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| Vahram Nenad Akrtchyan ᾠ meglio noto come ᾡ ₪₪₪« Al Patchouli »₪₪₪
Վահրամ Նենադ Ակրտչյան
«El'Mulik Suliman yohalla vir! Uomini stranieri! Voi che provenite dai cinque angoli del continente: dalle paludi di Xuaraya del Sud, dagli arcipelaghi occidentali, dalle lande desolate oltre le giungle, dalle città espugnate del grande nemico turkemanno a Oriente e dalle montagne selvagge dell’Aramania a Nord-Est. Il Divino Imperatore Sulimano Al Haytham IV, dal suo trono nel Palazzo degli Dei, vi saluta.
Il mio nome è Tumarek Karish e sono il Comandante Supremo dei Mamūluk. Nessuno meglio di me potrà sincerarvi che la vostra presenza qui è un dono degli dei. Guardatevi! Barbari! Pirati! Contadini! Pastori! Sfollati! Sudditi di re umiliati e sconfitti! Le vostre tribù e le vostre nazioni inferiori non esistono più! Ora, in quelle lande incivili, le mani del grande Re Dio Sulimano e del suo popolo prescelto porteranno nuove leggi e nuova civiltà. I vostri anziani sono morti! Le vostre madri sono morte! Le vostre mogli sono morte! Le vostre figlie e le vostre sorelle sono morte! Le tombe dei vostri antenati sono state calpestate dagli zoccoli dei migliori cavalli del mondo e schiantate dalle moderne macchine da guerra del grande Impero Sulimano! Dimenticate i vostri padri, i vostri fratelli e i vostri figli! D’ora in poi io sarò il vostro unico padre, questi soldati saranno i vostri fratelli e coloro che verranno dopo di voi saranno i vostri figli! Dimenticate le vostre famiglie di pezzenti, codardi e vinti! D’ora in poi avrete una nuova famiglia! Una famiglia di centomila fratelli! Una famiglia invincibile!
Ma se fra voi si trovano dei deboli, essi moriranno. Sarà il fato, la vostra abilità e la vostra pertinacia a decidere chi sarà degno di entrare in questa famiglia. Dovrete imparare a uccidere per sopravvivere, a sopportare la fame, la sete e i più atroci martìri che la vostra mente e il vostro corpo abbiano mai conosciuto. Ma per chi uscirà da questo inferno la ricompensa sarà grande. Badate! Possederete ricchezze, cavalli, donne e quanto più possiate sognare. Ma non la vostra vita! La vostra vita ora appartiene al Grande Re Dio Sulimano. Il futuro vi serba una nuova esistenza! Ora siete schiavi! Sarete marchiati, sarete suggellati a un solo destino! E d’ora in avanti sulla vostra strada troverete solo o la morte, o l’obbedienza! Ma solo seguendo la via dell’obbedienza potrete diventare schiavi guerrieri! Mamūluk! Nostri fratelli! E allora ogni nazione tremerà dinanzi a voi!»
Nome completo: Vahram Nenad Akrtchyan. Pseudonimi: Al Patchouli. Dottor Azad nei panni del suo personaggio di copertura.
Razza: Umano. Classe: Cacciatore. Talento: Informatore II. Età: 35. Altezza: 1,79m. Peso: 81kg. Pelle: Scura. Capelli: Neri. Occhi: Verdi.
Terra: Akeran. Fascia: Rossa. Pericolosità: A. Conto: ֆ Lingue parlate: Comune, dialetto dell'Akeran.
Corpo: 100% ~ Mente: 100% ~ Energia: 100%
Sinossi: Tozzo, prestante, curato, esotico. Adattabile, diligente, pragmatico. |
ք ~ Relazione n.5460-804 ~ ք Gendarmeria di Portalorica, Qatja-Yakin, Sezione C. Procuratore della 4a divisione investigativa speciale.
Soggetto: Al Patchouli (pseudonimo) Nome: Vahram (?) Sesso: Maschio Età: 35 anni circa Razza: Umana turish, ceppi sudorientali Professione: medico tuttofare itinerante, assassino, informatore Segni particolari: occhi verdi, capelli neri, barba con pizzo, baffi corti, una cicatrice sul mento.
Ringrazio i miei superiori per la solenne fiducia che hanno riposto in me fino ad ora. Senza il loro supporto, la mia guarnigione non si sarebbe mai risolta a interessarsi del caso “Al Patchouli”, su cui innumerevoli volte feci pressioni. In questa relazione, ripercorrerò i principali eventi che hanno segnato la nostra indagine.
Ormai da un anno stiamo indagando su questo individuo, artefice di un numero ancora imprecisato di reati. Dall’inizio della indagine, a lui sono stati collegati un totale di 158 assassinii in due soli anni, contando anche quello in corso. Rispettivamente 56 tra esecuzioni e assassini in luoghi pubblici o in domicilio, molti di questi con aggravanti, 62 morti in scontri a mano armata di stampo criminale, 27 morti in risse dalle dinamiche poco chiare e 13 in presunti “incidenti”. Tali dati sono stati in gran parte congetturati in base a un gran numero di documenti, recuperati grazie allo splendido lavoro dei nostri informatori presso i clan Ohia, Karjitak, Barriento e dalle organizzazioni criminali Sanguinius e Vela Rossa, poiché pare che questo assassino sia talmente abile e diligente da non lasciare né indizi, né tracce ricollegabili alla sua persona. Nei registri dei suddetti clan e organizzazioni criminali, figurano cospicue retribuzioni a nome del citato Al Patchouli, coincidenti alle date degli assassinii enumerati sopra e più specificamente esposti singolarmente dei documenti allegati, da pagina XXVI a XLIX.
