa :ter:
view post Posted: 27/11/2019, 00:40 Domande & Chiarimenti - Il Lascito degli Dèi
Vista l'imminente scadenza del termine, ho dovuto postare con codici un pò a caso e layout rivedibile etc...
nel caso fosse possibile, potrei ancora procedere a modificare leggermente il post nella giornata di domani? Chiedo perchè questo potrebbe avvenire oltre la scadenza del termine :look:
view post Posted: 27/11/2019, 00:28 Il lascito degli Dèi ~ l'ultimo Leviathan - GdR

Loro. Loro due. Soli
Così diversi nello spirito quanto negli ideali.
Eppure uniti dallo stesso stendardo.
Quello di un Sovrano scomparso ma mai dimenticato.
E, ora, il destino gli aveva imposto la più ardua delle prove,
la stessa compiuta dal Re che non perde mai anni addietro.
Come se loro potessero paragornarsi a lui.
Come se loro due, soli, potessero sperare di eguagliarlo.



I M P A R E G G I A B I L E



Gli occhi sgranati, le gambe tremanti.
Un rivolo di sudore percepito sotto la folta barba scura e ispida e il cuore che batteva all'impazzata.
Le gambe incerte parevano non volersi muovere, la mano che impugnava la spava tremava visibilmente, minacciando di fargli perdere una presa mai così traballante in tutta la sua vita di soldato.
Sentiva di dover provare a reagire innanzi al ruggito atavico del mostro, di dover combattere, di provare a fare qualcosa, qualsiasi cosa che fosse affrontare il suo destino o scappare miseramente a gambe levate. Ma non riusciva a muoversi. Paralizzato dall'orrore che gli si parava davanti agli occhi, una tetra defromità manifestatosi lì, nel suo villaggio.
Non ci aveva creduto, non aveva voluto crederci.
Solitamente i viandanti narravano delle loro peripezie, recitando abilmente per far credere di aver trovato lungo i propri viaggi di laghi incantati oltre la Ystfalda, caverne piene di artefatti magici nei regni d'Oriente, mostri nati dal ventre della terra nel silenzioso deserto dell'Akeran, tutte storie diverse, niente più di favole che aveva lo scopo di incantare i bambini e gli adulti più sognatori per racimolare un pò di attenzione o dare valore alla mercanzia che portavano con sè. Negli ultimi tempi però le storie erano sempre le stesse; e gli abili attori che prima parlavano di sconfinate o miracolose ricchezze, avevano gli occhi colmi di terrore mentre narravano di abomini d'ombra, apparsi nel cuore nella notte in quello o quell'altro villaggio, uccidendo i pochi soldati accorsi ad affrontarli e smembrato facilmente i paesani disarmati. Era un castigo, aveva sentito dire, una punizione divina.
Come se gli umani con i loro difetti avessero spezzato il sogno degli Dèi e questi, in risposta, avessero preso a partorire i n c u b i.
Non stava sognando. Aveva visto in lontananza grandi spirali di fumo nero che offuscavano il placido cielo notturno e sotto di esso un grande incendo che avvampava già diverse abitazioni e, davanti a esso un mostro con pelle color pece, e fattezze vagamente umanoidi, il volto liscio e senza occhi, crepato in mezzo solo da una fessura circolare riempita da zanne bianche come la luna. Aveva spalle larghe e disallineate, braccia così lunghe che i dorsi delle mani sfregavano sul terreno polveroso ogni qualvolta questi si muoveva in avanti con passo ciondolante. Il suo ruggito pareva un lamento di eterna sofferenza, profondo come l'antro più scuro del mondo, capace di far sprofondera l'animo umano in un baratro senza fine.
La morte incarnata.

« Che il vostro animo non vacilli uomini! »

Come ipnotizzato dal mostro che avanzava verso di lui, non si accorse della voce oltre le sue spalle.
Non riusciva a staccare gli occhi dal mostro, quasi come se la minima distrazione avrebbe potuto decretare la sua morte.
La parete di una casa mangiata dalle fiamme crollò rovinosamente per strada, e il mostro ruggì nuovamente per un tempo che gli parve infinito, dando fondo a tutta l'aria contenuta nei suoi nefasti polmoni.
Sarebbe quasi certamente svenuto dalla paura, se non fosse stato per quella mano che sentì appoggiarsi sulla spalla. Un tocco dolce, sicuro e una figura vestita di un'armatura dorata che lo superò di un passo, una spada di lucente metallo pronta a ingaggiare il combattimento.

« Non avere paura. Non è ancora tempo di morire. »

Non riuscì a vederlo in viso, ma la sua sola voce era riuscito a calmarlo più di quanto avesse sperato.
Alle sue spalle, sentì lo sferragliare delle armature dei soldati, i suoi compagni, che uan volta raggiunto lui e il misterioso cavaliere, puntarono le picche per terra, in attesa di ingaggiare il combattimento. Nessuno di loro fiatò, limitandosi a cenni del testa che denotavano un'intesa figlia di un'amicizia che durava da molto tempo e poi attesero tutti in attesa del cavaliere alla testa del loro gruppo, mentre il crepitare del fuoco cresceva di intensità.
Come l'eroe delle storie che gli avevano raccontato da piccolo, dotati di armi scintillanti e una splendida armatura, volontà incrollabile e una maestria di spada senza eguali; li avrebbe guidati a sicura vittoria, per poi festeggiare con loro una volta passato il pericolo.
Avrebbe voluto dirgli come il mostro, una volta ghermiti gli uomini tra i suoi artigli li facesse e s p l o d e r e in una chiazza di liquame color tenebra, ma non lo fece. Un eroe come quello sapeva già tutto su come combattere un mostro, sicuramente più di un soldato comune come lui. Era un semplice uomo, incapace da solo di compiere un'impresa tanto ardua.
Deglutì, la gola secca a causa del divampare delle fiamme sempre più alte, e rinsaldò la presa sulla spada.
Vide il cavaliere girarsi per un istante nontandone i capelli biondi rifulgere della luce del fuoco e lo sguardo colmo di ardente decisione.
Passò un istante, e poi l'eroe si lanciò all'assalto del mostro.
E tutti loro lo seguirono, pronti a supportarlo per salvare la loro casa da una minaccia che nessuno aveva mai pensato di dover affrontare.



Come avrebbero fatto? Quanto tempo avrebbero impiegato?
Tanti, troppi regni si spartivano il Dortan, e altrettanti sarebbero stati i Regni da convincere.
Potevano veramente riuscire anche loro dove solo Lui aveva trionfato?
Come potevano due servi fedeli come loro anche solo pensare di compiere le Sue stesse gesta?
Oltre alle sue grandi doti Lui aveva potuto contare su Chevalier e su Persona.
E loro avevano solo cenere e spade.
Poco, troppo poco.



