...Rimanete? Ah...
So già perché lo fate: tu sei qui per informarti; tu non sapevi nemmeno che cosa fosse la Kava Kan, fino a oggi; tu, infine, fingi di sentirti in colpa. La verità è che a nessuno di voi è mai fregato un cazzo del destino degli schiavi, né mai fregherà nulla. Non abbastanza da esporvi e sollevare il vostro flaccido culo dalle sedie. Lo so; lo so; non avete ragione di negarlo, perché primo: l'ho visto; e secondo: se così non fosse, io non potrei fare il mio lavoro. Ma non preoccupatevi: non sarò io a impedirvi di fingere un po' di compassione per sentirvi meglio con voi stessi. So bene quanto pesano le lacrime, agli occhi degli altri; sono la migliore moneta che esista e sono in grado di comprare qualsiasi cosa. Compresa l'amicizia, la compassione e l'amore. Iniziamo:
Verso il termine della seconda era, nel Bekâr-şehir e presso la città di Caezavi, fu aperta la Kava Kan; quella che oggi viene ricordata come "la cava di sangue." Una frattura buia nel deserto che raccoglieva il più grande numero di schiavi mai radunati nell'Akeran. Si parla di centinaia di migliaia di uomini e donne costretti a spaccare la roccia per i loro padroni, giorno dopo giorno. Lavoravano per riportare alla luce un'antica rovina Maegon, che si diceva fosse piena di segreti. Io facevo parte di loro. Non ero l'unica donna, né la più fragile. Ho iniziato a lavorare nella Kava Kan sin da bambina, quindi ero abbastanza fortunata da non ricordare come fosse la vita fuori da quel buco. In quanto donna, poi, mi ritenevo fortunata: il mio lavoro era molto più leggero di quello degli uomini e ci venivano date dieci once di pane al giorno; una in più che a loro. Era sufficiente starsene zitta e non rispondere per evitare di essere stuprata dagli altri schiavi. Era solo una questione di intelligenza. Mi piacerebbe dirvi che i padroni - la famiglia Essien - fossero crudeli con noi, ma non sarebbe del tutto corretto. Molto più che i padroni, ciò che dovevamo temere erano gli altri schiavi: l'odio fra vittima e carnefice non ha nulla a che spartire con l'odio fra vittima e vittima, che è molto più rivoltante. Anzi, la moglie del padrone - la venerata dama Lhissra'had Essien - era come un'irraggiungibile, misericordiosa e bellissima principessa: sempre perfetta, non sbagliava mai le espressioni: ci guardava con nobile dispiacere, poi pregava il marito di migliorare le nostre condizioni. Quando la vedevo passare, coperta di gioielli e bei vestiti dalla testa ai piedi, non provavo alcun odio. Anzi, la ammiravo. Lei, che era così lontana, trovava il tempo di preoccuparsi per noi.
Comunque, se non fosse stato per mio fratello, dubito che sarei sopravvissuta. Lui era grosso e stupido, ma sorrideva sempre. Sapeva del mio carattere difficile e non esitava a difendermi dagli altri schiavi. Io ho sempre avuto un viso da bambina, persino da adulta, e ciò era pericoloso: scatenava negli uomini appetiti riprovevoli; difficili da contenere. Mio fratello era abbastanza forte da tenere lontani i più pavidi, ma ogni tanto qualcuno cercava di avvicinarmisi nella notte, attraverso le lunghe tende in cui ci stipavano, e lui era costretto a intervenire. Mollava qualche pugno e qualche calcio, spaventava il violentatore e poi mi sorrideva. Mi sorrideva sempre.
Sapevamo che ogni tanto qualche schiavo spariva nel nulla. Era normale. Ci si svegliava e non c'erano più. Venivano prelevati nella notte. Mio fratello diceva che erano riusciti a scappare e che un giorno ci saremmo riusciti anche noi. Invece, quando venimmo presi, scoprimmo che non era la libertà ad attenderci. Fummo svegliati di soprassalto e sollevati di peso. Mi legarono i polsi con quelli di mio fratello, che si lamentava a gran voce, e ci condussero in superficie. Erano degli uomini ben vestiti e mascherati, ma che parlavano lo stesso accento dei padroni Essien. Trascinarono noi e molte altre coppie di schiavi sino a un altro grosso buco nel terreno; una crepa poco distante dalla Kava Kan e sin troppo simile. Ci urlavano nelle orecchie e ci picchiavano le gambe con dei grossi bastoni di legno. Ero terrorizzata. Ciò che più mi spaventava era vedere che persino mio fratello aveva smesso di sorridere. Ogni tanto mi sussurrava qualcosa come "andrà tutto bene" e "non avere paura", ma lo spavento mi impediva di rispondergli alcunché: tenevo gli occhi sbarrati e guardavo nella fossa, dalla quale proveniva un odore nauseabondo. Gli schiavisti ci fecero disporre sull'orlo di quel buco; poi iniziarono ad ucciderci. Uccidevano soltanto uno di noi, per ogni coppia. Lo giustiziavano sommariamente con la scimitarra e quello, cadendo, trascinava l'altro nell'abisso, ancora vivo.