Sorge però un altro problema su cui stiamo indagando tuttora: su tali registri figurano molti altri pagamenti a nome di Al Patchouli, il che significa che potrebbe aver commesso molti altri delitti per conto di questi clan e organizzazioni criminali, oppure che sia stato coinvolto in altri tipi di reati più difficilmente ricollegabili, come: estorsioni, aggressioni, furti, et cetera. Questi pagamenti senza riscontro sono in tutto 81. Quindi evitiamo di pensare a quanti reati non registrati su alcuna documentazione potrebbe aver commesso per suddetti o altri gruppi criminali.
Ogni tentativo di identificazione o di pedinamento è sempre fallito miseramente. Agivamo per tentativi. Il tassello che ci mancava per avere una pista lo trovammo grazie all’intuito, mio e dei miei investigatori, e a un piccolo aiuto da parte della Dea Fortuna. Scoprimmo infatti che, per mantenere le sue relazioni con i propri datori di lavoro, generalmente si appoggia su contatti fidati. Spesso ex Mamūluk immigrati. Questo ci aveva fatto intuire una pista: che fosse, appunto, anch’esso un Mamūluk; forse proveniente dalle squadre d’assalto o da altri corpi speciali. Mandai quindi tutti i miei uomini a scandagliare l’intera città e interrogare ogni persona che avesse potuto fornirci potenzialmente qualche informazione utile, per avere infine un registro di tutti i cittadini provenienti dal fu Impero Sulimano. Nella prima lista si contavano esattamente 435 nomi. Poi vagliammo i nostri risultati sondando quanti tra loro militarono nei Mamūluk. Il numero scese a 93. Dunque identificammo chi tra loro aveva avuto rapporti con la malavita. 61, circa 2/3 (sondaggio interessante), ma trovammo in breve tempo quanti di loro esercitavano la professione di assassini e tagliagole prezzolati: solo 13. Ma nessuno dei loro profili collimava con il modus operandi di Al Patchouli. Senza contare che 5 di questi morirono nel giro di 6 mesi per ragioni estranee alle nostre indagini, che quindi non le approfondirò in questa relazione.
Alla fine le alte sfere mi spinsero ad arrestare Aijik Kadduri, un ex Mamūluk di origini turkemanne che aveva militato della celebre Armata dei Lancieri Neri. Sul Qatja-Yakin lavorava come assassino per conto di diversi clan, che ora non ritengo rilevante enumerare. Era stato fino alla fine il maggiore sospettato e il suo profilo era quello che coincideva maggiormente. Fu condannato a morte e impalato una settimana dopo l’arresto, il 4° giorno del 12° mese dello scorso anno. Il caso fu chiuso.
Non passò molto tempo prima che arrivassero notizie certe che Al Patchouli era ancora vivo e in piena attività. Insistetti per riaprire il caso, ma il comando rifiutò. Il caso era ufficialmente già chiuso. Dovetti arrangiarmi da sola, con le mie poche guardie e i miei pochi investigatori più fedeli e i nostri risparmi, lavorando nell’ombra. Dopo un mese di investigazioni, interrogatori e mazzette sottobanco, ottenemmo il nostro gran colpo di fortuna. Carlo Parriet (ci tengo a riportare nome di questo uomo straordinario), un nostro informatore presso il clan Karjitak, riuscì a prendere contatti con un mercante trafficante di droga ex Mamūluk di origine aramane, Sheg Galstyan, in procinto di partire per Haridi per questioni commerciali. Si rese disponibile sotto compenso a portare il nostro agente in quella città, per visitare la sua biblioteca, dove i Saggi Archivisti della capitale sulimana El Kahir, saccheggiata dai demoni, riuscirono a portare in salvo una parte consistente degli archivi della Biblioteca Imperiale. Sei mesi fa il nostro agente tornò illeso con una montagna di materiale su cui lavorare. Dopo soli quindici giorni di alacre lettura, avevamo il nostro uomo.
In alcune relazioni riguardanti missioni compiute da nobili privati per conto dello stato figurava ogni tanto il nome di un certo Tabib Patchouli (Dottor/Medico Patchouli in lingua sulimana): un Mamūluk posseduto da un certo medico sulimano con titoli nobiliari di nome Yussuf Al’Sahid. Da quanto dicevano quelle rapporti, Tabib Patchouli era un eccellente soldato proveniente dalle squadre d’assalto con conoscenze in medicina e in altre scienze. Riprendemmo in mano la nostra famosa lista e trovammo una straordinaria caterva di analogie con un certo medico tuttofare itinerante, ex Mamūluk, di origine imprecisata, che si faceva chiamare Dottor Azad, che la prima volta fu escluso quasi subito dai sospetti, in quanto apparentemente sembrava un libero professionista senza alcun contatto con la malavita.
Ovviamente ci adoperammo all’istante per riaprire il caso. Riuscimmo a trovare con parecchie difficoltà qualche straccio di prova. Non fu per niente facile. Interrogando conoscenti e amici del Dottor Azad scoprimmo ben poco. Nessuno sapeva nulla della sua doppia vita. Grazie a vari espedienti (ricordo che il caso era ancora chiuso, dovevamo inventarci di tutto, per conto nostro) riuscimmo a perquisire il suo carro. Salvi i ferri chirurgici, una grande varietà di medicinali, erbe e barbiturici, non trovammo armi o altri oggetti o sostanze sospetti. Purtroppo non potevamo sequestrare nulla senza un mandato, per avere analisi approfondite. Forse si era accorto del nostro interesse nei suoi confronti, avvedendosi di mascherare e cancellare scrupolosamente tutte le tracce e tutti gli attrezzi che usava per il suo sporco lavoro. In tutta confidenza, avevo la tetra sensazione che fosse a conoscenza fin dal principio delle indagini della nostra squadra e che fosse stato proprio lui a sviare le tracce verso quell’altra povera canaglia disgraziata, Aijik Kadduri. Mi sentivo alquanto inquieta, ma ormai eravamo sulla buona strada e questo mi dava speranza.