Medoro passò il resto di quella notte e tutto il giorno seguente a aiutare gli abitati del villaggio nel rimuovere le macerie delle abitazioni distrutte e a scavare le tombe sulle quali coloro ancora in vita avrebbero potuto piangere i morti, uomini e donne che il mostro aveva trasformato in grumi di sangue nero schizzati qua e là, non lasciando nemmeno un corpo da piangere ai propri cari.
Chi era riuscito a farsi forza, si era unito a lui in quel suo blando tentativo di far tornare il villaggio alla normalità il prima possibile. Gli altri, invece, si erano radunati in piazza, penitenti, mentre quello che all'apparenza sembrava un comune viandante li ammoniva per i loro peccati, e come l'unica loro speranza di salvezza sarebbe stata dirigersi a Oriente per unirsi al comando di una Regina lontana in quella che sarebbe stata l'ultima grande guerra della loro tempo; contro gli stessi demoni che ora minacciavano le loro vite. Gli altri regni stavano già accorrendo, diceva. Dovevano sbrigarsi perchè il crepuscolo incombeva su di loro, su tutto Theras. E loro tra ansiti e sospiri timorati, inginocchiati e con le mani giunte, pregavano che gli Dèi accogliessero le loro preghiere e che i loro soldati imbracciassero le armi.
...se solo i governi fossero stati così accomodanti da accogliere la voce di chi veniva governato.
Medoro voltò lo sguardo dall'altra parte, fuggendo il sermone per tornare a prodigarsi con coloro che, invece che genuflessi, stavano cercando di dare nuovamente una parvenza di normalità al luogo che abitavano.
Sarebbe stato difficile non credere alle parole dello straniero dopo la tragica notte appena trascorsa. Presto quelle voci sarebbero state amplificate da chiunque le avesse udite in principio, propagandosi fino a giungere anche al più sordo di loro.
Tutti avrebbero saputo.
Troppo spaventati, avrebbero creduto anche alla più inverosimile delle storie pur di aggrapparsi a un'insperata possibilità di sopravvivenza.
Un pò come avevano sempre funzionato le religioni, solo che questa volta la minaccia era stata più tangibile che mai, rispetto all'astrattismo delle deformità con le quali i vari credo li avessero mai intimoriti.
Il tramonto giunse in fretta e con esso la quiete. La paura e la concitazione si affievolirono al calare di un tiepido silenzio, e dopo una notte insonne e una giornata passata a faticare, Medoro rincuorò un'ultima volta le guardie -i cui turni erano stati raddoppiati- , obbligandosi infine a riposarsi.

Dopo averlo salvato la notte precedente, Brennt, un corpulento soldato dell'Arconte Doleos, con barba ispida e occhi nocciola aveva insistito perchè si unisse a lui a cena, offrendogli anche un riparo per la notte. Non aveva famiglia, gli aveva detto, e poteva quindi permettersi di concedergli una stanza per la notte. Medoro aveva accettato l'invito di buon grado approfittando dell'occasione per spiegargli il motivo della sua visita: la sua missione. Scoprendo come Brennt -questo il nome del padrone di casa- avesse in gioventù sognato di diventare un eroe senza macchia della capitale, senza aver però mai avuto il coraggio di abbandonare il luogo dove aveva sempre abitato, e dove tutt'ora resideva. Dopo averlo ascoltato, Medoro lo pregò di non chiamarlo eroe, evitando di incedere sugli anni che lo avevano visto rifugiarsi tra i vicoli come un ratto, prodigandosi invece nel convincerlo di come la missione che seguiva ora dovesse avere la priorità su tutto.
Si lasciò andare, raccontando a Brennt tutto ciò che aveva bisogno di sapere. E, alla fine, Medoro si augurò -come poche volte aveva fatta in vita sua- di aver fatto breccia nell'animo di quell'uomo.
Era una possibilità che non poteva sprecare.
« Il male incombe su di noi. » parlò sinceramente, calmo, come se averle ripetute così tante volte gli avessero fatto perdere di vista il loro spaventoso significato -che entrambi avevano toccato con mano la sera prima. « su tutti noi, Brennt. » Aveva insistito sui particolari più macabri così da farlo pensare sempre di più alla notte prima, a quanto fosse spaventato e inerme innanzi a coloro che minacciavano l'intero Theras. E l'aveva visto sfregarsi le mani sudate più di una volta, lo sguardo lacerato da ferite ancora troppo fresche perchè potessero essersi già rimarginate.
Quando decise che fosse stato abbastanza, poi, Medoro mosse la propria richiesta e Brennt, benchè combatutto, vedeva sempre più chiaramente la r e a l t à che avrebbe presto dovuto affrontare. L'avrebbe vista come l'unica possibilità di salvezza.
...
« Al momento giusto possiamo tutti essere eroi. E non servono spade scintillanti o armature magiche. »
Tentò di incoraggiarlo, provando a dissiparne i dubbi « L'onore è certo importante, ma anch'esso non è fondamentale in alcune occasioni. » Deprecabile da parte sua parlare così dopo che, a tutti gli effetti, aveva abbandonato il proprio onore tempo addietro, in un vicolo lurido della capitale.
« Sono i sacrifici quelli che definiscono gli eroi. » Medoro fissò il proprio calice di vino, agitandolo debolmente tra le dita « E più il compito dell'eroe è importante, più grandi essi sono »
Svuotò la coppa in gola, sperando di aver fatto abbastanza per una sola sera.
Il proprio interlocutore pareva voler fissare anch'egli solo il proprio calice finchè, a un tratto, bevve anch'egli tutto il vino un solo sorso, sperando che il calore dell'alcol rischiarasse la foschia di pensieri che gli si arrovellavano in testa.
A Brennt interessava il bene del villaggio sopra ogni altra cosa. Non aveva affetti di cui preoccuparsi, ma questo aveva fatto sì che tenesse ancor di più alla comunità dove abitava, dove era nato; dove aveva sempre vissuto. Anche per questo aveva deciso di diventare un soldato.
Medoro, per un momento, si chiese quante persone nel corso delle sue conquiste fosse state ingannate dal Re che non perde mai, e come avesse potuto sopportare il peso di tutte quelle menzogne.
« E sia, Medoro » Brennt aveva alzato lo sguardo verso di lui, le guance arrossate dal vino « Se davvero gli Dèi ti hanno investito della loro sacra missione, avrai la tua udienza dall'Arconte come mi hai richiesto. » battè il pugno sul petto in un gesto che a Medoro parve a metà tra una promessa e un saluto tra compagni d'arme. « Il giorno seguente all'indomani, attenderemo l'arrivo del tuo compagno e poi vi condurrò dall'Arconte. » Battè un pugno sul petto « Mi ascolterà, vedrai. »
...non ci credeva nemmeno lui, glielo lesse negli occhi.

« Ti ringrazio, Brennt. » Poggiò le mani sul tavolo, alzandosi stancamente dalla sedia, esausto dopo una notte insonne e il giorno passato a faticare insieme agli abitanti.
« La mia è la causa più giusta che tu possa mai sperare di servire in vita tua » gli parlò sinceramente, gli occhi velati di una leggera malinconia. Tempo addietro, qualcuno avrebbe potuto recriminare per la dubbia moralità del Monarca che aveva giurato di servire -anche se pochi avevano osato tanto in sua presenza. Mentre ora, al cospetto degli Dèi, e di fronte a una minaccia così grande, nessuno avrebbe potuto addurre critiche a ciò per cui si stava prodigando.
Forse solo sui loro metodi.
« Devo riuscire a compiere questa missione e... non c'è altro modo. »



Non gli rimanevano più altre possibilità.
Non c'era tempo e avevano finito le idee,
e quella era stata l'unica intuizione che gli era parso poter funzionare.
Potevano davvero tentare di fare ciò che lui aveva fatto?
Non sarebbe stato come t r a d i r l o il solo pensare di ergersi al pari di lui?
Medoro aveva tentato una prima volta con la diplomazia,
fallendo miseramente e evintando per un soffio scontro armato.
Per quanto odiasse negarlo, Zephyr non poteva certo radere al suolo i villaggi e le fortenzze.
Altrimenti avrebbero raccolto solo cadaveri e cenere invece di un esercito.
Inevitabilmente, si chiesero cosa avesse fatto Lui al loro posto.