Io sentivo i passi dello schiavista che si avvicinava e smisi di comprendere le parole di mio fratello. Tremavo, e forse fu questo a salvarmi. Quando arrivò il colpo di spada mi feci piccola, per istinto, e la lama non mi colpì. Si conficcò invece nel collo di mio fratello, uccidendolo sul colpo. Sarei dovuta morire io, ma così non fu.
Cademmo. Per un tempo che parve interminabile. Sbattendo contro le asperità della roccia, che non era perfettamente a strapiombo. L'impatto col terreno fu attutito dalle centinaia di corpi in putrefazione su cui atterrammo, di tutti quegli schiavi che erano spariti prima di noi. L'odore della fossa mi assalì come il peggiore degli incubi, lacerandomi le narici e dilaniandomi il cervello; non capivo che cosa stesse succedendo, né perché. Mi voltai a guardare mio fratello e vidi che del suo viso sorridente era rimasta solamente una smorfia distorta; una patetica e ingiusta parodia della speranza che aveva rappresentato in vita! Io urlai dal terrore. Urlai fino a che non ebbi più fiato; fino a che non iniziai a vomitare ed ebbi paura che persino le viscere mi uscissero dalla bocca. Altri corpi caddero nella fossa dopo il mio, ma non furono così fortunati: alcuni sbattevano la testa contro la roccia, morendo sul colpo. Altri rimanevano soffocati dal compagno che cadeva sopra di loro. Non riuscivo a liberarmi. Tiravo, tiravo e tiravo, ma il polso era stretto troppo saldamente a quello di mio fratello, che continuava a guardarmi! Così, al culmine della disperazione, abbassai la testa e iniziai a mordere la sua mano, per liberarmi.
Ricordo il sapore della sua carne e le urla degli altri, che morivano mentre io, che ero lì, e piangevo e rosicchiavo
come un topo
Venni salvata da due recuperatori. Non ricordo nemmeno i loro nomi. Furono molto gentili con me. Sapevano che cosa faceva la famiglia Essien agli schiavi, dunque non mi fecero alcuna domanda. Mi diedero dei vestiti, acqua, cibo e persino un po' di soldi. Poi mi lasciarono a Taanach, che era la città più vicina dove sarei stata al sicuro. Avevo bisogno di lavorare, per tenere la mente impegnata. A Kava Kan avevo imparato a mentire e rubacchiare per sopravvivere, ma ciò non sarebbe stato sufficiente a farmi dimenticare. Le persone, comunque, mi aiutavano volentieri. In molti mi pagarono per compiere alcune piccole commissioni, mentre altri mi donavano spontaneamente qualche moneta. Ai loro occhi restavo una schiava e fu in tale frangente che iniziai a capire come sfruttare la loro compassione. Dopo un po' mi fu chiaro che gli abitanti di Taanach sapevano di Kava Kan, della famiglia Essien e dei massacri delle fosse. Lo sapevano tutti, ma nessuno intendeva intromettersi. Mi aiutavano per addormentare i loro sensi di colpa.
Imparai a muovermi di nuovo. Come una bambina che si regge in piedi per la prima volta. Avevo un'arma potente a disposizione: la pietà. Le persone sapevano chi ero e da dove venivo, e io feci di tutto per evitare di nasconderlo. Dovevano sentirsi in colpa; dovevano assumermi; dovevano aiutarmi, quando io chiedevo loro di farlo. Lentamente entrai nel giro degli affari. In tutti i giri. Non c'era mercante che non potesse sfruttare una bella attendente o messaggera. Inoltre, la mia presenza conferiva prestigio ai miei nuovi padroni: mi mostravano come un trofeo, quando volevano sfoggiare la loro grandezza d'animo. "Non potevo stare a guardare" dicevano. "mi sono sentito in dovere di aiutarla." Imparai quali erano le merci più pregiate e ricercate; divenni capace di distinguere un buon affare da un investimento sbagliato; scoprii quanto denaro era possibile accumulare sfruttando i traffici illeciti e divenni un'esperta conoscitrice di ogni genere di droga sul mercato. C'erano persone disposte a pagare cifre esorbitanti per accaparrarsi un po' di polvere; più di quanti soldi avessi mai visto in tutta la mia vita.