L’ultima opzione che trovammo fu quella di rivolgerci privatamente a una delle migliori agenti della Sezione Psionica della Psichiatria Anticrimine: Shiho Huakinda. Conoscevo Shiho da anni; non era esattamente una mia amica, ma avevo lavorato insieme a lei anni addietro. A quei tempi, rimasi veramente stupefatta dell’abilità con cui riesce a sondare e cogliere gli aspetti più profondi dell’animo umano. Ha un dono che trascende i suoi meri poteri psionici; ha una mente aperta, sa comprendere le motivazioni e le ferite delle persone. In breve, ritengo sappia empatizzare in maniera straordinaria con i propri soggetti. Con nostra grande gioia, accettò di aiutarci. Le lasciammo carta bianca. Pedinò e osservò attentamente Al Patchouli per diversi giorni; in diverse occasioni conversò anche con lui. Dopo solo due settimane circa ci consegnò un rapporto dettagliato, che riporterò qui sotto.Non è la prima volta che mi trovo davanti a ex Mamūluk fuggiti dall’ormai estinto Impero Sulimano. Gente abituata ad essere schiava, ad obbedire ciecamente agli ordini di un padrone, pena la morte, a sopravvivere alla giornata, in territori estremamente ostili, a marciare per giorni interi senza dormire, a mangiare cose che farebbero vomitare la gente comune. Gente convinta a non avere futuro, a non avere speranza, a guardare solo al problema davanti al proprio naso. Gente molto pericolosa.
Tutti i Mamūluk sembrano appartenere a un popolo “a parte”. Provengono dalle etnie più disparate: Turkemanni, Sciiti, Aramani, Buri, Xurayani, pirati, più altri popoli minori. Tra loro ci sono sia soldati che ex civili. Inoltre popoli come gli Aramani sono generalmente pacifici, raramente si dedicano alla guerra.
Ognuno di quei Mamūluk è stato strappato alle loro città e ai loro villaggi, i componenti delle loro famiglie considerati più deboli sono stati barbaramente trucidati. Contadini, pescatori, allevatori, artigiani, gente che non aveva mai visto una spada prima di allora, sono tutti stati addestrati nei modi più crudeli e inumani che l’Impero Sulimano poteva avere in serbo per loro. I Sulimani hanno sfruttato le abilità caratteristiche più utili alla guerra di ogni popolo per creare battaglioni specializzati. I Turkemanni per le loro strategie e formazioni di cavalleria pesante e per la loro tecnologia, gli Aramani per i loro arcieri a cavallo e i loro particolati cavalli endemici, gli Sciiti per la loro natura di spietati sciacalli schiavisti, i Buri per la loro abilità nel muoversi nelle giungle e per i giganteschi mostri che riuscivano a domare e a portare in battaglia e i pirati del mare orientale ovviamente per intercettare e saccheggiare navi nemiche. I Xurayani invece non avevano alcuna abilità particolare, se non quella di essere reperibili in gran numero e a basso costo; in genere venivano implementati in prima linea come fanteria leggera. Carne da cannone. Queste erano le cinque principali forze armate Mamūluk; etnie minori venivano in genere inserite in una di queste, secondo le attitudini dei singoli.
I Mamūluk erano costretti all’obbedienza assoluta, pena la morte, ma in cambio avevano il diritto di saccheggio entro certi limiti e ricompense in natura in base al loro valore in battaglia. La vita dei Mamūluk non era poi così misera: potevano concedersi diversi lussi, soprattutto i più meritevoli. Contromisura strettamente necessaria, onde evitare scontate ribellioni. In ogni caso, le leggi razziali sulimane precludevano ai Mamūluk la maggior parte dei diritti di cui godevano i cittadini sulimani. Appartenevano allo Stato e non potevano in nessun caso diventare liberi cittadini. I sulimani inculcavano ai Mamūluk un metodico lavaggio del cervello. All’interno delle divisioni si crearono vere e proprie “microetnie artificiali militaresche”, ognuna con i propri usi e costumi. Spesso le genti di ogni popolo tendevano a riunirsi con i propri compatrioti. I sulimani permettevano loro di parlare la propria lingua tra di loro (anche se lo studio della lingua sulimana era obbligatoria) e di professare la propria religione. Era sentito quindi un forte cameratismo e senso di appartenenza. Ogni squadrone aveva un suo onore da difendere. Gli usi e i costumi dei loro padri si trasformarono adeguandosi alla loro condizione di schiavi soldati. Provate a interrogare un qualsiasi ex Mamūluk qui a Portalorica. Chiunque di loro vi risponderà di essere fiero di aver fatto parte del corpo dei Mamūluk. Allora per loro significava essere guerrieri invincibili, irriducibili, aver ricevuto un addestramento completo, essere in grado di adattarsi a qualunque situazione. Non sarebbero nulla qui, se non fossero stati Mamūluk.
Qui a Portalorica, i soldati semplici Mamūluk spesso ricercano lavori molto simili a quello che facevano un tempo: mercenari, soldati, guardie del corpo, tagliagole et similia. Invece gli appartenenti a squadre speciali o corpi di genieri, quindi con addestramenti più avanzati e variegati, possiedono competenze che gli permettono di applicarsi ai lavori più disparati: artigiani, contabili, investigatori pubblici e privati, cacciatori di teste, maniscalchi, falegnami, fabbri, conciatori, alchimisti, medici, speziali, eccetera. Già con queste premesse possiamo vagamente inquadrare a priori il personaggio di Al Patchouli. La sua eclettica formazione e la sua abilità tattica e marziale lascia intendere la sua provenienza da squadre speciali d’elite, altamente specializzate.