Medoro era stato di parola.
Lo avevano atteso al limitare del villaggio, dal quale, a poca distanza, si intravedeva già la loro destinazione.
Zephyr non aveva mai dubitato delle capacità in combattimento del cavaliere, ma dopo essersi divisi i compiti si era chiesto più di una volta se quegli anni trascorsi da reietto avessero levigato la sua moralità al punto da renderlo capace di ciò che gli era stato chiesto.
Quando ancora il Maniero Bianco era intatto, tra le menzogne e i complotti dei cortigiani Medoro era sempre stato il caposaldo integerrimo dell'onesta, intonso quanto la sua armatura, rifuggendo qualsiasi tentativo di corruzione da parte un ambiente per la gran parte viziato dai complotti. Ma nel vedere lo sguardo deciso del soldato che li accompagnava -aveva detto chiamarsi Brennt- Zephyr si era dovuto ricredere.
Forse le ideologie della sua gioventù erano sfumate, forse la vita da reietto l'aveva costretto a adattarsi.
Forse era solo diventato più furbo: una dote non da poco.
Finora non aveva disatteso quanto promesso, e quindi, come da accordi, avrebbe lasciato che fosse lui a rivolgersi all'Arconte con la consueta diplomazia per provare a persuderlo a ammorbidirlo anche se, da quello che sapevano, il governatore di quelle terre era un codardo, avido e dittatoriale. Solo Brennt non aveva ancora perso le speranze nei suoi confronti.
Arrivarono in breve alla residenza dell'Arconte, che a Zephyr ricordò vagamente una delle tante tenute estive che i nobili solevano utilizzare ai tempi del Re che non perde mai per rifuggere l'atmosfera greve che spesso si respirava nei meandi del Maniero Bianco. Un posto dove i deboli fuggivano.
Ebbe anche l'impressione di esserci già stato, di averlo già visitato in un'occasione che era sicuro non avere alcuna importanza, ricordando però come nessuna dimora di nobili che avesse scorto -quando era ufficiale del Re- fosse così fatiscente.
Era un anonima e piccola rocca, con una corta cinta muraria e una manciata di torri, posta strategicamente in cima alla collina, ma benchè non fosse avido di dettagli di quel posto che presto avrebbero conquistato, gli riuscì difficile non notare come l'incuria avesse conquistato quel posto prima di loro.
Una folta e verde edera penzolava su gran parte dei bastioni esterni, e laddove la pietra era libera dalle piante vide mattoni sbeccati e pronti a sgretolarsi al minimo tocco. Una delle torri era crollata per metà e un altra mostrava uno squarcio su un fianco.
Un edificio confacente a un'aristocrazia decaduta, polveroso e umido. Solo l'ombra di ciò che un tempo era stato.
In disgrazia, come il resto dei nobili del Dortan.
Oh, quanto avrebbe riso Lui delle disgrazie di coloro che lo avevano soppiantato.
Brentt fu il primo a arrivare. Salutò i due soldati di guardia ai lati del portone con un gesto della mano e, con uno schiocco delle briglie aumento il passo del cavallo, distanziandoli quanto bastava per arrivare prima di loro e far sì che tutto andasse come pianificato.
Sicuro che ora nessuno potesse sentirli, Medoro si volse verso di lui. « Mi sembri stanco, Zephyr. Posso procedere da solo, se preferisci. » Per quanto stanco a causa degli sforzi eccessivi a cui si era sottoposto incanalando ben più potere magico di quanto normalmente potesse permettersi di fare, Zephyr si chiese quanto evidente fosse la sua spossatezza, per far sì che Medoro si preoccupasse per lui.


« No, posso farcela. » Si erano fatti carico di quel fardello entrambi, e voleva essere presente a ogni costo, per assicurarsi che tutto funzionasse « Non avverto la presenza di particolari pericoli, quindi anche se la situazione dovesse degenerare non dovrai preoccuparti della mia incolumità se è questo che intendi. »