Fu qualche anno dopo, quando lavoravo per un modesto delinquente che copriva le sue attività illecite con una bottega di vini, che la incontrai. Lhissra'had Essien. La moglie del mio vecchio padrone. Entrò nel negozio con la stessa grazia che l'aveva sempre contraddistinta; vestita alla perfezione e ricoperta di gioielli. Mi sorrise con gentilezza, ma non mi riconobbe. Come avrebbe potuto, d'altronde? Per un momento ne rimasi intimorita e affascinata, ma finsi di non conoscerla a mia volta. Le parlai come una normale bottegaia, chiedendole chi fosse e che cosa ci facesse a Taanach; se era originaria di lì e quanto aveva intenzione di fermarsi. Fu così che scoprì che il vecchio padrone, suo marito, era morto. "un attacco di cuore." disse, affranta. "ho dovuto abbandonare la mia costosa residenza nel Bekâr-şehir e trasferirmi in un palazzo più modesto qui, a Taanach. Ho anche liberato la maggior parte degli schiavi di mio marito: non ho mai approvato il loro utilizzo e qui non saprei dove alloggiarli. D'altra parte, gli anni stanno cambiando; lo schiavismo è sempre più criticato - persino qui nell'Akeran - e sento nell'aria l'insofferenza dei poveri nani ancora in catene. Ho tenuto solamente una qualche decina di servitori, per attendere alle faccende mondane."
Non so perché quella frase mi diede così tanto fastidio. Forse fu per la naturalezza con cui parlava degli schiavi, senza cambiare minimamente espressione. Mi rivolgeva il suo solito sorriso di nobile dispiacere, studiato e perfetto come quello di una maschera di porcellana. Forse fu perché non credevo che gli schiavi meritassero di essere liberati. A differenza degli abitanti di Taanach e di dama Essien, io li avevo conosciuti. Perché aiutarli? Per popolare le strade dell'Akeran di criminali, violenti e stupratori?
Mi mossi come se qualcun altro stesse controllando il mio corpo. Le mostrai i vini più pregiati, pregandola di assaggiarli. Decantai con professionalità le qualità della mia merce. Intanto, andai alle sue spalle e con lentezza esasperata le passai uno stile lungo la gola, da parte a parte. Il suo corpo cadde a terra con un tonfo. Sul suo viso rimase impressa un'espressione di nobile sconcerto. Quando tornò il padrone, non fu difficile fargli credere che la macchia scura sul pavimento fosse stata provocata da una mia sbadatezza con le bottiglie di vino, che mi premurai di spaccare in terra per nascondere il sangue.
A Lhissra'had Essien rubai tutto. I suoi bei vestiti. I luminosi gioielli. Persino il nome.
|
« Nulla giustifica i fatti di Kava Kan. Tuttavia sarebbe sciocco non comprendere che la politica del tempo era differente; la morte di migliaia di schiavi era qualcosa di comprensibile, se non addirittura giustificabile.
Sinceramente non credo che a mio marito piacesse ricorrere a tali metodi, ma al tempo era l'unico modo per studiare le rovine Maegon che aveva scoperto vicino a Caezavi. Ora che la Gloriosa Rivoluzione dei nani si è conclusa, tutto ci pare assurdo, è vero, ma un tempo gli schiavi erano visti come semplice merce di cui disporre a piacimento. A dirla tutta, io non ero nemmeno a conoscenza dei terribili rituali di sangue che compiva ogni notte... e preferirei evitare di parlarne. Fortunatamente non è riuscito a conseguirli, altrimenti dubito che un semplice attacco di cuore sarebbe bastato a eliminarlo. Mi dicono che fossero pratiche di negromanzia antica; terribili anche solo a pensarsi.
Da parte mia, quando ho ereditato l'attività, ho liberato la maggior parte degli schiavi e ho impiegato alcuni studiosi di Qashra nell'interpretazione delle rovine. Da quando il Sultanato si è affermato, l'Akeran è diventato molto più civilizzato, per fortuna. Ciò nonostante ci sono ancora molti imprenditori che necessitano di manodopera; chi sono io per ostacolare le loro necessità? Le loro opere e infrastrutture ci stanno donando un grado di sviluppo impareggiabile nel corso della storia, anche e soprattutto grazie al lavoro degli schiavi. La scomparsa della schiavitù è un percorso graduale. Quando i padroni smetteranno di necessitare lavoratori, io sarò molto grata di smettere di venderglieli; fino ad allora, non ho l'arroganza di oppormi al progresso. Tanto più che molti schiavi sono criminali violenti; in questo modo possiamo impiegare le loro energie in maniera positiva e contenerli allo stesso tempo.
Naturalmente non sto rimanendo con le mani in mano. Di recente ho fatto in modo che la famiglia Essien si adoperasse per sopperire al calo nella compravendita di schiavi impegnandosi in altri mercati. Resto l'esponente di una delle famiglie più ricche dell'Akeran e non ho intenzione di lasciare immobile il mio denaro in virtù del lutto per mio marito. Anzi, se con il commercio potrò riparare ai torti da lui compiuti, sarò più che felice di farlo. Per questo vi ho chiamato a siglare questo patto. Sono convinto che potremo guadagnarci entrambi. »
« Vi ringrazio per l'opportunità dama Essien; la vostra comprensione è sconfinata, come sempre. Ringrazio anche voi, mastro Roarrhad. »
« [...] »
« ...mastro Roarrhad? »
« Oh, non dovete preoccuparvi per mio fratello. È un uomo di poche parole... »
« però sorride sempre. »
|