Io sono convinta che ogni uomo debba essere responsabile delle proprie azioni, ma la verità è che ognuno di noi non è mai completamente responsabile del proprio modo di pensare. Sono la famiglia, gli amici, la società e le culture in cui hanno vissuto, il percorso di formazione (o di non formazione) e così via dicendo a plasmare la coscienza di ogni essere umano, elfo, nano, demone o angelo che sia. Ogni qualvolta vedo recare qualcuno al patibolo, mi sforzo di pensare che tutto questo sia giusto, che stia subendo le conseguenze della sua morale corrotta, ma non posso fare a meno di compatirlo. Spesso i criminali di strada vengono da condizioni disagiate, da famiglie violente o inesistenti, oppure sono immigrati da paesi lontani, in cui hanno perso tutto, solo per fare un paio di esempi. Ai miei occhi, sono tutti orfani allo sbando, alla ricerca di una famiglia, e se non trovano una famiglia nell’amore o nella stima dei cittadini del Qatja-Yakin, o nel rispetto elargito delle istituzioni nei loro confronti, ne cercano istintivamente una nuova in cui identificarsi, com’è ovvio che sia. E cosa trovano qui? Bande di ladruncoli e tagliaborse, organizzazioni criminali, gente disgraziata al pari loro, loro connazionali, cartelli pronti a offrirgli un lavoro, qualunque esso sia. Tutte famiglie fuorilegge, ma in cui ritrovano il rispetto. Quindi non mi sorprende se l’ultima scala della gerarchia sociale che saliranno molti di loro sarà la scala del patibolo. Però mi attanaglia sempre l’oscuro sentore che se qualche altra strada si fosse aperta per loro in passato, le cose sarebbero andate diversamente.
Che dire? Il destino sembra avere sempre per loro una via incontrovertibile.
Per il Dottor Azad invece vale l’esatto contrario, o così almeno è parso a me. È un personaggio che sembra volersi plasmare il proprio destino da solo.
Dall’accento sembra provenire dall’Aramania. La cappa ricamata e il suo cavallo dal pelo lungo, i quali erano i segni distintivi della cavalleria leggera Mamūluk aramana, confermerebbero questa mia teoria, anche se la cappa sembra troppo poco consunta e il cavallo troppo giovane per provenire direttamente dall’Impero Sulimano, caduto tre anni fa. Probabilmente li ha comprati qui sul Qatja-Yakin. Anche il suo carro presenta decorazioni di foggia aramana. Mi era sorto infatti il dubbio, per un momento, che quel travestimento fosse tutta una montatura e che quell’uomo non fosse per nulla aramano, però devo ammettere che non tradisce altri elementi salienti riconducibili ad altri ceppi culturali. In ogni caso questa persona è un attore eccellente; specialmente perché a vederlo superficialmente è persino difficile immaginare che egli sia l’efferato assassino Al Patchouli. Solo due occhi esperti sarebbero in grado di discernere il suo inganno.
Vi risparmio in questa lettera analisi tecniche in gergo specialistico (le potrete comunque trovare in coda al mio rapporto, a pagina XV), preferisco di gran lunga parlare con il cuore e venirvi incontro per descrivervi in parole mie ciò che ho scoperto durante questa indagine che mi ha affatto appassionato. Vi avviso. A mio parere, il Dottor Azad ha il 99.99% di possibilità di essere il vero Al Patchouli. Il suo sorriso gioviale e i suoi modi gentili sono FALSI. Non è un mago. Il bastone che tiene sempre in mano è in realtà una lancia. A chiunque dei vostri uomini o superiori che legga questo rapporto, io dico: NON LASCIATEVI INGANNARE! Azad possiede le stesse impronte caratteriali sintomatiche dei suoi compagni Mamūluk. La sua espressione naturale è seria, grave al pari loro. L’espressione di un uomo costretto a diventare un mostro. Dalle sue reazioni traspare anche qualche vestigia di un lutto personale. Tutte le sue attitudini paiono frutto di abitudini capziose o particolari tipi di addestramento. Solo la sua ironia sembra intima della sua personalità. Quel che è certo è che costui viene dalle Squadre Speciali, pertanto ci troviamo davanti a un guerriero estremamente pericoloso. Inoltre di tanto in tanto sospende la sua attività e scompare per ragioni ignote. È davvero abile a far perdere le sue tracce. Ben pochi riescono a sfuggire a me. Vi dirò, di certo costui non è una persona comune.
Ciò che salta maggiormente all’occhio è il suo stile di vita, completamente diverso rispetto a quello della maggior parte dei suoi compatrioti. Infatti la sua notorietà di medico tuttofare si è diffusa soprattutto tra i cittadini del Qatja-Yakin. Non nei ghetti o nelle baraccopoli malfamate, tra i suoi simili. Lavora da solo e serve le tipologie di persone più disparate. Dimostra una particolare attenzione soprattutto per i più poveri e disagiati, spesso offrendo cure e servizi gratuiti. In genere è onesto con i suoi clienti. Solo ai più ricchi chiede maggiore denaro. Nei panni del Dottor Azad, sembrerebbe proprio una gran brava persona.
Il suo iter è estremamente matematico. Ogni giorno della settimana passa per una zona precisa. La mattina la dedica al commercio, il pomeriggio ai servizi. Si adopera e si fa pubblicità in modo da fidelizzare i clienti. Li cataloga accuratamente su dei taccuini, in modo da sapere chi potrà ricontattarlo.