« Sono stati giorni impegnativi, sia per te che per me e non... » Prima che potesse terminare la frase il cavaliere si accorse di essere ormai a ridosso dell'ingresso e, capendo di non poter più parlare liberamente, salutò le guardie con un educato sorriso. Zephyr li degnò appena del proprio sguardo.
Smontarono etrambi da cavallo, lasciando le briglie ai soldati che avevano appoggiato le proprie picche alle mura, offrendosi di condurre i loro cavalli alle stalle mentre i cardini del portone cigolarono tetri per spalancargli le porte di quel rudere umido e ombroso.
Se non avevano nemmeno dei paggi in grado di prendersi cura delle cavalcature degli ospiti, dedusse, anche la servitu incaricata delle pulizie doveva essere piuttosto scarsa.
Sempre preceduti da Brennt, con il fiero portamento dei cavalieri e dei dignitari, attraversarono con schienza dritta e mano sulla propria spada un paio di lugubri corridoi dove la luce del giorno filtrava da strette feritoie verticali, puntando lo sguardo avanti a loro in attesa di arrivare al cospetto di quello che si proclamava regnante di quelle terre povere e brulle.
Arrivarono in breve tempo al salone principale della rocca, una sala alta e rettangolare, con diverse porte ai lati che conducevano a sale più modeste o altre corridoi, sparuti e polverosi stendardi logori tinti in lontano passato di un rosso acceso e ora sbiadito pendevano inerti dalle pareti e un largo finestrone dal lato opposto al loro irrorava con bianca luce del mattino, svelando ogni piccoloo e decadente dettaglio della sala. A qualche passo dall'ampia vetrata, poco davanti a essa, un paio di scalini conducevano a un piccolo podio sopra il quale poggiava uno scranno di pietra, la cui ombra si allungava per tutta la lunghezza del salone, fino ai loro piedi.
Seduto mollemente su di esso, una sagoma di un uomo non più nel fiore degli anni, ticchettava le propria dita su un bracciolo. E ai suoi lati, una decina di guardie attendevano in piedi, con la picca poggiata a terra e l'elmo a coprire i loro sguardi.
« Vi porgiamo i nostri omaggi, Arconte Doleos.» Medoro si esibì un debole inchino, piegando il braccio sull'addome e chinando lievemente il capo. La deferenza avrebber importo loro di inginocchiarsi, ma entrambi sapevano che egli non era un Re, tantomeno il loro Re. Zephyr si prodigò nello stesso movimento, seppur più svogliato. « Come ser Brennt vi avrà già informato, siamo messi di sventura. Grame sono le notizie che portiamo, e meste saranno per voi le nostre parole. » il tono di Medoro si fece più deciso « Ma con noi portiamo anche speranza. »
Zephyr ebbe l'impressione che l'Arconte li sottovalutasse, al punto da non richiedere nemmeno che consegnassero le armi che tenevano alla cinta prima di presentarsi al suo cospetto. Indolente, o forse semplicemente troppo stupido e pieno di sè per curarsene. Con gli occhi che si erano abituati alla forte luce davanti a loro, notò come egli avesse fili grigi tra i capelli castani, senza barba e lo sguardo a metà tra il tedio e l'irritazione. Li stava scrutando dalla testa ai piedi, soppesandoli con silenziosa arroganza e smuovendo in Zephyr un nervosismo che forse non sarebbe riuscito a trattenere.
Dopo un paio di istanti l'Arconte si alzò per replicare al cavaliere giunto da lontano. « Mi dolgo quindi nell'apprendere le vostre nefaste notizie, ser Medoro, ma vi informo che sono già stato messo al corrente del motivo per il quale siete giunti fino alla mia dimora. Brennt me ne ha parlato ieri, e so bene cosa ne pensi il popolo di tutto questo, di come siano terrorizzati da questa guerra che andate profetizzando. »
Zephyr non ne fu sorpreso. Un umano che aveva provato a evitare l'inevitabile, uan storia vecchia come il mondo.
Si sarebbe aggrappato a qualsiasi cosa prima di trovarsi davanti alla scomoda verità. E invece di fidarsi ciecamente di ciò che gli era stato offerto aveva tergiversato. Come stava tentando di fare Medoro, anche Brennt aveva provato a evitare quello che anche per lui sarebbe stato lo scenario più sconveniente.
« E soprattutto quali richieste siete volete avanzare a me!.» L'Arconte picchiò il pugno sul bracciolo del suo freddo trono di pietra, alzando repentinamente e con sguardo furioso e l'indice che si alternava a puntare entrambi gli avventori che si erano presentati alla sua porta. « V-voi credete davvero che mi priverò del mio esercito, che lascerò i miei possedimenti sguarniti e in balia dei nemici per seguire la vostra Sovrana in una guerra lontana centinaia di leghe?! » Brennt, sbigottito da come quel discorso forse l'opposto di quello che gli era stato promesso il giorno prima, cercò di intervenire, recriminandolo debolmente per poi zittirsi dallo sguardo furente del suo Signore.
E loro avevano scommesso tutto su di lui. Che doveva convincere tutti della necessità della loro missione, e che aveva l'incredibile capacità di venire zittito da una persona come Doleos.
« Mio padre, ha conquistato queste terre dopo la dipartita di Ray!» -Zephyr ebbe un fremito nel sentire quel nome pronunciato senza aggettivi di contorno, quasi come si credesse al pari di un re; del Re - « e non sarò certo a svenderli a una puttana che ha conquistato quello che possiede solo per essersi donata a mezza corte in un tempo dove la lascivia veniva premiata più dell'onore! »
L'avrebbe ucciso seduta stante se non fosse stato per Medoro che, prendendolo per un braccio, lo fece desistere dall'estrarre la spada.
Gli ci volle un istante perchè la sua mano si convincesse a rinfoderare quel poco di lama che aveva già snudato.
Avrebbe dato a Medoro un'ultima possibilità. Ma un altro insulto verso il Re che non perde Mai, o la Rosa e l'Arconte sarebbe diventato un mucchietto di cenere.
« Il sommo Zoikar reclama l'armata invincibile del Leviatano per evitare il crepuscolo degli uomini, Doleos. » Medoro si fece avanti di qualche passo, per nulla intimorito dal nobile sbraitante « e i demoni che stanno apparendo nei villaggi sempre più spesso sono una prova che l'oblio sta nascendo dalle viscere della terra per inghiottirci. Dobbiamo unirci tutti contro questa minaccia. Possiamo davvero permettere che il perdurare della divisione del Dortan sancisca la sua fine ?. »
« In questa fortezza, con i miei soldati, saremo ben in grado di affrontare un demone, se si dovesse presentare l'occasione. »
« E i villaggi bruceranno uno dopo l'atro! Non capisci? Su cosa regnerà la tua avidità una volta che tutto sarà spazzato via? Quante morti dovranno subire gli abitanti dei villaggi circostanti per convincerti che non c'è altro modo se non quello di seguirci nella nostra battaglia? Con quale coraggio guarderai i tuoi uomini, quelli che chiami sudditi, affermando che non farai niente per proteggerli? Come potrai fregiarti dei tuoi titoli conscio della tua ignavia e della tua codardia nell'agire per un bene più grande? Come potrai... »
Diversamente dalla sua, la rabbia di Medoro nasceva dalla volontà di proteggere gli indifesi, nella speranza che l'Arconte mostrasse un minimo di considerazione per coloro che l'avevano reso ciò che era. Sarebbe stato un sovrano senza fiducia.
Voleva dargli modo di salvarsi, provando a convincerlo come aveva convinto Brennt, ma la risposta di Doleos gli fece capire come questo non fosse possibile.
« SMETTILA! » l'Arconte urlò furibondo, una presenza di spirito troppo blanda per resistere all'arringa di chi, un vero Re, l'aveva servito. « Io non devo spiegarti un bel niente, Medoro! Niente, assolutamente niente! »
« Dentro queste mura sono io che comando! Io faccio le domande e voi dovete prostrarvi. Le persone muoiono ogni giorno, e che sia per fame o per vecchiaia o per demoni, questo non cambia le cose. »
Paura. Zephyr gliela leggeva negli occhi, un terrore che aveva nascosto sotto una coltre d'indifferenza, rifugiandosi in quel castello insieme a tutte le sue guardie per rifuggere i pericoli oscuri che aveva sentito vessare i villaggi sotto il suo controllo.
Al sicuro, circondato dai soldati ai suoi ordini e alla servitù in attesa che la tempesta passasse. Ignorante e egoista.
Un comandante con poco coraggio e con ancor meno carisma.
Un uomo al pari degli altri, solo più dispotico e avaro, non certo un individuo degno di essere seguito, non quando una crisi senza precedenti incombeva su tutte le loro teste.
« Guardie, prendete questi due traditori e giustiziateli seduta stante! »
I soldati, dopotutto, erano semplici uomini con timori da superare e affetti da proteggere. Stupidamente, Doleos non aveva tenuto conto di questo. Si rivolse verso le guardie alle sue spalle.
Nessuno dei soldati si mosse di un passo, gli sguardi colmi di livore puntati verso l'Arconte.
Medoro scosse la testa sconsolato, Zephyr sorrise della prima gioia di quella giornata e Brennt ebbe un attimo di esitazione.
« Muovetevi! Vi ho ordinato di prenderli, catturateli e uccidet... »
Mentre ancora inveiva contro i soldati, le sue parole vennero spezzate da un getto di sangue e viscere, e dalla punta di una lama che gli sbucava dal costato. Provò per un momento a alzare le braccia tremanti come a cercare di estrarla ma caddero immote lungo i fianchi mentre gli ultimi palpiti di vita abbandonavano convulsamente il suo corpo.
Medoro ritrasse la spada, e il corpo morto dell'Arconte ricadde a terra alzando un lieve sbuffo di polvere sotto il suo sguardo laconico.
L'aveva colpito alle spalle, senza onore alcuno. Proprio come egli meritava.
Brennt, scuro in volto, si avvicino al cavaliere che ancora fissava il cadavere sotto di lui, comprendendo anch'egli il dolore al quale si era costretto, incapace di trovare un altro modo di agire. Aveva sperato in un esito diverso.
« Mi dispiace, Brennt. Ho fatto tutto il possibile ma... » il soldato gli mise una mano sulla spalla, comprensivo e al contempo frustrato. Sotto di loro, una chiazza di sangue si stava dipanando dal cadavere ancora caldo dell'Arconte.
« Lo so, Medoro. Nel momento in cui non abbiamo rispettato gli ordini di Doleos, ci siamo macchiati di tradimento, ma sono contento tu ci abbia sollevato dal crimine della sua uccisione. »



« Dobbiamo muoverci, Medoro. »
Era andato tutto come doveva andare.
« Non abbiamo più tempo, abbiamo ancora molta strada da fare. »


Medoro si rivolse un'ultima volta a Brennt, posando una mano sulla sua spalla come aveva fatto la notte che lo aveva salvato dal mostro.
Zephyr iniziò a incamminarsi verso le stalle, per nulla curioso di sapere in quale elogio Medoro si stesse prodigando nei confronti di Brennt o di come avesse intenzione di rincuorarsi a vicenda. Quello era stato solo il primo passo di un percorso che, in quel momento, era ancora interminabile. La prima scintilla di quello che doveva presto diventare un incendio.
Medoro lo raggiunse mentre lui stava ancora conducendo i cavalli fuori dalla stalla. « Meritava almeno un ringraziamento, dopo quello che l'abbiamo costretto a fare. » giustificò il suo ritardo con severità, provando a spiegargli qualcosa che Zephyr ben sapeva ma che poche volte aveva considerato importante. « Guiderà l'esercito di questo regno in battaglia solo perchè noi l'abbiamo ingannato e ucciso gente che conosceva da una vita. » si puntò un dito sul petto «Io l'ho convinto a tradire il proprio signore. »
Zephyr si chiese per quanto tempo i sensi di colpa avrebbero tormentato Medoro.

« Doleos era uno stupido. E un debole. Siamo venuti qui proprio per questo, perchè potevamo volgere la situazione a nostro favore. E lo stesso faremo almeno per un paio di altri regni... »


Prima ancora che la Rosa arrivasse alla locanda, il cavaliere aveva già mandato dei ricognitori a sondare la situazioni nei piccoli regni, cercando di capire con che gente si sarebbe ritrovata a trattare per unire nuovamente i regni del Dortan, prendendo informazioni sui sovrani e sulle personalità più importanti come i capi villaggio o soldati di alto rango per sapere quale genere di persone avrebbe dovuto tentare di convincere pacificamente a partecipare alla sua causa. Fu Zephyr che gli aprì gli occhi.
Partiti alla conquista dell'intero Dortan, Medoro aveva caparbiamente tentato con le sole belle parole di convincere il nobile di turno a cedere il proprio esercito per una guerra contro esseri che nessuno aveva ancora mai toccato con mano, troppo distanti, ancora troppo irreali. Ed erano stati cacciati in malo modo, evitando lo scontro armato per il rotto della cuffia.
Aveva voluto evitare vittime inutili, fallendo miseramente.
« Già, ma abbiamo comunque derubato Brennt del proprio onore. Ringraziarlo e incoraggiarlo mi sembra doveroso. »
E se quello era un regno piccolo e povero, e Doleos un regnante mal visto e avido e codardo, Brennt era stata la vittima perfetta.
Era bastato aspettarlo rincasare, per far saltare in aria degli edifici con un esplosione fragorosa, e ingannarlo prendendo le sembianze di un mostro nero. La sua cenere era diventata pece, e dopo una breve schermaglia con i soldati gli era stato sufficiente teletrasportarsi al sicuro lasciando dietro di se una sbuffata di liquame nero per fargli credere che Medoro avesse ucciso il mostro con le proprie mani.
Una farsa bella e buona. Di vero c'erano state solo le morti di qualche abitante e la p a u r a.
Anch'essa in parte magica, in parte terribilmente vera.


« Potrai ringraziarlo una volta finita questa guerra, nel caso riuscissimo a vincere. Altrimenti sarà lui a doverti ringraziare, per avergli dato la possibilità di combattere per la propria vita in prima linea. »
Zephyr montò sul cavallo, deciso a tagliare corto e dirigersi verso la tappa successiva del loro viaggio.
« Un Monarca non può permettersi di tergiversare o chinare il capo perchè, inevitabilmente, la corona cadrebbe dalla sua testa. » Non avrebbe permesso che chi li aveva trascinati in quella missione disperata finisse vittima di dubbi e moralismi dopo qualche sacrificio e un paio di bugie « pensi che la Sua mente abbia mai vacillato mentre inseguiva i suoi obiettivi? E come puoi te sperare di replicare le sue gesta, di resuscitare il Suo Leviatano se hai dei ripensamenti alla prima difficoltà? »
Partì al galoppo, lasciandolo dietro così che rimuginasse in solitudine alle sue parole e facesse pace con la sua coscienza.
Se veramente aveva ancora delle perplessità, avrebbe fatto bene a nasconderle meglio.
La loro missione era troppo importante.



...



« Non abbiamo il suo poter soverchiante o il suo intelletto, però ci rimane la p a u r a.
Il terrore di un Monarca Invincibile ha tenuto il Regno unito sotto la bandiera del Leviatano e gli eserciti hanno marciato sotto di lui, obbedienti e implacabili.
Dobbiamo solo farli sprofondare nell'abisso della disperazione e poi tendergli una mano caritatevole, aiutarli a rialzarsi e dargli speranza.
Dobbiamo ingannarli tutti, mentirgli e fargli credere che i demoni incombano su di loro, glieli faremo vedere più da vicino di quanto abbiano mai pensato fosse possibile.
Useremo i nostri uomini per spargere storie terrificanti, fomentando il terrore nelle piazze cittadine, predicheranno di guerre con i demoni e di come gli altri regni si stiano già muovendosi per combatterle. Di come anche il loro aiuto sarà necessario.
E poi, in alcuni regni qualche mostro lo faremo apparire davvero.
Mi basta solo qualche incanto e un pò di suggestione, e alla fine il paladino che dissolve l'oscurità che risolve la situazione. Loro assisteranno alla comparsi di un abominio, e le voci messe in giro dai nostri uomini aumenteranno esponenzialmente; noi, o meglio, tu diventerai il salvatore, l'eroe in armatura dorata che sconfigge il mostro, perorando la causa degli Dèì per convincere i più scettici.
Gli offriremo le bugie più reali che gli siano mai state propinate e saranno i popoli a convincere i propri regnanti a seguirci in battaglia! Anzi, nel caso in cui qualcuno di questi sedicenti sovrani si rifiuti, saranno loro a rivoltarsi contro di lui, destituendolo per accorrere da noi ansiosi di combattere, perchè penseranno che, più grande l'esercito, più grandi saranno le possibilità di vittoria.
Tutto questo solo con qualche illusione e al prezzo modico di qualche vita. Sai anche tu che è l'unico modo possibile.
E, se davvero riusciremo a beffarli tutti, consacreremo a lui questo enorme inganno.
Ci pensi, Medoro? Se tutto va come deve andare il mondo sarà nuovamente scosso dal Leviatano.
Come molti anni fa, Medoro.
Come quando ancora servivamo l'ultimo Re degno di essere chiamato tale.
»