Effettivamente appunta qualunque cosa: luoghi, persone, oggetti, notizie, eccetera. Gli ho visto in mano ben cinque taccuini di diverso colore, li ho contati. Quanto vorrei poterci mettere sopra le mani. Purtroppo in genere li tiene rigorosamente sempre in tasca o nella borsa e, soprattutto, è straordinariamente attento. Credo abbia notato la mia presenza solo dopo tre giorni, nonostante avessi usato diversi travestimenti e illusioni per camuffarmi. Il suo modus operandi è decisamente sulimano: contratta i prezzi, si tiene in contatto con i suoi acquirenti ed eventualmente si presenta anche a casa loro per ritrattare o per consegnare la merce troppo ingombrante. La sua più interessante furberia è ascoltare i pettegolezzi o le voci nelle taverne per informarsi su persone bisognose di aiuto, per poi presentarsi a casa loro e affrancarli di poter risolvere il loro problema per un giusto prezzo. Difficilmente viene rifiutato. Ciò che mi ha colpito è che talvolta lavora volentieri senza chiedere denaro, quando è evidente che i suoi clienti non possono permettersi di pagare.
In tutta franchezza, vi dirò, pur essendo pericoloso, non è una cattiva persona. Ama i bambini e gli animali domestici. Quando gioca con loro o li cura, ho la vaga impressione che il suo falso sorriso si faccia più vero, che i suoi scherzi diventino più naturali, che si diverta insieme a loro. Come può essere malvagio un uomo che ama i bambini e gli animali in quel modo? Inoltre non beve mai troppo e non frequenta abitualmente i postriboli. Ammirevole. Il modo in cui si rapporta con gli altri, lavora e vive riflette una mentalità aperta, preparata, versatile e sempre pronta ad affrontare ogni problema, ma mantiene il pragmatismo e la disillusione che caratterizza i Mamūluk. Porta dentro di sé un gran peso e una gran voglia di cambiamento, però al contempo la sua indipendenza lo fa sentire spaesato, immobile. È un ribelle intraprendente e creativo, qualità piuttosto atipiche per un Mamūluk. Il suo problema è riuscire a gestire la sua libertà, dopo aver scoperto un nuovo mondo senza padroni. È un’anima errante alla ricerca di un destino. Ha un cuore bramoso di scoprire nuovi modi di vivere. Personaggio affascinante.
Comunque sia, sì. Sono più che sicura che sia il vostro uomo. È abituato a uccidere e a ricevere ordini come tutti i Mamūluk della peggiore schiatta. L’unica differenza è che possiede una abilità e accortezza sopra la media. Una volta ottenuto il mandato di arresto, vi assicuro che vi darà filo da torcere. Conoscendo l’efficienza della guardia cittadina e della divisione speciale, affermerei con una certa confidenza che difficilmente riuscirete a catturarlo.
Ponderate con attenzione le vostre mosse.
Un affettuoso saluto e tanti auguri di buona fortuna.
Shiho H. Huakinda Così concluse Huakinda. La parola di un membro della Sezione Psionica della Psichiatria Anticrimine bastò e avanzò per convincere i miei superiori a riaprire il caso. Purtroppo, quando cercai di ottenere il mandato di arresto, ce lo negarono senza darci ragioni apparentemente valide. Grazie ad alcune mie conoscenze all’interno degli archivi, capii il perché di tutto questo. Riuscii a raccattare il permesso di consultare alcuni documenti riservati riguardanti Azad. Con mio grande sconcerto e scandalosa sorpresa, scoprii che il nostro amico rientrava tra i 144 informatori segreti tutelati a disposizione della guardia cittadina e che nel corso dei due anni passati aveva contribuito a risolvere 16 casi, 3 dei quali portarono all’arresto e alla condanna di tre grandi capi di efferati cartelli malavitosi di Portalorica, e fu insignito di ben quattro riconoscenze per questo. Uno di questi casi valse addirittura la promozione del nostro Ufficiale Capo Beran Cornax. Riconobbi persino alcuni casi in cui lavorai io stessa. Infatti, dopo aver letto quei rapporti, rammentai di aver già incontrato Azad due o tre volte e di averci già interloquito; e proprio mentre il caso Al Patchouli era aperto! Avevo sotto il mio naso l’assassino che avevamo inseguito con innominabili pene per ben due anni e mai me ne ero avveduta. Mi vergogno di me stessa. Il Dottor Azad godeva dell’immunità, e così anche il suo alter ego, Al Patchouli. Non potevamo arrestarlo, avevamo le mani legate. Ma oltre al danno avemmo anche la beffa. Una beffa positiva, ma una beffa rimane sempre una beffa: il caso fu archiviato come “risolto” e i nostri superiori garantirono delle belle promozioni a me e ad alcuni miei sottoposti più meritevoli, più una decorazione per me, come riconoscenza per l’eccellente lavoro svolto. Robe da non credere. Che cosa potrei dire? Ho svolto la mia mansione. Ringrazio coloro che mi hanno sostenuto e incoraggiato in questi due avventurosi anni, tutti i membri della mia straordinaria squadra, che si sono dimostrati irriducibili anche davanti alle difficoltà più ostiche, Shiho Huakinda per averci prestato tanto gentilmente la sua abilità, ma soprattutto Al Patchouli, la cui esistenza ci ha permesso di imbarcamenarci in questa impresa (e che ha avuto la sfacciataggine di inviarmi dei doni accompagnati da una lettera di felicitazioni per la chiusura del caso). Vi prego di voler gradire i miei più distinti saluti. Sergente Linda Lyoomin PS: Se qualcuno dovesse rivedere Al Patchouli, rammenti di ringraziarlo da parte mia per lo splendido soldatino a cavallo in legno (lo tengo tuttora sopra il mio caminetto come ricordo) e per le paste che mi sono RIFIUTATA di mangiare. Ho apprezzato il pensiero, ma è una questione di principio. Chiederei inoltre di suggerirgli garbatamente di imparare la nostra lingua prima di mettersi a scrivere lettere (lo giuro! Ci sono errori grammaticali osceni. Ho dovuto rivolgermi alla Sezione Crittografia per tradurre quella calligrafia orrenda!) e di astenersi perentoriamente dall’appellarmi nuovamente “mia elfa piedipiatti preferita”. Non è divertente e lo ritengo estremamente scortese nei confronti di una signorina.