Allora. Che fatica sto post xD
In pratica Zephyr e Medoro hanno intenzione di ingannare l'intero Dortan, inviando gli uomini di Medoro e della Rossa in tutto il Dortan a raccontare nelle piazze di attacchi da parte di demoni e di come l'unica speranza sia quella di combattere con l'esercito del Regno d'Oriente.
per rafforzare queste voci, in qualche villaggio interverranno direttamente anche Zephyr e Medoro.
Zephyr con qualche incanto (che se volete elenco, erano tutte maghi che possedevo in scheda xD) si trasformerà in un mostro e Medoro interverrà per "ucciderlo" guadagnandosi la fiducia degli abitanti del popolo etc. (usando anche un pizzico di malia psionica)
Le voci messe in giro dai complici, si uniranno quindi a quelle degli abitanti stessi e dei viaggiatori, alimentando sia la paura dei mostri che la fama di Medoro come salvatore. L'obiettivo è quello di far prendere tutti dal panico, dicendo che potrebbe apparirgli un mostro sotto casa da un momento all'altro (cosa che qualche volta succede davvero).

Ps: sono stato autoconclusivo solo per questo regno, spero di non aver esagerato :wow:


Edited by §_Gemini_§ - 28/11/2019, 23:38
view post Posted: 10/11/2019, 23:12 Il lascito degli Dèi ~ l'ultimo Leviathan - GdR

Fu come se i cocci di un mondo in frantumi
avessero preso pian piano a incontrarsi di nuovo,
attraendosi l'un l'altro e ricompattarsi in un sogno
perduto nelle sabbie del tempo, dimenticato e dimentico
di quanto grande era stato.



Aveva atteso fuori, in silenzio.
Appoggiato a un muro dall'altro lato della strada rispetto alla locanda, defilato dal seguito della Rosa e dal loro chiacchericcio in una solitudine lui familiare, l'aveva osservata insinuarsi come una serpe tentatrice, scivolando leggiadra con un fare che per quanto non avesse visto da tempo, gli parve molto familiare tanto nelle movenze quando nella coscienza dei propri mezzi.
Incappuciato, le braccia conserte e il capo chino, Zephyr aveva teso l'udito origliando da lontano eventuali subbugli o liti -che era frequente scoppiassero in luoghi come quello- pronto a intervenire e incenerire chiunque avesse ardito di disturbare la Rosa dai suoi intenti, avvicinandosi a lei più di quanto sarebbe stato necessario. Anche se, una donna con la sua persuasione, sarebbe stata in grado in pochi minuti di corrompere e sottomettere anche il più ubriaco e corpulento degli avventori.
Nel sentire i cardini scricchiolare, Zephyr alzò rapidamente lo sguardo dimenticando la propria apprensione nel vederla uscire proprio come era entrata, beffarda e sicura di sè, intuendo come fosse riuscita nel suo intento. Dlays prese a contare con la mano alzata, soddisfatta, come a predire un futuro che ella stessa aveva già scritto; e quando anche il terzo dito di lei si levò dal pugno, un'altra reliquia del passato fece la sua comparsa.
Nessuno si sarebbe stupito nel vederla rincorrere da un uomo fuori da una locanda; con l'avvolgente e irresistibile sguardo di lei, chiunque avrebbe fatto lo stesso. E Zephyr più di tutti ne sapeva qualcosa.
Si decise a levarsi il cappuccio e scostarsi dal muro, incamminandosi lentamente mentre il palmo della mano si poggiava placidamente sul pomo della spada legata alla cinta, in una figura che il cavaliere appena apparso avrebbe impiegato poco a riconoscere come l'arrogante immagine di chi in passato era stato suo superiore.
Non si erano mai piaciuti, lui e medoro.
E sicuramente non per colpa del cavaliere che aveva davanti
Troppo perfetto con quei suoi riccioli biondi e lo sguardo cristallino, l'armatura bianca e il volto fanciullesco. Bello come una statua intagliata dal più bravo degli scultori o un dipinto angelico del più ispirato dei ritrattisti, aveva sempre fatto di tutto per vessarlo e destabilizzarlo, approfittando della sua posizione per impartire ordini assurdi invidioso e far sì che mostrasse anch'egli il suo lato nascosto, per scoprire le ombre che si celavano oltre l'intonso splendore per il quale era conosciuto nel Maniero.
E ci era riuscito, a più riprese. E senza dubbio i due si sarebbero passati volentieri a fil di spada, se le regole vigenti nel Regno glielo avrebbero permesso.
Non che quelle scaramucce avessero ancora una qualche importanza, ormai.
Passò accanto alla Rosa muovendogli un ossequioso cenno del capo, superandola e raggingendo Medoro che, accortosi di lui, si stupì nel rivederlo dopo tutti quegli anni.
Più gli si era avvicinato, più Zephyr aveva però notato il fascino dell'irreprensibile Medoro si fosse mosso in favore di un'età più matura. Anche se per motivi diversi, lui stesso e la Rosa erano cambiati poco nell'aspetto e nell'età e, per quanto conscio della mortalità di Medoro, il suo aspetto lo stranì più del dovuto. Come loro, anche Medoro era il retaggio del glorioso Toryu, ma a differenza loro..

« ...sei invecchiato. »

glielo disse senza ombra di scherno, incuriosito, appoggiandogli una mano sulla guancia di lui, come a comprovare con il proprio tocco che si trattasse veramente di lui e non di un fantasma.
Socchiuse le palpebre, scrutandone il volto per cercare quante più similitudini possibili nel volto che un tempo aveva tanto odiato.
I capelli avevano perso brillantezza e qualche filo grigio s'inframmezzava agli altri, lievi rughe intorno agli occhi ora meno brillanti di un tempo. Ma prima che potesse scorgere altre differenze, Medoro si riprese dallo stupore iniziale e cacciò via la mano di Zephyr con un rapido gesto, scoprendosi infastidito dal pallido e freddo tocco della sua mano.

« Non mi aspettavo di vedere anche te qui. »


Parlò con frustrazione e risentimento ma Zephyr non vi badò, avendogli già voltato le spalle per mettersi di fianco alla Rosa -giusto per chiarire quale fosse la sua posizione. Avrebbe dovuto superare vecchi rancori, il caro Medoro, se voleva riuscire nella propria impresa.
Si fermò, le braccia ora conserte, concedendosi solo un ultimo vezzo prima di lasciare cadere il silenzio cosicchè il cavaliere potesse ascoltare nei dettagli l'elaborato piano di Dalys per combattere la minaccia incombente.
Aveva sentito anche lui quella v o c e, antica e profonda che stava venendo a prenderli per ghermire il mondo nelle sue spire.
Ricordava il ballo in maschera e quell'a b o m i n i o che il Re aveva trionfalmente mostrato agli astanti. Da un certo punto di vista, era stata quella l'inizio della fine. La prima crepa in un sogno durato troppo poco, e brusco il conseguente risveglio.
Avrebbe voluto attardarsi con Dalys per più giorni di quanti avesse impiegato a ritrovarla, ma entrambi sapevano che quel dolce far niente non sarebbe perdurato molto se il Leviatano non fosse risorto per porre fine a quella minaccia.
Se quell'essere era stato l'inizio della fine, la fine di quell'essere avrebbe portato un nuovo inizio.
O così almeno si augurava, mentre i suoi occhi si muovevano di sfuggita oltre la propria spalla, verso il volto compiaciuto della rosa.

« Nemmeno io mi sarei aspettato di vedermi qui con voi. Non dopo tutto questo tempo. »
rispose distrattamente, il commento pungente di Medoro gli era scivolato addosso. « Se qualche settimana fa mi avessero predetto questa rimpatriata, di certo mi sarei messo a ridere. » continuò a guardare di fianco, verso la rosa, la calamita che stava attraendo a sè quegli uomini, ricompattando un esercito disperso da tempo.
Sincero e vagamente laconico come poche volte era stato.
« Ma, ora, mi sembra che il tempo non sia mai passato. »

Ak0HObD

Avevano tutti fatto parte del più grande esercito che il mondo avesse mai visto,
avevano combattuto, ucciso nemici e raso al suolo città in nome del Regno.
Il solo sussurrare quel nome era in grado di scuotere i nemici nell'animo, spaventandoli e strappando loro di dosso la volontà ben prima che la battaglia avesse avuto inizio.
Una bestia insaziabile, invincibile come il proprio Monarca, ineluttabile come una sentenza divina.
Un flagello chiamato L e v i a t a n o.
Un mostro per combattere un mostro.
Ma se il loro nemico era nel pieno delle sue forze, la mitica bestia del Re che non perda mai era in frantumi,
sdrucita da anni di ignavia e dispersa in chissà quanti posti.
Loro avevano fatto parte del Leviatano, ma non erano sufficienti.
Serviva molto di più per farlo risorgere.




Scena che si collega a quella di Anna
view post Posted: 9/11/2019, 02:07 Il Lascito degli Dèi ~ Quasi nessuno - GdR
Chissà per quanto a lungo sarebbe durato il suo peregrinare senza mèta.
Viaggiava ormai da settimane, rigorosamente a piedi, e per quanto le suole dei suoi stivali sempre intonsi non mostrassero alcun segno di cedimento, lo stesso non si poteva della sua volontà: che dapprima rigida e lucente come il metallo di una spada appena forgiata, era ora sbeccata e corrosa dal dubbio, da un'incertezza che sentiva nascere ogni giorno più grande, come un'ombra che lo inghiottiva pian piano, imprimendo in lui la consapevolezza che non avrebbe mai raggiunto il suo scopo.
Si alzava ogni giorno al levar del sole, e che avesse dormito in qualche locanda o in una radura in mezzo al bosco non faceva differenza costringendosi andando avanti, inseguendo un miraggio, un ricordo, qualcosa che da tempo per una colpa non sua aveva perso, ma per la quale si era tremendamente rammaricato.
Al tramonto, invece, stanco dall'intermabile peregrinare si chiedeva se davvero avesse qualche speranza di riuscire nel suo intento. Si lasciava andare stancamente a un sonno disturbato, con mille dubbi che lo arrovellavano, ponendosi domande che avrebbe convenientemente rimandato al giorno successivo continuando così in una spirale infinita che lo avrebbe condotto al baratro.
Viaggiava coperto dal suo mantello grigio, lo stesso di sempre, celando con altrettanta abitudine lo sguardo sotto il cappuccio, adombrandolo cosicchè gli sparuti viandanti o gli capitasse di incontrare qua e là non incrociassero il suo sguardo cremisi, sottraendosi così a sguardi tra la diffidenza e lo spavento; e destare più clamore e domande di quanto avrebbe voluto.
Ignorava se qualcuno si ricordava ancora di lui da quelle parti, ma se così non fosse stato era contento che tutti se ne fossero dimenticati.
Volava essere lasciato solo, senza che gli venisse rivolta parola.
Non voleva la compagnia di nessuno.
Quasi nessuno.

Anche quel giorno al tramonto aveva raggiunto l'ennesimo villaggio, trascinandosi stancamente come un fantasma grigio verso la taverna locale per rifocillarsi, fare scorta di vivande e addormentarsi su un letto che sapeva già avrebbe trovato scomodo, in attesa di svegliarsi il giorno seguente e ricominciare la lenta agonia alla quale si stava costringendo.
Camminò defilato, lasciando che i mezzadri di ritorno dei campi passassero al centro della sudicia -e unica- strada presente, che tagliava il villaggio in due come aveva già visto in decine di altri villaggi dove era già sostato. Il lento e affaticato scalpitare degli animali da soma e l'incedere dei carretti carichi del raccolto di giornata lo accompagnarono fino all'entrata della locanda, dove a questi suoni iniziavano a sostituirsi le risate sguaiate degli scansafatiche che avevano deciso di perdere il pomeriggio a ubriacarsi.
Gli venne quasi la nausea, immaginando già il puzzo infestante quel luogo e la gente che lo riempiva. E si sentì terribilmente s p o r c o, nel dover essere costretto a entrarvi a sua volta. E, sospirando, vi entrò.
Poggiò il palmo sull'uscio, spalancandolo per accedervi in silenzio, come una nota stonata in un mezzo a una cacofonia di risate sguaiate, boccali che sbattevano sul tavolo e insulti urlati in malodo che riempivano la misera stanza.
Si avvicinò al bancone, chiedendo un tavolo per la cena e una stanza per la notte e allungando una moneta sul bancone come pagamento. L'oste prese la moneta fugacemente, lucidandola sul panno che aveva in grembo e distraendosi solo un istante per insultare uno dei presenti che aveva rotto un boccale, per poi voltarsi ancora verso di lui e muovere un rapido cenno d'assenso con la testa, troppo impegnato a intascarsi la moneta appena guadagnata per farsi domande su quella figura con il mantello logoro che era appena entrata dalla sua porta.
Fu quando però l'oste gli portò del pane raffermo una brodaglia tiepida che il suo sguardo si spalancò.

« quel maledetto figlio di cagna di Jack » un uomo da lui poco distante stava parlando a alta voce, ridendo sguaiatamente tra una frase l'altra e picchiando il boccale appena svuotato sul tavolo « dobbiamo scoprire il suo segreto, DEVE DIRCELO! » mentre i suoi compagni di bevute parevano incitare quel penoso spettacolino l'oste lo ammonì di non rompere un altro boccale, altrimenti l'avrebbe cacciato fuori a calci in culo, ma questi non parve curarsene troppo, e sbiascicò verso di lui « dovresti chiederglielo anche tu, caro il mio oste. »
Si alzò in piedi, ciondolante, pronto a ordinare ancora da bere « Non vorresti conoscere come fa a tenere una strega di quella bellezza in casa propria? La gente l'ha vista ballare intorno al fuoco » mimò una giravolta ben poco aggraziata « e mentre le donne erano troppo impegnate a coprire gli occhi ai bambini davanti a quello spettacolo per loro indecente, gli uomini ne sono stati ammaliati. » Aveva l'attenzione di tutta la sala « Bellissima e dagli occhi verdi come le foglie del bosco più rigoglioso. Solo una strega potrebbe essere tanto bella e capace di stregare il cuore degli uomini. Solo una strega,
o una costosissima puttana.
»


Dimentico di quanto compassato e clemente avesse imparato a essere negli ultimi anni, l'istinto e la voglia di rifuggere una disperazione sempre più incombente si impradonirono di lui.
Zephyr gli si lanciò addosso in uno scatto, il mantello che indossava svolazzò un istante e una mano andrò a brandire la spada, l'altra si avvinghiò alla gola dell'uomo schiantandolo quindi a terra, e sentendo come la sua schiena avesse preso a scricchiolare contro le travi di legno del pavimento -o forse era il contrario.