Փ ~ Storia di un uomo senza destino ~ Փ Il venerabile bardo Bachik Alesti fu uno dei più famosi e apprezzati personaggi dell’Akerat. Nella sua silloge Cronache di uomini figli del vento e del fuoco compare la singolare storia di un uomo che accettò di farsi intervistare dal Grande Vate del Sud. Quest’uomo era un ex Mamūluk di nome Vahram Nenad Akrtchyan, fuggito dalla caduta capitale imperiale El Kahir. Sotto riporterò un sunto approssimativo – e di certo più rozzamente narrato – di questa lunga cronaca. Ammonisco che alcune parti potrebbero essere state mutate o romanzate dall’estro artistico del Grande Cantore.Vahram nacque in una tribù di cavalieri degli altopiani, sull’altopiano di Karabakh. Aveva un padre, una madre, un fratello maggiore e una sorella minore. Di suo padre ricordava solo le sue grandi mani, che lo sollevavano per metterlo per la prima volta in sella a un cavallo. Morì di malattia. Quale non lo seppe mai. Era troppo piccolo per capire. Lo stesso valse per sua sorella. Morì durante un inverno. Inedia probabilmente; nelle terre selvagge capita di frequente.
Poi arrivarono gli Shiiti: gli sciacalli schiavisti al servizio del Sulimanato. Sterminarono tutti i vecchi, le donne e le bambine del villaggio. Uccisero sua madre. E deportarono Vahram e suo fratello maggiore Nenad alla caserma-prigione di Yaris, nell’Impero Sulimano. Lì furono costretti ad addestramenti oltre ogni limite di sopportazione umana. Molti loro compagni morirono, ma loro sopravvissero, e dopo due anni di torture furono assegnati al Reparto di Cavalleria Mamūluk Aramana. Cavalleria leggera.
Fare parte degli schiavi guerrieri non era poi così male: in cambio della fedeltà assoluta, i Mamūluk avevano il diritto di depredare e saccheggiare a loro piacimento i territori nemici, tornare più o meno nella gloria e godersi le ricchezze conquistate. E poi viaggiare e vedere le terre ai cinque angoli del grande deserto era piuttosto stimolante. Combatterono molti nemici diversi. Barbari del Sud, le strane creature dalla pelle verde che provenivano dalla palude, i nomadi dell’Est... I due fratelli si fecero un nome. Soprattutto Nenad. Vahram lo amava molto, lo considerava il suo esempio ideale da seguire. Era abile, intraprendente, coraggioso, carismatico, affascinante. Mentre Vahram era introverso, cauto, solitario, schematico. I suoi camerati lo detestavano. Era un arciere eccellente, uno schermidore notevole, ma non un buon soldato, stando ai suoi superiori. Dicevano: “sta sempre fermo a guardare, non si avvicina, ha paura del nemico”. In realtà si avvicinava eccome al nemico, ma aveva l’innata accortezza di entrarci nel posto e nel momento giusto. Non tirava frecce a casaccio sulle linee nemiche, aveva una strategia ben precisa: prima della battaglia sfilava dalla bisaccia il suo cannocchiale e scrutava le formazioni nemiche. Non era l’unico ad avere strumenti del genere; faceva parte dell’equipaggiamento d’ordinanza dei graduati, e lui era divenuto capitano già a 17 anni. Individuava i gerarchi nemici più vulnerabili, poi durante le manovre offensive, che generalmente si limitavano ad assalti di disturbo mordi e fuggi, cercava di restare in disparte, non troppo, quanto bastava per non farsi notare dai suoi superiori, poiché cercando di tenersi troppo fuori si rischiava di essere accusati di codardia, un reato punibile anche con la morte, e osservava i movimenti della battaglia. Quando uno degli ufficiali o capitani nemici, che spesso emergevano dalle file di elmi, in groppa ai loro cavalli, sembrava esporsi troppo, una freccia ben piazzata schizzava fuori dal nugolo di arcieri a cavallo... e l’armata nemica si trovava con un graduato in meno, con uno squadrone senza ordini o nella zizzania più totale.
Ogni tanto arrivava persino ad avvicinarsi a soli pochi metri dalle linee per colpire i graduati più distanti. Un ottimo assassino, ma un pessimo capitano. Raramente ai suoi uomini dava ordini più complessi di: “seguite la squadra del capitano Belik e assistetela” oppure “seguite gli altri, fate un po’ di casino e poi ritiratevi”. Ci misero un bel po’ a notare il suo talento. In 17 scontri a cui aveva preso parte, aveva ucciso ben 67 graduati, tra cui 54 tra ufficiali e capitani, 11 campioni e addirittura due generali, più un numero imprecisato di miliziani.
Non appena i suoi superiori videro di cosa era capace, la sua squadra ebbe un capitano nuovo di zecca, mentre Vahram fu trasferito al reparto Tiratori Scelti, per poi essere nuovamente rispedito in caserma poche settimane dopo per un riaddestramento specifico. Sei mesi più tardi entrò a far parte delle Squadre d’Assalto della neonata Armata dei Lancieri Neri Mamūluk, una divisione militare di cavalleria media che univa la corazzatura e le formazioni di lancieri dei catafratti turkemanni con le tecniche degli arcieri a cavallo aramani. Diverrà la più versatile, grande e famosa forza armata di schiavi guerrieri dell’Impero Sulimano.
Accadde proprio durante il suo riaddestramento. Lo svegliarono nel mezzo della notte per consegnargli l’arco di suo fratello. Era morto tre giorni prima, macellato sotto le mura della città di Karostadt dal fuoco spietato di cannoni, moschetti, spingarde e balestre dello Zarinato di Kisev, il grande invasore che ormai da un anno aveva iniziato una campagna di conquista su larga scala verso il Sud. Era stato un banale e stupido errore dei generali: tutti quei cannoni e soldati non avrebbero dovuto trovarsi su quella cortina, ma da un altro lato della città. Fu la sua più grande perdita. Da quel giorno Vahram abbracciò il nome del fratello dentro il suo, per accettarne la scomparsa. Per portarlo sempre con sé. Vahram Nenad Melkonyan.
La campagna contro Kisev fu il trionfo dei Lancieri Neri. Le armate kisevite furono respinte miglia e miglia in profondità nel loro territorio. L’Impero Sulimano vinse l’ultima grande guerra della sua storia. Vahram si distinse in molte occasioni. In genere le missioni della sua squadra consistettero in assalti tattici, infiltrazioni e assassinii. Lavori in cui scoprii di essere assai versato.
Dopo la guerra contro Kisev, Impero Sulimano non si espanse ulteriormente. Seguì un periodo di pace, in cui furono rinforzati i confini e aperte nuove vie commerciali. Le casse imperiali erano malmesse e mantenere l’immenso esercito Mamūluk, quasi più numeroso dell’esercito regolare, era una spesa estremamente esosa. I soldati Mamūluk venivano ricompensati in base al loro valore in battaglia. Molte delle vittorie decisive contro l’esercito kisevita furono gran parte opera dei Lanceri Neri, tanto che esistevano molti Mamūluk che superarono di gran lunga la fascia di benessere più alta che uno schiavo guerriero potesse raggiungere grazie alle sue prestazioni. Molti erano uomini straordinari, veri eroi tra i Mamūluk, altri invece furono solo fortunati o parteciparono alle battaglie giuste, in cui fu la tattica dei generali a permettere la vittoria, indipendentemente dal valore dei soldati. Le squadre d’assalto furono però le più quotate. Esse stesse erano state formate da soldati d’elite scelti appositamente per missioni di grande delicatezza. Quasi la metà de suoi componenti superava la soglia massima. Vahram era tra questi.
La nuova Imperatrice, la Sulimana Alima I, tra la varie riforme che istituì per attenuare il problema, promulgò una legge che permetteva a una cerchia scelta di privati nobili di comprare all’asta i Mamūluk più talentuosi. Così da affievolire almeno in parte le spese di mantenimento dell’immenso esercito di schiavi. Anche Vahram fu messo all’asta e acquistato da un facoltoso uomo di cultura. Si chiamava Yussuf Al’Sahid. Questi privati potevano implementare Mamūluk come meglio aggradava loro, a patto che non li usassero per minacciare l’autorità dell’potere centrale. Il più delle volte i Mamūluk divennero guardie personali, sicari, assassini, gladiatori, ma, i più dotati, anche sopraintendenti o supervisori delle attività economiche dei loro padroni. Diversi nobili acquistavano i Mamūluk per creare squadre d’assalto di loro proprietà e metterle a disposizione dell’esercito regolare in cambio di un contributo.
Al servizio di Yussuf, Vahram viaggiò in lungo e in largo come guardia del corpo, accompagnandolo nelle suoi viaggi e nelle sue spedizioni. Vahram faceva parte di una squadra di altri Mamūluk, ma Yussuf seppe notare il suo interesse, la sua grande meticolosità nel pianificare ogni cosa che faceva, nel catalogare ogni persona che incontrava, il suo entusiasmo nell’imparare nuovi mestieri. Anche se erano schiavo e padrone, dialogavano spesso e volentieri. Yussuf era un vecchio fiero, autoritario, duro, pragmatico e testardo con i suoi figli quanto con i suoi servi. Decise comunque di prendere sotto la sua ala Vahram come se fosse un suo discepolo e assistente prediletto, forse non tanto perché gli volesse particolarmente bene, ma perché lo riteneva l’elemento della sua guardia di maggior talento, e che coltivare quel talento avrebbe dato sia un componente più versatile alla sua squadra, sia un maggior valore monetario al suo acquisto, nel caso avesse pianificato di venderlo, in futuro. Gli insegnò l’anatomia, l’alchimia, la medicina, la botanica, l’entomologia, l’astronomia, le lingue e in minor rilievo altre scienze che sarebbero potute tornargli utili. Il risultato lo soddisfò straordinariamente.
Vahram non era il capo delle guardie di Yussuf, non era tagliato per comandare, ma divenne presto una delle persone più rispettabili al suo servizio. Quando andava in missione con la sua squadra, era un elemento immancabile: le sue conoscenze in medicina e in veleni lo rendevano un ottimo acquisto per qualsiasi compagnia di ventura, la sua preparazione davanti a ogni evenienza gli fece guadagnare la stima di tutti i suoi colleghi. Ogni volta che spuntava un problema, lui era sempre la persona giusta. Tutti lo chiamavano Tabib Patchouli, il Dottor Patchouli, per il piacevole odore dei fiori ed erbe che era solito lavorare, che lasciava dietro di sé ogni volta che passava.
Quando andava in missione da solo, invece, cambiava completamente. Si sentiva perfettamente a suo agio. Senza vincoli, senza distrazioni. Non era agile quanto un assassino, non era intelligente o acculturato quanto un mago, non era nemmeno muscoloso o affascinate, ma era metodico, minuzioso, cavilloso oltre ogni dire. E furbo. Molto furbo. Ma soprattutto era un Mamūluk, e ben pochi avevano il senno di sbarrare la strada a un Mamūluk. La sua abilità con l’arco e con la lancia era un vero deterrente. All’epoca aveva 22 anni. Rimase al servizio di Yussuf per cinque anni, finché non accadde l'oscuro e sanguinoso colpo di stato...