« Dove? Dove abita? »


Lo guardava con gli occhi sbarrati, intransigenti.
Percepì lo stupore generale attorno a lui, ma prima che qualcuno potesse decidersi a disturbarlo lasciò che la sua essenza di dipanasse oltre il suo corpo, scuotendo gli animi dei sempliciotti che si trovavano al suo cospetto con un vago sentore di terrore. Era un trucchetto che non usava da tempo, ma si ricordava molto bene della sua efficacia.
Lo fece solo per guadagnare qualche istante, dopo settimane di inutile errare; solo poche parole.
Il suo prigioniero aveva portato le sue mani sul suo braccio nel tentativo di liberare il collo dalla morsa letale delle sue dita, e per indispettirlo ancor di più muoveva le labbra come un balbuziente afono.

« Dimmi dove si trova! »
Conficcò la spada rossa a un pollice dagli occhi dell'atterrito ubriaco, sperando di destarlo dallo sbigottimento commisto a paura che gli leggeva sul volto.
« D-dirigiti a O-ovest. Il p-primo villaggio che... che... » Allentò la presa delle sue dita sulla gola dell'uomo che inspirò voracamente, il petto che si espandeva ritmicamente « il primo villaggio che troverai sarà quello giusto. Cerca la casa di Jack, appena fuori sul limitare settentrionale. »


Non seppe perchè lo fece.
Forse per punirlo del modo in cui aveva parlato di lei, forse solo per dissuadere i presenti dall'inseguirlo o parlare a sproposito, o forse solo per sfogare la frustrazione di quei giorni e la rabbia che provava nel saperla imprigionata in un piccolo borgo di stupidi umani.
Nel ritrarre la mano dal collo dell'ubriaco, lo sfiorò un'ultima volta, trasformandolo in cenere. Il corpo che in un istante evaporò in una tenue nube grigia.
Qualcuno urlò di aver visto un demonio, un altro corse fuori dal locale, alcuni avevano cercato di allontanarsi da lui il più possibile arrivando con la schiena contro le pericolanti mura della catapecchia.
Ottenuto ciò che voleva, Zephyr si alzò senza degnarli di uno sguardo, rinfoderò la spada e uscì in silenzio proprio come era entrato. Avrebbero parlato di lui, marchiandolo come mostro e assassino, e giacchè ai loro occhi era alla stregua di un qualche criminale decise di perseverare nel dargli ragione, adducendo il furto all'omicidio.
Una volta fuori, scorse dei cavalli legati a poca distanza dalla locanda e avvicinatosi tagliò i legacci che li costringevano quello che giudicò essere il più veloce, montandolo e tirando le briglie verso il tramonto, proprio come la sua vittima -la prima, dopo tanto tempo- gli aveva indicato.

Aveva agito d'istinto, come se il suo animo si fosse svegliato d'improvviso da un torpore che per troppo tempo aveva offuscato la sua vita, e ora, mentre galoppava verso la fine del giorno, con i raggi ambrati del sole che gli illuminavano il viso e il vento che gli sferzava i capelli si scoprì trepidante, scosso da un'impazienza che sfogava incitando il cavallo con colpi mirati ai fianchi mentre si accovacciava su di esso, sempre più veloce.

Arrivò quando le stelle avevano già preso a punteggiare debolmente il cielo, e con uno strattone alle redini arrestò gli zoccoli del cavallo sfinito scendendo in fretta e dirigendosi svelto verso la casa che gli avevano indicato dover raggiungere.
Il buio calò accompagnando i suoi passi veloci nel silenzio della notte, ammantando l'ambiente di un silenzio spezzato solo dal prepotente battere del cuore che aveva in petto, ansioso come non mai.
Fu come se quei pochi passi fossero più impegnativi di tutti quelli percorsi nei giorni precedenti.
Più difficili perchè più determinanti.
E pericolosi, se avesse alla fine scoperto di aver semplicemente preso un abbaglio.

Avrebbe voluto urlare il suo nome e chiamarla fuori, ma non lo fece.
Avrebbe voluto tirare giù la porta con un calcio e strapparla a quel luogo misero e sudicio, ma non lo fece.
Avrebbe voluto fare tante cose... ma più di tutto voleva vederla.

Si limitò a sospirare, togliendosi il cappuccio.
Per lei il suo aspetto non sarebbe stato un problema.

Bussò tre volte, e tre volte più forte, poi attese.
Un'attesa più lunga di tutti i giorni passati a vagare in lungo e in largo,
figlia di una costernazione di cui si era ingiustamente incolpato
e dell'angoscia che l'aveva costretto a tornare sul viale dei ricordi.
In un mondo dove -con sua buona pace- nessuno si ricordava chi lui fosse stato
Quasi nessuno, sperò.
view post Posted: 26/10/2019, 22:18 Confronto - Il Lascito degli Dèi
CITAZIONE (»Rose @ 26/10/2019, 23:15) 
CITAZIONE (Apocryphe @ 26/10/2019, 19:30) 
Abbiamo i nostri motivi. :caffè:

Con cosa lo hai convinto ;_;? Con cosa che io e gems non possiamo dargli ò_ó?

Non mi vengono in mente molte cose, in effetti :wowno:
view post Posted: 26/10/2019, 15:26 Confronto - Il Lascito degli Dèi
CITAZIONE (»Rose @ 26/10/2019, 16:21) 
Cominciando da quello che è andato nell'edhel.
ZIETTO????? :sotto:

:v: :v: Da lui non me lo sarei mai aspettato
view post Posted: 25/10/2019, 23:09 Confronto - Il Lascito degli Dèi
CITAZIONE (»Rose @ 25/10/2019, 21:20) 
Comunque io sto illustrando a gemmolo come è diventato zephyr dopo che me lo ha affidato e sto usando parole delicate come fiori di campo u_u

E infatti ho paura di recuperare quelle scene :v: :v: :v:
view post Posted: 21/10/2019, 21:08 Confronto - Il Lascito degli Dèi
Ma come mi sono mancate queste faccine :wow: :wow: :wow:
view post Posted: 21/10/2019, 21:07 Iscrizioni - Il Lascito degli Dèi
Nome Utente: §_Gemini_§
Team: Dortan
Note:
Sarò assente dal 11 al 18 novembre, per il resto non dovrei avere grossi problemi di disponibilità. :v:
2943 replies since 19/10/2008