Lo stregone Yusiris Machbeth, Gran Consigliere Imperiale, ordiva da anni complotti contro l’Imperatrice. Aveva in segreto molti sostenitori sia nella nobiltà, sia nei Mamūluk. Aspettò che i tempi fossero maturi, poi s’incamminò verso le montagne dell’Ovest. Dove compì il rituale che segnò la fine dell’Impero Sulimano. Evocò dagli inferi il demone Horun, nella oscura speranza di prendere il controllo di un’invincibile armata di demoni, ma fu egli a soccombere. Horun lo soggiogò al suo volere. Quella notte una nebbia nera avvolse la capitale e il palazzo imperiale. Spettri neri strisciarono silenziosi all’interno delle corti del palazzo e ne aprirono le porte all’orda oscura. Così iniziò il massacro della stirpe del Sulimano. Solo l’Imperatrice fu risparmiata, ma il suo destino non fu di certo migliore, la strapparono dal suo letto e la rinchiusero nelle più profonde segrete del palazzo, a impazzire tra atroci torture ed esperimenti demoniaci. Da allora Yusiris Machbeth siede sul trono imperiale, e al suo fianco, vicino al suo orecchio vi era e vi è ancora Horun l’Effimero.
Quella notte morirono anche tutti i sostenitori dell’Imperatrice. Yussuf lo era, e non fu risparmiato. Vahram e i suoi compagni arrivarono troppo tardi. Solo quando videro la città nel caos, riuscirono a farsi una vaga idea della situazione. Decisero di fuggire. Perse molti amici, tentando di farsi strada verso le porte della città tra le orde demoniache e non morte che l’avevano completamente invasa. Raggiunsero il deserto. L’unica via per la salvezza era attraversarlo, raggiungere le terre verdeggianti e i porti a est.
A cavallo, senza cibo, poca acqua... dei venticinque compagni con cui era partito, solo sei riuscirono ad arrivare all’altro lato del grande deserto. Durante la traversata, Vahram, con grande dolore, perse anche Shahira, la sua puledra, la sua migliore amica e compagna in tutte le sue battaglie.
Giunti ai porti orientali, si divisero, ognuno per la sua strada. Confuso, stordito, non gli rimaneva nulla, se non l’arco di suo fratello Nedad, la sua lancia preferita, Yen Kaytsak, il suo mantello nero, l’unico ricordo rimastogli dei Mamūluk e pochi spiccioli e oggetti di valore. Non aveva più nemmeno un padrone, era libero; e questo lo spaventava più di ogni altra cosa. La libertà... una sensazione che non aveva mai provato, che non riusciva a capire.
Solo e ramingo, Vahram decise di andare a Sud via mare, sul Qatja-Yakin. Lontano da tutta quella morte. Forse lì avrebbe trovato un qualche destino che lo aspettava. Fosse anche l’estremo destino.
Giunto nella città di Portalorica, visse come vagabondo per qualche tempo, poi trovò qualcuno che lo potesse aiutare. Alla malavita organizzata di certo un tipo del genere non poteva passare inosservato. Vahram provò per la prima volta l’ebbrezza di essere pagato.
Cominciò a destreggiarsi in diversi lavori. Di giorno era un medico itinerante dagli abiti vivaci e allegri che esercitava utilizzando il suo vecchio soprannome, Dottor Patchouli, ma su richiesta poteva trasformarsi in calzolaio, droghiere, chi più ne ha, più ne metta, sapeva fare di tutto, aveva imparato ogni mestiere. Di notte, invece, era un micidiale sicario prezzolato dal volto coperto, che colpiva avvolto in un ampio mantello nero. E con una formazione coma la sua se ne trovavano ben pochi da quelle parti. Diligente, versatile, letale e pure acculturato.
Nel giro di un anno, la sua fama di assassino si diffuse per tutta la città. Poiché proveniva dai regni desertici del nord gli affibbiarono il nome “Al Patchouli”, storpiando il suo vecchio soprannome. Ben pochi lo avevano visto in faccia, quando lavorava come assassino, e pochi sapevano il suo nome completo, per cui la maggior parte delle persone lo chiamava solamente Al Patchouli. Ovviamente sfumò tutti i collegamenti che potevano esserci con l’allegro medico cambiando il suo nome in Dottor Azad.
Un giorno però commise un madornale errore. Una notte, accecato dai fumi dell'alcol, dentro una taverna se la prese con l’uomo sbagliato. Anzi, sarebbe meglio dire che fu l’altro uomo a prendersela con l’uomo sbagliato, visto che se la cavò con la mandibola, il naso e uno zigomo rotti e qualche costola incrinata. Questo giovane era però il figlio del boss malavitoso Gomis Glittertooth, il quale fece carte false pur di riuscire a scoprire la sua vera identità di Vahram.
Dopo essere scampato ad assidui tentativi di omicidio, Vahram decise che era ora di sparire. Così scappò ancora una volta, attraverso il Plakard, alla volta di Taanach. Forse lì avrebbe trovato un nuovo destino.
Ma qualcosa di oscuro e terrificante segue questo individuo, una fantasma del suo passato, un orrore ancestrale. Pochi uomini potrebbero comprendere quanti demoni tormentano la sua vita. Il Vate scriveva di un certo “mostro” che percepiva effimero e agghiacciante in sua presenza.
Quel che è certo è che la via di questa persona è disseminata di tenebre, di dolore, di ombre... Forse l’oblio l’avrà ormai reclamato.
Edited by Orto33 - 25/3/2015, 00:00
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